Com’è, dov’è, e che cosa vuole Dio?

A colloquio con Peter Seewald nel libro “Dio e il mondo”

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ROMA, giovedì, 23 giugno 2005 (ZENIT.org).-Pubblichiamo per intero il secondo capitolo del volume dal titolo “Dio e il mondo. Essere cristiani nel nuovo millennio” (Edizioni San Paolo, 2001), frutto del colloquio, tenutosi nell’abbazia benedettina di Montecassino, fra il cardinale Joseph Ratzinger, allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, e il giornalista e redattore tedesco Peter Seewald.

Veniamo all’essere originario, come lo chiama Lei, all’origine e al fine dell’esistenza, Dio. La professione di fede cristiana inizia con la parola “Credo”. Comunque i cristiani non credono genericamente in una forza, in una natura superiore.

Questa affermazione “Credo” è un atto consapevole del soggetto. Un atto in cui si intrecciano volontà e ragione, illuminazione e ispirazione. Qui si radica questa fiducia, ma anche questa tensione quest’uscire fuori da sé, questo proiettarsi verso Dio. E non si tratta di riferirsi a una qualsivoglia potenza superiore, ma a Dio che mi conosce e che mi parla. Che è davvero un soggetto per quanto tanto più alto con cui posso entrare rapporto e che si relazione con me.

Cosa intende quando dice che Dio è anche un “soggetto”?

Intendo dire che è una persona. Dio non è la formula matematica che compendia l’universo. Non è nello spirito del mondo. Non è l’imprecisata armonia della natura o un innominabile “infinito”, ma il creatore della natura, l’origine dell’armonia, il Dio vivente, il Signore.

Un attimo, Lei crede che Dio sia una persona, che possa ascoltare, vedere, avere dei sentimenti…?

Sì, Dio possiede i tratti essenziali di ciò che chiamiamo persona, cioè consapevolezza, discernimento e amore. E’ da questo punto di vista qualcuno in grado di parlare di ascoltare. Questi sono, credo, i tratti essenziali di Dio. La natura può anche essere degna di ammirazione. Un cielo stellato è grandioso. Ma rimane pur sempre un’ammirazione impersonale perché, in ultima analisi, mi fa sentire una piccola rotella di un meccanismo che mi sovrasta.

Il Dio vero è qualcosa di più. Non è semplicemente natura, ma è ciò che la precede e che la legge. È un essere in grado di pensare, parlare, amare e ascoltare. E Dio, ci dice la fede, è per sua essenza relazione. Intendiamo questo quando ci riferiamo alla sua natura trinitaria. Poiché è in sé relazione, è anche in grado di creare esseri che sono a loro volta relazione e che si possono richiamare a lui perché lui si è sentito toccare da loro.

“Chi entra nella logica di questo Credo”, ha detto una volta, “compie davvero una rinuncia alle leggi del mondo in cui vive”.

Intendevo dire che il mistero della Risurrezione di Cristo ci consente di superare la morte. Naturalmente come uomini che abitano questo mondo continueranno ad essere sottoposti alle leggi naturali. In natura vige la legge delle incessanti trasformazioni. Ma in Cristo vediamo che l’uomo ha qualcosa di definitivo. Non è soltanto un elemento inserito nel grande processo delle trasformazioni, ma è e rimane uno degli scopi della creazione. Da questo punto di vista si sottrae al vortice dell’eterno dischiudersi e perire per essere accolto nella costanza dell’amore creativo di Dio.

Perché si rappresenta Dio con un triangolo al cui centro sta un occhio che ci fissa in maniera penetrante?

Il triangolo è un tentativo di rappresentare il mistero dell’unità trinitaria. Si vuole esprimere il confluire della tripartizione trinitaria in un’unica realtà e la fusione della triplice relazione d’amore in un unità superiore. L’immagine dell’occhio, molto antica, è per eccellenza il simbolo del conoscere che attraversa l’intera storia della religione. Dice che Dio è il Dio che vede e che l’uomo è l’oggetto della sua attenzione, che acquisisce a sua volta, tramite Dio, la facoltà di vedere.

Naturalmente in quest’immagine è insito un pericolo. Nell’Illuminismo ha contribuito in maniera significativa alla presa di distanza da Dio. Perché da un Dio che mi osserva inesorabilmente ovunque io sia, che non mi concede mai uno spazio mio – la mia privacy si direbbe oggi – da un simile Dio ci si separa volentieri.

Considerare il vedere come una minaccia, come un pericoloso osservare che mi sottrae la libertà è un’interpretazione sbagliata che capovolge l’immagine autentica di Dio. Il simbolo dell’occhio è interpretato correttamente se vi si vede il riflesso di un atteggiamento di eterna premurosità, se mi comunica il fatto che non sono mai solo, che c’è sempre qualcuno che mi ama, che mi sostiene e mi sorregge.

Nella tradizione ebraica è presente l’idea che Dio, prima di creare il mondo, esisteva in latenza. Le sue caratteristiche non avevano ancora conosciuto un’attualizzazione. Conseguentemente Dio aveva bisogno del mondo per diventare quello che è. Perché, come potrebbe esserci un re senza popolo? Come Dio potrebbe amare, se non c’è nessuno da amare? La domanda è questa: cosa c’era prima dell’inizio? Chi ha creato Dio?

Quest’idea proviene da una delle tante tradizioni ebraiche. Concezioni simili sono poi emerse successivamente anche nella mistica cristiana, per esempio in Meister Eckart. In ogni caso non corrispondono all’immagine biblica originaria e paiono sottintendere impossibilità per Dio di essere se stesso se non creando.

No, il Dio cristiano, il Dio che si rivela a noi, è Dio. “Io sono colui che sono”, dice. A questo punto si è già implicitamente risposto anche alla domanda successiva e che presuppone una serie infinita di interrogativi autogenerantisi: Chi l’ha creato, e poi: Chi ha creato colui che l’ha creato e così via. E diventa superfluo anche un interrogativo come questo: lo spirito di Dio creatore rappresenta la pienezza dell’essere, posta al di là del divenire e del perire?

Penso che lo si possa formulare in questi termini: la realtà stessa è in se stessa creativa. Dio non ha bisogno del mondo. La fede cristiana e anche quella veterotestamentaria l’hanno sempre energicamente sottolineato. Al contrario degli dei, che hanno bisogno di uomini che li mantengano e li nutrano, Dio di per sé non ha bisogno di loro. È l’unico, l’eterno la pienezza dell’essere. La fede trinitaria ci dice che lui è colui che ama in sé, in questo eterno ciclo dell’amore che è insieme suprema unità e alterità e condivisione dell’esistenza.

D’altro canto l’idea che Dio è amore in implica effettivamente l’interrogativo su quale sia l’oggetto del suo amore. Questo però si dissolve nella fede nell’unità trinità di Dio, che fa dono di sé e si fa Figlio, si riunisce al Padre ed è Spirito Santo. In questo senso, dunque, la creazione è un atto completamente libero e anche la tradizione cristiana (e con essa parti importanti della tradizione ebraica) hanno sempre sottolineato che la creazione non è per Dio una necessità ma una libera scelta.

Ma perché Dio doveva farsi carico di questa avventura della creazione del mondo e dell’uomo?

Quest’interrogativo, sulle motivazioni di un atto, quello della creazione, di cui Dio poteva anche fare a meno, ha terribilmente tormentato Romano Guardini, che ha preso atto e dato espressione a tutto ciò che nella creazione gronda di dolore. Non abbiamo una risposta. Possiamo solo supporre che l’abbia voluto, nonostante tutto; che volesse una creatura altra da lui, che potesse riconoscerlo e ampliare così dire il raggio del suo amore.

Gli antichi hanno tentato di esprimerlo con un concerto filosofico: il bene ha in sé la pulsione a parteciparsi. E da questo punto di vista colui che è il bene per eccellenza tende a traboccare. Nemmeno a quest’interrogativo c’è una risposta definitiva. Ma l’essenziale è che la creazione non è un libero dono di sé e non per così dire un’esigenza di Dio, che sarebbe altrimenti solo un Dio dimezzato e po
trebbe quindi offrire solo una speranza dimezzata.

Dio è uomo o donna?

Dio è Dio. Non è né uomo né donna, ma è al di là dei generi. È il totalmente Altro. Credo che sia importante ricordare che per la fede biblica è sempre stato chiaro che Dio non è né uomo né donna ma appunto Dio e che uomo e donna sono la sua immagine. Entrambi provengono da lui ed entrambi sono racchiusi potenzialmente lui.

Il problema è però che la Bibbia si rivolge a Dio come a un Padre e lo raffigura conseguentemente con un’immagine maschile.

Tanto per incominciare dobbiamo dire che, se è vero che effettivamente la Bibbia ricorre nell’invocazione delle preghiere all’immagine paterna, non a quella materna, è altrettanto vero che nelle metafore di Dio gli attribuisce anche caratteristiche femminili.

Quando ad esempio si parla della pietà di Dio, non si ricorre al termine astratto di “pietà”, ma a un termine gravido di corporeità, “rachamin”, il “grembo materno” di Dio, che simboleggia appunto la pietà. Grazie a questa parola viene visualizzata la maternità di Dio anche nel suo significato spirituale. Tutti i termini simbolici riferiti a Dio concorrono a ricomporre un mosaico grazie al quale la Bibbia mette in chiaro la provenienza da Dio di uomo e donna. Ha creato entrambi. Entrambi sono conseguentemente racchiusi in lui – e tuttavia lui è al di là di entrambi.

Rimane l’interrogativo perché tutto ciò non abbia trovato espressione anche nell’invocazione delle preghiere.

Sì. Perché ci si è limitati così rigidamente al Padre? E poi c’è la successiva domanda, ancora più tagliente: perché Dio è venuto a noi come “Figlio”? Perché Dio facendosi uomo si è incarnato in una persona di sesso maschile? E perché questo Figlio di Dio ci ha insegnato a sua volta a rivolgerci insieme a lui a Dio chiamandolo Padre, trasformando questa denominazione di Padre in qualcosa di più di un’immagine che nel corso della storia della fede può anche essere superata, cioè nella parola che il Figlio stesso ci ha insegnato?

Lei conosce la risposta?

Vorrei anzitutto ricordare che la parola “Padre” rimane ovviamente una metafora. Continua ad essere vero che Dio non è né uomo né donna ma appunto Dio. Si tratta comunque di un’immagine che Cristo ci ha davvero, inequivocabilmente, consegnato perché noi vi ricorressimo nella preghiera, un’immagine tramite cui ci vuole comunicare qualcosa della visione di Dio.

Ma perché? Ci troviamo attualmente nel pieno di una nuova fase di riflessione su questa questione, ma credo che, in ultima analisi, non siamo in grado di trovare una risposta. Ciò che possiamo dire sono forse due cose. Innanzitutto, le religioni diffuse nell’area circostante a Israele conoscevano coppia di divinità, una dignità maschile e una divinità femminile. Il monachesimo, al contrario, ha escluso le coppia di divinità e ha invece assurto a sposa del Signore l’umanità eletta, o meglio il popolo d’Israele.

In questa storia d’elezione si adempie il mistero dell’amore che Dio nutre per il suo popolo, simile a quello di un uomo per la sua sposa. Da questo punto di vista l’immagine femminile viene un certo qual modo proiettata su Israele e sulla Chiesa e infine personalizzata in maniera particolare in Maria. In secondo luogo, laddove si è fatto ricorso a metafore materne del divino queste hanno trasformato la concezione della creazione fino a che, all’idea di creazione, si è sostituita quella di emanazione, di parto, e poi ne sono scaturiti modelli quasi necessariamente panteistici. Al contrario, il Dio rappresentato nell’immagine paterna che tramite la Parola e proprio da qui deriva la specifica differenza tra creazione e creatura.

Anche se Dio non è né uomo né donna, siamo in grado di dire com’è? L’Antico Testamento ci riferisce di esplosioni di collera e di successive punizioni. “Perché io, il Signore tuo Dio,”ci dice qui, “sono un Dio geloso: in coloro che mi sono nemici, perseguo la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione”. Dio è ancora oggi collerico come allora o è cambiato?

Per prima cosa vorrei completare la citazione. Vi si dice infatti: “le mie punizioni colpiranno fino alla terza o alla quarta generazione, ma la mia misericordia si estenderà oltre le mille generazioni”. La parola profetica riflette dunque una simmetria tra la collera e la misericordia. La misericordia è moltiplicata per mille, se raffrontata con l’ira e da questo punto di vista questo passo significa che, per quanto abbia meritato la punizione e mi sia posto al di fuori del suo amore, ho la certezza che la misericordia di Dio è mille volte più grande.

Ma questo Dio ebraico-cristiano mostra anche un volto irato.

La collera di Dio è espressione del fatto che ho vissuto contraddicendo quell’amore che costituisce l’essenza di Dio. Chi si allontana da Dio, che si allontana dal bene, sperimenta la sua collera. Chi si pone al di fuori dell’amore, sprofonda nel negativo. Non è quindi un colpo inferto da un dittatore assetato di potere, ma è soltanto l’espressione della logica intrinseca a un’azione.

Se io mi pongo al di fuori di ciò che è conforme alla mia idea di creazione, al di fuori dell’amore che mi sorregge, allora precipito nel vuoto, nelle tenebre. Allora non mi trovo più, per così dire, nella sfera dell’amore, ma in una sfera che può essere definita come quella della collera.

Le punizioni di Dio non sono il frutto di norme poliziesche da lui stesso imposte sadicamente. “Punizione di Dio” è la condizione che si sperimenta quando si smarrisce la retta via e si subiscono le conseguenze dell’essersi incamminati su una strada sbagliata, lontano da quell’esistenza che Dio aveva pensato per noi.

Ma non siamo anche tenuti a nutrire un senso di dipendenza, e addirittura di minorità se si dice: “Dio è colui che vi infonde la volontà e la sua realizzazione”. Che razza di Dio è uno che deve sempre dimostrarci che senza di lui non siamo niente? E viceversa, non è anche responsabile nei nostri confronti? Perché, chi di noi è responsabile della propria presenza su questa terra? Anzi ci sono abbastanza persone che non ne sono affatto entusiaste.

È importante che la Chiesa ci trasmetta un’immagine di Dio grandiosa ma scevra da falsi tratti terrorizzanti e minacciosi. Tratti che invece hanno gravato negativamente e tuttora forse gravano sporadicamente in una parte della catechesi. Dobbiamo invece rappresentare Dio nella sua grandezza, ma sempre a partire da Cristo, un Dio che ci concede un margine di libertà molto ampio.

Talvolta vorremmo addirittura che ci parlasse più chiaramente. Altre volte ci chiediamo invece: perché ci lascia tutto questo spazio di manovra? Perché concede al male tutta questa libertà e questo potere? Perché non interviene?

Continuiamo a soffermarci su Dio con la domanda su dove e come possiamo trovarlo. Possiamo ricorre a un breve racconto. Una volta una madre portò suo figlio dal rabbino. Questi allora chiese al ragazzo: “Ti do un fiorino se mi sai dire dove sta Dio”. Il ragazzo non ebbe bisogno di riflettere a lungo e rispose: “E io te ne do due si mi sai dire dove non sta”. Nel Libro della Sapienza si dice che Dio “ si lascia trovare da quanti non lo tentano, si mostra a coloro che non ricusano di credere in lui”. Ma dov’è Dio esattamente?

Iniziamo dal Libro della Sapienza. Lì c’è un passo che mi pare molto attuale: “Dio si lascia trovare da quanti non lo tentano” significa che non si lascia trovare da coloro che vogliono metterlo alla prova. Questa verità era già conosciuta nel mondo ellenistico e si è conservata ancora oggi molto pregnante. Se vogliamo mettere Dio alla prova – ci se o non ci sei? – o mettiamo in atto tentativi che dovrebbero nelle nostre intenzioni spingerlo a reagire, se ne facciamo un oggetto di sper
imentazione, allora assumiamo un atteggiamento che ci impedisce di trovarlo. Dio non si sottopone ad alcun esperimento. Non è qualcosa che si lasci manipolare dall’uomo.

Un mio amico mi ha detto: Io non avverto alcuna presenza, nemmeno quando vado in chiesa la domenica. Vedo solo che non esiste nulla.

Dio non è qualcosa che si possa costringere a urlare in determinati momenti la propria presenza. Troviamo Dio se rinunciamo a sottoporlo ai criteri di falsificabilità dell’esperimento moderno e di dimostrazione dell’esistenza e se guardiamo a lui come Dio. E guardare a lui come a Dio significa instaurare con lui tutto un altro rapporto.

Le cose materiali posso indagarle da un punto di vista operativo e sottoporle a coercizione perché mi sono sottoposte. Ma già un altro essere umano non sono in grado di capirlo se lo tratto in quel modo. Al contrario, sono in grado di cogliere qualcosa della sua personalità solo se inizio a immedesimarmi empaticamente con la sua anima.

Lo stesso avviene con Dio. Posso cercare Dio solo se dismetto i panni del dominatore. Devo invece sviluppare un atteggiamento di disponibilità, di apertura, di ricerca. Devo essere pronto ad attendere con umiltà e a consentirgli di mostrarsi come vuole e non come io vorrei.

Ma dov’è Dio esattamente?

Non è in un luogo preciso, come mostra così bene la sua storiella rabbinica. Detto in positivo: non esiste alcun luogo in cui lui non sia presente perché è dappertutto. Detto in negativo: In nessun modo può essere là dove vi è il peccato. Quando la negazione eleva il non essere a potenza, allora lì lui non è presente.

Dio è dappertutto, e perciò ci sono diversi gradi di approssimazione a Dio perché, quanto più alto è lo stadio dell’essere, tanto più si è vicini a lui. Dove però si dischiudono ragioni e amore, lì si raggiunge una nuova forma di vicinanza a lui, una nuova modalità della sua presenza. Dio è dunque là dove sono presenti fede e speranza e carità, perché, a differenza del peccato, queste disegnano lo spazio che ci consente di penetrare le dimensioni di Dio.
Da questo punto di vista Dio è in tutti quei luoghi in cui accade qualcosa di buono, presente nella sua specificità e, certo, al di là della mera onnipresenza. Possiamo incontrarlo e cogliere una modalità più profonda della sua presenza laddove ci approssimiamo a quelle dimensioni che meglio corrispondono alla sua essenza più intima quelle appunto della verità è dell’amore, del bene in generale.

Questa presenza più profonda… significa forse che Dio non è da qualche parte nell’universo ma è qui mezzo a noi? Presente in ogni singolo uomo.

Sì, lo dice già San Paolo sull’Aeropago rivolgendosi agli Ateniesi. Cita in quell’occasione un poeta greco: In Dio ci muoviamo, di piano e siamo. Che ci fu muoviamo ed esistiamo nell’aura del Dio creatore, è già vero da un punto di vista meramente biologico. Ed è tanto più vero quanto più ci addentriamo nella specifica modalità dell’essere di Dio. Possiamo esprimerlo in questi termini: laddove un uomo fa del bene a un altro uomo, là Dio è particolarmente vicino. Laddove, nella preghiera, qualcuno apre il proprio cuore a Dio, lo avvertirà come particolarmente vicino.

Dio non è una grandezza individuabile secondo categorie fisico-spaziali. La sua vicinanza non è misurabile con i parametri della distanza spaziale, in chilometri o anni luce. La prossimità di Dio è invece una vicinanza fondata sulle categorie dell’essere. Laddove è presente ciò che più riflette e attualizza la sua essenza, laddove sono presenti la verità e il bene, là lo sfioriamo particolarmente, lui che è l’Onnipresente.

Questo però significa anche che non è automaticamente presente, che non è sempre presente.

Da questo punto di vista è sempre presente, come se senza di lui non mi fosse possibile congiungermi al fluire dell’essere, se vogliamo dirlo in questi termini. In questo senso c’è un livello elementare di presenza di Dio che pervade ogni cosa. Ma la dimensione più profonda della prossimità di Dio, quella di cui è stato fatto dono all’uomo, quella può assottigliarsi o addirittura dissolversi o viceversa irrobustirsi.

Un uomo totalmente compenetrato da Dio è interiormente più vicino a Dio di uno che si è allontanato da lui. Pensiamo all’annuncio a Maria. Dio vuole che Maria divenga il suo tempio, il suo tempio vivente, ma questo non significa solo ospitarlo fisicamente. Ma a lei è davvero possibile divenire la dimora di Dio solo in quanto si è interiormente aperta a lui; solo perché si è conformata a lui con tutto il suo essere.

Ma potrebbe anche essere che Dio si ritragga, almeno temporaneamente. Einstein, ad esempio, venerava Dio come architetto dell’universo, ma era anche convinto, in ultima analisi, che Dio non si interessasse più della sua creazione e del destino dell’uomo.

Questa idea di Dio come architetto muove da una concezione di Dio molto limitata. In questa concezione Dio è soltanto l’ipotesi marginale di cui si ha bisogno per poter spiegare la nascita dell’universo. Progetta, per così dire, la totalità del cosmo, che poi si muove di forza propria. Poiché Dio si rapporto al mondo semplicemente come la causa fisica ultima, poi naturalmente, altrettanto semplicemente, esce di scena dopo la creazione. Ora la natura dispone di una propria autonomia, ma Dio non ha più margini d’azione, il suo rapporto con il cuore degli uomini, con quest’altra dimensione dell’essere, semplicemente non è previsto da questa concezione della creazione.
Allora non è più il Dio “vivente” ma un’ipotesi che, in ultima analisi, si tenta di rendere superflua.

Ma anche i teologi parlano di un’ “ assenza di Dio”.

Questa è un’altra faccenda. Già nelle Sacre Scritture ci imbattiamo nel nascondersi di Dio. Dio si nasconde al popolo che non gli obbedisce. Tace. Non manda profeti. E questa notte buia è presente anche nella vita dei santi, che vengono per così dire espulsi in questa sorta di assenza, di silenzio di Dio, come ad esempio Teresa di Lisieux, e devono condividere con i non credenti la sofferenza delle tenebre.

Ma questo comunque non significa che Dio non esiste. E nemmeno che non disponga più della sua forza propria o che non ci ami più. Sono situazioni della storia o dell’esistenza umana in cui l’incapacità dell’uomo di percepire la presenza di Dio opera a sua volta, per usare un’espressione di Martin Buber, un’ “eclissi di Dio”. Di fronte a questa incapacità o non volontà dell’uomo di percepire Dio di richiamarsi a lui, Dio pare essersi ritratto.

Clemente alessandrino, uno dei grandi Padri della Chiesa, disse una volta: “L’uomo è stato creato da Dio, perché desiderato da Dio per se stesso”. Bene, se dunque Dio è amore disinteressato, perché mai dovrebbe insistere nel pretendere da noi venerazione e adorazione?

Il Santo Padre ha ripreso nelle sue encicliche in diversi modi proprio quest’espressione “creato per se stesso”. L’ha mutuata da Immanuel Kant e l’ha sviluppata in maniera originale. Kant aveva detto che l’uomo è l’unico essere che è fine a se stesso, non uno strumento per altri fini. Il Papa dice ora: In effetti l’uomo è in sé un fine ultimo, non è a sua volta utilizzabile per conseguire altri fini.

Questa affermazione rappresenta il presupposto in base a cui garantire protezione al singolo. Perché in questo Dio creatore è riposto il fondamento che esclude il diritto di chicchessia di servirsi di un altro uomo, per quanto povero o debole questi possa essere, per conseguire Dio solo sa quali nobili scopi.

Oggi questa si è dimostrata una leva molto importante per garantire la difesa della dignità umana negli esperimenti sull’uomo o sugli embrioni. Il diritto umano per eccellenza è proprio questo, quello di non essere considerato un mezzo, ma di vedere tutelata la propria inviolabile
dignità. Questo però non autorizza l’uomo a rinchiudersi in se stesso, a rideclinare la propria singola individualità a scopo finale della propria esistenza. Una componente importante della personalità umana è la relazionalità.

Che cosa significa?

Innanzitutto il lui è innata la tendenza ad amare, a relazionarsi con gli altri. Non è un essere autarchico, conchiuso in se stesso, un’isola dell’essere, ma, per sua stessa essenza, relazione. Senza questa relazione, nella mancanza di relazioni si autodistruggerebbe. E proprio in questa sua struttura fondamentale riflettere la natura di Dio. Perché è un Dio che a sua volta è per sua essenza relazione, come c’insegna il dogma trinitario. La relazionalità dell’uomo è quindi innanzitutto di natura interpersonale, ma è predisposta anche come proiezione verso l’infinito, verso la verità, verso l’amore stesso.

Deve necessariamente dispiegarsi in questa direzione?

Sì, ma questo non l’avvilisce. Questa relazione non rende l’uomo un fine, ma gli conferisce grandezza perché sta in rapporto diretto con Dio ed è direttamente voluto da Dio. Non si può perciò considerare il culto di Dio alla stregua di una faccenda esteriore come se Dio volesse essere lodato se avesse bisogno di sentirsi lusingato. Sarebbe ovviamente infantile e in sostanza irritante e ridicolo.

Ma allora cosa vuole?

Interpretare correttamente il senso dell’adorazione significa vivere correttamente il proprio essere come essere relazionale, vivere correttamente l’idea interiore del mio essere. E allora la mia vita si orienta a porsi in sintonia con la volontà di Dio, ad armonizzarsi con la verità e con l’amore. Non si tratta di fare qualcosa che faccia contento Dio. Adorarlo significa accettare la fugacità della nostra esistenza. Accettare di non avere per scopo qualcosa di finito che mi vincoli e di eccedere qualsiasi altro fine. Eccederlo proprio nell’unità interiore con colui che mi ha voluto come suo partner e che proprio su questo ha affondato la libertà che mi ha donato.

Ed è questo che Dio vuole veramente da noi?

Sì.

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ZENIT Staff

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