Il Brasile in questi giorni è al centro dell’attenzione dei media a causa degli scontri di piazza.
Le fonti giornalistiche parlano di oltre un milione di brasiliani in strada, in 388 città (22 delle quali capitali) lasciando un bilancio di due morti, oltre un centinaio di feriti, alcuni dei quali gravi, dopo 10 giorni di proteste consecutive.
I milioni di brasiliani che hanno raggiunto il benessere economico, hanno fondato il loro perimetro culturale sul consumismo, sull’individualismo e il relativismo etico e non sono disposti a cederlo facilmente dinanzi ad una sempre più dura fermata dell’economia reale e finanziaria oltre che aggravata dall’inflazione.
La seconda causa va ricercata nei costi e negli sprechi astronomici di denaro pubblico per i Mondiali di calcio del 2014 e le Olimpiadi di Rio 2016, circa due trilioni di reais (oltre 800 miliardi di euro), quando ancora, nel paese oltre 64 milioni di persone vivono tra povertà assoluta e relativa.
Il tema che unisce entrambe le narrazioni è la richiesta che questa immensa massa di denaro pubblico vada anche a migliorare i servizi di base come istruzione e sanità.
Molti hanno iniziato a chiedersi quali siano le vere motivazioni che hanno spinto così tante persone a protestare contro il governo brasiliano, visto che fino a poco tempo fa il Brasile era considerato una delle economie nel mondo più in espansione, e con grandi margini di crescita. A uno sguardo superficiale, infatti, il Brasile sembra non avere nessuna di quelle grandi caratteristiche che spesso generano proteste di questa intensità e durata: non ha un governo autoritario né lo stato di salute della sua democrazia sembra essere in pericolo, non ha una crisi economica in corso. Anzi, il Brasile in questi anni è stato spesso considerato uno dei paesi con l’economia più in salute del pianeta.
Il ruolo del Brasile è divenuto sempre più importante nel mondo globalizzato: pensiamo che in questo paese si è tenuta la Conferenza dell’Onu sull’ambiente, Rio+20 nel 2012, e si terranno sia i Mondiali di calcio del 2014 che le Olimpiadi di Rio 2016. Inoltre il Brasile è tra i candidati per un seggio permanente al Consiglio dell’Onu, e José Graziano da Silva è stato nominato direttore generale dell’organizzazione per l’agricoltura e l’alimentazione (Fao) nel 2012 e Roberto Azvedo sarà dal 1° settembre 2013 il nuovo direttore generale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto).
Tutto bene quindi; tutto vero?
In questo articolo, non mi voglio addentrare sulla dinamica di chi “stia buttando fuoco sulla benzina”, in quanto non credo nella dietrologia e quello che sta accadendo oggi era del tutto prevedibile.
Già due anni fa, invitato a parlare alla Confindustria di Fortaleza, avevo messo sull’avviso del rischio valoriale, endogeno ed esogeno che il Brasile, come tutto il mondo stava correndo.
Ma andiamo con ordine: analizzeremo prima la crisi valoriale e dopo quella economica-finanziaria-politica.
Come già accaduto in Europa e negli Stati Uniti, la crisi economica ha scavato nel tessuto sociale un malessere democratico che si specchia nell’incapacità della politica di relazionarsi ai grandi temi dell’uomo e più in generale del nostro mondo: la persona con il boom economico viene “educata” ad avere beni e non ad essere, la coesione sociale e il bene comune diventa un obiettivo agognato e prezioso, l’individualismo egoistico e il relativismo morale diventa la nuova legge, la corruzione, l’evasione si trasformano in virtù.
Qui si aprirebbe tutto il tema del paradosso della felicità in economia, o paradosso di Easterlin.
Sinteticamente, l’economia neoclassica ha confuso la quantità dei beni e dei soldi con la felicità; questa tesi è stata del tutto smentita, ma questo tema ci porterebbe molto lontano.
Invero per far crescere integralmente un paese, c’è bisogno d’investire nel bene comune, nell’etica delle virtù, passare da una logica dell’io ad una logica del noi; solo in questo modo si favorisce un buon livello d’integrazione e d’ordine sociale, un clima di solidarietà e fiducia, ingredienti fondamentali per la crescita economica e la modernizzazione dei paesi. Tuttavia, negli ultimi vent’anni questa coesione si è destrutturata a causa di un’ulteriore veloce trasformazione e differenziazione sociale, delle professioni e dei mestieri, spinta dal capitalismo a trazione tecnologico e finanziaria. La differenziazione economica e del lavoro (una fonte primaria di coesione) ha reso il paese maggiormente plurale al punto da apparire “liquida”. Morale: le trasformazioni dell’economia e del lavoro hanno velocizzato anche quelle sociali, introducendo maggiore differenziazione e polverizzazione degli interessi corporativi, egoistici e di crisi antropologica e valoriale.
Oltre ad una morfologia antropologica e sociale profondamente cambiata, c’è qualcosa in più che rende difficile la coesione sociale del Brasile oggi (come tutti i paesi malati dall’individualismo e dal relativismo). Infatti, molti cittadini sono prigionieri di una mentalità corrosa un individualismo amorale per cui l’interesse comune, è visto solo in funzione di un vantaggio individuale. Una miopia di massa e non solo delle élite, dimentiche che la società ha uno spessore morale da sollecitare per raggiungere coesione, fiducia, solidarietà e coralità. Ma non ci sono leader in grado di agire legando il proprio destino a quello della comunità. Si è creata di conseguenza, per dirla con Emile Durkheim, una condizione anomica (carenza di regole), in cui le maggiori libertà dell’individuo si disperdono nei miti angusti e cinici di un individualismo senza compensazioni solidali e fraterne.
A questo va aggiunto che oggi gran parte della coesione sociale viaggia, non solo nei tradizionali contenitori di socializzazione (famiglia, scuola, lavoro), ma soprattutto nel software culturale che i media diffondono, che, a sua volta, è frutto sia della metabolizzazione editoriale di dati e informazioni, ma anche del mood di quella parte di cittadinanza che si informa o disinforma, minando quei valori che guardano al bene comune della società come un fenomeno non più di moda, dinanzi al Leviatano individualista.
Il grande errore di Lula prima e della presidente Dilma (come anche della Teologia della liberazione) ha riguardato il mito che per far uscire (grande merito dei presidenti) dalla povertà milioni di persone si potesse non investire in capitale civile. Ecco allora che nell’ethos culturale ed etico del Brasile si è innestato la cultura del consumismo, dei beni posizionali di massa, della ricchezza ad ogni costo (l’agribusiness e mega progetti minerari e idroelettrici come la diga di Belo Monte) ecc.
Ma queste scelte politiche di “cortotermismo” ha gettato masse di persone nell’anomia valoriale, nel pensiero debole. Siccome il pensiero debole non costruisce nulla, masse di giovani e di adulti si sono trovati con pseudo risposte, in castelli di ricchezza costruiti sulla carta.
(La seconda punta segue domani, domenica 23 giugno)