L'Istat nel 2014 prevede un aumento del prodotto interno lordo italiano (Pil) pari allo 0,7% in termini reali, che seguirebbe alla contrazione registrata nel 2013. Pertanto, nel 2014 la crescita del Pil sarebbe alimentata sia dalla domanda interna al netto delle scorte (+0,4 punti percentuali) sia dalla domanda estera netta (+0,2 punti percentuali). Anche la variazione delle scorte sosterrebbe la crescita seppur in misura contenuta (+0,1 punti percentuali). Sempre nel 2014 le prospettive di una leggera ripresa del ciclo produttivo determinerebbero un recupero dei tassi di accumulazione che tornerebbero su valori positivi (+2,2%).

Il tasso di disoccupazione, in crescita registrerebbe un ulteriore aumento al +12,4%. Naturalmente, precisa l’Istat, in caso di minore crescita mondiale il Pil Italiano (nel 2014) registrerebbe un incremento più contenuto, come conseguenza minor crescita delle esportazioni. Tali cifre furono in parte contestate dall’allora ministro per l’Economia Fabrizio Saccomanni.

In effetti, gli interventi governativi dovrebbero avere un impatto significativo sull’evoluzione del PIL italiano, in particolare se si considerano gli effetti della restituzione dei crediti della Pubblica Amministrazione alle imprese per 20 Miliardi di euro.

Mal che vada, insomma, gli analisti vedono una “ripresina” dietro l’angolo a partire dal 2014 ed un relativo consolidamento nel corso dell’anno.

Alcune considerazioni, tuttavia, dovrebbero indurci ad essere più prudenti. In effetti, due macigni incombono sulla ipotizzata crescita: l’evoluzione del debito pubblico e l’aumento del costo del finanziamento.

Circa il debito, la politica dei sacrifici impostaci da Bruxelles non ne ha comunque frenato la crescita esponenziale. Anzi, essi contribuiscono a far lievitare la spesa, gli oneri posti a carico dell’Italia per il finanziamento ai fondi salva-stati  (il cui contributo Italiano ammonta finora a 17 miliardi di euro) ed il maggior costo del finanziamento del debito esistente, conseguente al peggioramento del rating assegnato al debito italiano.

Un fatto va evidenziato. Le politiche anti-crisi imposte da Bruxelles, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario Internazionale messe in campo da oltre cinque anni hanno richiesto a grandi Paesi  europei come l’Italia, la Spagna e la Francia di impegnarsi in importanti piani di austerità.

Nel contempo gli U.S.A. vivono in una stagnazione che il piano fiscale di Barack Obama non ha certo favorito a superare; invariate, infatti, le stime sugli Stati Uniti che dovrebbero fare da traino alla crescita globale (+2,8% quest'anno e +3% nel 2015).

Ciò premesso, cerchiamo tuttavia di spiegare il perché una politica di austerity non sia in grado di far crescere, quanto meno nel breve periodo, l’economia di un Paese.

Precisiamo che, con il termine austerity, si definisce oggi una politica di taglio delle spese pubbliche col fine di ridurre il deficit . Nella sostanza il mezzo utilizzato è quello della riduzione del livello di servizi offerti a carico della comunità e dell'aumento delle imposte, in particolare delle tasse. Un programma di austerità, in definitiva, mira a dimostrare ai creditori la solvibilità del Paese, dando l’idea che si sta risparmiando per pagare il debito.

Ma vediamo le conseguenze di una tale politica sul Pil. Il Prodotto interno lordo dipende nella sua misura dalla domanda proveniente dai consumi interni, dalla spesa pubblica e dagli investimenti privati. Rileva, inoltre, il saldo netto tra domanda proveniente dall’estero (esportazioni) e domanda interna di beni prodotti fuori del Paese (importazioni).

La principale conseguenza di una politica di austerity è il crollo della domanda interna. Posto, infatti, che la domanda di beni e servizi proveniente dall’operatore pubblico si contrae, il consumo privato (a seguito dell’aumento della pressione fiscale e del clima di generale sfiducia che normalmente accompagna l’austerità) precipita anch’esso.  Ne segue che il Pil non può aumentare, a meno di recuperi di efficienza. In tal ultimo caso, ovvero di politiche economiche che stimolino l’efficienza del sistema, sarà incoraggiata la domanda d’investimenti. I recuperi d’efficienza, infatti, rendono profittevoli investimenti prima non remunerativi.

Tale passaggio (recupero di efficienza = incremento della domanda di beni d’investimento = aumento della produzione) però, come aveva già tempo addietro avvertito l’economista Keynes, non è immediato ed un ruolo importantissimo giocano le cosiddette aspettative. Visto che sul punto esiste ampia letteratura non mi dilungo.

Pertanto, in un contesto internazionale di depressione, una politica di austerity, non è capace di riportare sul sentiero di sviluppo un Paese.

Passiamo al “che fare”?

A mio modo di vedere, il problema cardine della bassa crescita registrata in USA ed Europa negli ultimi anni sta nella contrazione dei consumi privati e nella stagnazione degli investimenti pubblici. La colpa? Più di una, in verità, ma la madre di tutte va trovata nelle politiche fiscali seguite. Negli ultimi anni, infatti, esse hanno realizzato una forte redistribuzione delle imposte che ha premiato gli alti redditi a spese di quelli medio bassi.

Verifichiamo ciò di cui parliamo con uno sguardo ai dati dei debiti pubblici dei maggiori Paesi dell’Occidente.

Per esaminare la “buona salute economica” di uno Stato si utilizza come indice della solidità finanziaria ed economica il rapporto tra il debito pubblico ed il Prodotto interno lordo. Per comprendere la ragione di tale scelta aiutiamoci con un esempio. Un maggior tasso di crescita del PIL, minori tassi di interesse, un incremento del prelievo fiscale, sono un ottimo modo per ripagare il debito. Se il Pil da un anno all’altro cresce, mentre per esempio il debito rimane costante, lo Stato si trova in una condizione migliore di quella precedente; in caso di crescita del Pil si ha, ad esempio, un flusso di maggiori entrate fiscali capaci di garantire il pagamento dei debiti contratti. Quanto premesso ci palesa l’utilità di considerare il parametro Debito/Pil, invece, che riferirsi al solo valore del debito, in senso assoluto.

(La seconda parte segue domani, sabato 10 maggio)