“Ero ottimista. Ero convinta che le autorità saudite si sarebbero mostrate ragionevoli e avrebbero liberato Raif Badawi.
Fiutavo la libertà, proprio come se mi trovassi io nella sua cella. Attendevo la mia uscita dalla prigione, il momento in cui avrei sentito l’aria fresca, il tepore dei raggi del sole e il momento in cui avrei camminato in libertà assoluta. Sarei ritornato da mia moglie e dalle mie tre figlie.
Provavo quel che avrebbe provato lui. E attendevo il momento della scarcerazione. […] Ero ottimista. Ma la notizia è giunta come uno schiaffo. Dieci anni di prigione, cento frustate e un milione di riyal di ammenda”.
Così l’attivista e docente universitaria Elham Manea ha espresso il 7 maggio 2014 la propria delusione, la propria rabbia, il proprio dolore per la sentenza emessa dal tribunale di Jedda, in Arabia Saudita, nei confronti del blogger Raif Badawi.
Lo scorso gennaio si era tenuta a Roma davanti all’Ambasciata saudita una delle prime manifestazioni per sostenere Badawi. Detenuto dal giugno 2012 nel carcere di Briman a Jedda, viene condannato la prima volta a sette anni e 600 frustate per avere, così recitava la prima lunga sentenza del Tribunale penale del distretto di Jedda, “fondato il sito dei Liberali sauditi” e per avere scritto e pubblicato sullo stesso sito, sul proprio blog, su Facebook e Twitter scritti propri e altrui recanti “offesa ai precetti islamici”, per avere attaccato alcuni ulema e le istituzioni preposte a fare rispettare la sharia, quali la Commissione per la promozione del bene e il divieto del male ovvero la spietata polizia religiosa. Infine per avere con questi atti minato l’ordine pubblico.
Nella stessa sentenza n. 34184394 si propone anche la condanna per apostasia per avere offeso il Profeta, condanna che, come viene spiegato a partire da pagina 16 della sentenza, prevede per tutte le scuole giuridiche, per il Profeta stesso la condanna a morte. Quindi se l’ultima incomprensibile e feroce sentenza è equiparabile già a una condanna a morte, sul capo di Badawi pende ancora l’accusa più grave.
A nulla sono valse le manifestazioni tenutesi lo scorso 3 maggio in Svezia, Svizzera, Canada, Spagna e altri paesi in cui amici, attivisti, Amnesty International, il Center for Inquiry americano. A nulla sono valsi gli scritti, le denunce.
Che la situazione stesse volgendo al peggio, si era intuito lo scorso 15 aprile, quando Walid Abu al-Khair, l’avvocato difensore di Raif Badawi, è stato arrestato con le seguenti accuse: “disobbedienza nei confronti del sovrano”, “mancanza di rispetto nei confronti delle autorità”, “offesa del sistema giudiziario”, “incitare le organizzazioni internazionali contro il Regno saudita” e infine avere fondato illegalmente, ovvero senza autorizzazione, la propria associazione “Monitor of Human Rights in Saudi Arabia”. Abu al-Khair, che già in passato aveva ricevuto minacce, aveva dichiarato: “Non mi pento delle mie azioni, sono nel giusto. Se hai un motivo per cui vivere nella vita, allora tutto diventa più facile.”
Potrebbe sembrare assurdo, ma quanto sta accadendo a Badawi e Abu al-Khair è la diretta conseguenza della legge anti-terrorismo saudita approvata il 16 dicembre 2013. Qui all’articolo 1 viene definita la parola terrorismo: “Qualsiasi atto criminale, conseguenza di un piano individuale o collettivo, diretto o indiretto, che miri ad attentare all’ordine pubblico dello Stato, o a fare vacillare la sicurezza della società o la stabilità dello Stato, o mettere a repentaglio l’unità nazionale o sospendere la legge fondamentale di governabilità e alcuni suoi articoli, o insultare la reputazione dello Stato o la sua posizione, o arrecare danno a una delle sue pubbliche funzioni […]”.
In altre parole, terrorismo è tutto ciò che possa intaccare la stabilità al potere, la macchina dell’odio va colpita solo se colpisce il potere dei Saud. Per questa ragione il Regno saudita da un lato dichiara “organizzazione terroristica” il movimento dei Fratelli musulmani, dall’altro condanna per “attentato all’ordine pubblico” un giovane blogger e il suo avvocato.
Si mette quindi sullo stesso piano chi incita al terrore in modo esplicito rifacendosi al versetto 60 della sura VIII – che recita “E preparate contro di loro forze e cavalli quanto potete, per terrorizzare il nemico di Dio e vostro, e altri ancora, che voi non conoscete ma Dio conosce, e qualsiasi cosa avrete speso sulla via di Dio vi sarà ripagata e non vi sarà fatto torto” – e chi, come Raif Badawi, ha scritto sul proprio blog, in occasione del divieto di festeggiare San Valentino da parte della Commissione per la promozione del bene e il divieto del male, un post dal titolo “Auguri a tutti i popoli della terra per la festa dell’amore, auguri a noi per la virtù.”
Eppure, il 3 marzo 2014 il re ‘Abd Allah ha invitato, come riportava il quotidiano arabo Asharq al-Awsat, a diffondere la cultura della moderazione e la tolleranza nei paesi islamici, parlando di “responsabilità comune” che riguarda “governi, leaders politici e organizzazioni non governative”. Il re saudita se fosse coerente con le proprie parole non consentirebbe che un tribunale saudita accusasse, come si legge a pagina 6 della sentenza, Raif Badawi perché “la sua pagina Facebook piace a un milione di arabi cristiani” quindi quando scrive che “la spada e il Corano sono peggio di una bomba atomica” colpisce ancora di più la propria religione.
Basterebbe leggere le pagine seguenti della sentenza in cui si citano dal Corano ai detti di Maometto, dai teologi ai giuristi musulmani per giustificare la condanna a morte dell’apostata per comprendere che chi predica la violenza, chi si contrappone ai diritti umani fondamentali non è Badawi, non è Abu al-Khair, ma è il Regno Saudita.
Basterebbe ricordare che l’Arabia Saudita è un paese in cui le donne non possono né conseguire la patente né tantomeno guidare, un paese in cui i cristiani non possono indossare la croce né costruire una chiesa, un paese in cui gli sciiti sono discriminati, un paese in cui viene applicata l’interpretazione più rigida della sharia comprensiva di legge del taglione, flagellazione e condanne a morte, proprio come nel caso del giovane Raif Badawi.
Quanto sta accadendo al blogger saudita conferma che quando si condanna il terrorismo e si vogliono tutelare i diritti umani bisogna prima stabilire delle definizioni ben precise perché si potrebbe incorrere nella trappola dei falsi amici. Che Abu al-Khair e Raif Badawi sostengano i diritti umani “sbagliati” risulta chiarissimo da una dichiarazione di Abd Allah ibn Salih al-Ubaid, ex presidente della Società nazionale per i diritti umani, in Arabia Saudita: “Ci sono persone che considerano alcune questioni una violazione dei diritti umani, mentre noi le riteniamo una salvaguardia dei diritti umani – ad esempio le esecuzioni, l’amputazione della mano del ladro, oppure le frustate a un’adultera.
Ci sono persone che ritengono che tutte le punizioni coraniche violino i diritti umani. […] Noi, in Arabia Saudita, siamo parte del mondo per quanto concerne i principi generali dei diritti umani. Ma nel nostro paese rispettiamo le regole della sharia, sicché ciò che ad altri sembra una violazione dei diritti umani è invece per noi un dovere nei confronti di chi ha commesso un reato o un peccato”.
Ebbene il futuro dell’Arabia Saudita e la credibilità delle istituzioni internazionali deve passare attraverso un riconoscimento dei diritti umani universali, quei diritti che non hanno né religione né colore, quei diritti che non devono essere mai relativizzati in nome della sicurezza interna, quei diritti che non possono essere sottoposti a un doppio binario di giudizi
o morale.
E’ questo il motivo per cui la vita di Raif Badawi, marito della giovane Ensaf e padre di tre meravigliose bambine che ora vivono in Canada con il terrore di non poterlo più riabbracciare, sta diventando la cartina di tornasole della volontà di difendere la sacralità della vita di tutti gli essere umani, senza se e senza ma.
E’ l’occasione per l’Arabia Saudita di fare un passo in avanti verso un’interpretazione lucida e aperta della tradizione islamica. D’altronde l’intellettuale tunisino Mohammed Charfi nel suo saggio “Islam et liberté” (Casbah Editions, Algeri 2000) ricordava, affrontando il tema dell’apostasia, alcuni versetti coranici a favore della libertà di coscienza a partire da “Non vi sia costrizione nella fede” (II, 256). Il tutto a dimostrazione che “Dio non è fanatico, mentre gli ulema di ieri, così come gli ulema e gli integralisti di oggi lo sono”.
Il Corano non prescrive quindi che l’apostasia debba essere sanzionata con la condanna a morte. I giuristi islamici, così come viene ribadito nella sentenza di Badawi, giustificano la condanna a morte per il reato di apostasia con il detto del Profeta Maometto: “Colui che cambia religione, uccidetelo” che però è una tradizione poco attendibile, poiché appartiene alla categoria dei detti trasmessi da una sola persona.
Persino il teologo egiziano Gamal al-Banna, fratello del fondatore dei Fratelli Musulmani, ha sentenziato: “Sono apostati. Ma sono liberi di esserlo. Dio dice: “Chi vuole creda, chi non vuole respinga la fede” (XVIII, 29)”. Così come ha rilevato che “il Corano non pone alcun divieto alla libertà di coscienza”. La religione non può essere imposta”.
A questo l’Arabia Saudita si trova a un crocevia: o afferma chiaramente che i diritti umani non esistono sul proprio territorio oppure inizia a rispettarli davvero a partire dal rilascio di Raif badawi e Abu al-Khair.