di Patricia Navas
BARCELLONA, giovedì, 3 dicembre 2009 (ZENIT.org).- Né gli schiaffi di suo padre né le prese in giro dei suoi amici, né la discriminazione da parte di alcuni compagni di seminario né un grave cancro hanno potuto tener lontano un giovane gitano dalla sua vocazione sacerdotale.
Nato 35 anni fa nel quartiere di La Mina a Barcellona, Juan Muñoz Cortés ha sentito fin da quando aveva dodici anni la vocazione al sacerdozio, una chiamata nella quale sono intervenute persone concrete che occupano un posto speciale nel suo cuore, ma anche forti esperienze spirituali.
Il presbitero spiega la sua vicenda in questa intervista a ZENIT, che nell’Anno Sacerdotale offre le “confessioni” di Cardinali, Vescovi e sacerdoti sulla loro vocazione.
Quando ha iniziato a sentire la chiamata alla vita sacerdotale?
Juan Muñoz: A scuola scoprii una curiosità per la figura di Gesù di Nazareth e iniziai a interessarmene grazie alla professoressa di religione, una suora Figlia della Carità, con cui ebbi un colloquio.
A dodici anni, una notte mi venne alla mente una luce, un’immagine di Cristo, che piangeva costantemente; e iniziai a piangere.
Erano le tre del mattino. Ero nella mia stanza, al fianco di mio fratello. I miei genitori si alzarono e mi chiesero: “Che ti succede? Cosa ti fa male?”.
Io risposi: “piango di gioia perché nella mia testa si è rappresentato un signore con la barba che piangeva, aveva una corona”.
A poco a poco scoprii la mia vocazione, fino a che un giorno un sacerdote mi chiese: “Perché non fai il sacerdote? Hai mai pensato alla vita sacerdotale, di servizio alla comunità?”.
Io prima non avevo detto niente per vergogna. In quel momento arrossii e non seppi rispondere. Da allora cambiò tutto.
L’accompagnamento personale è molto importante perché la persona, il ragazzo, scopra la sua vocazione. Attraverso la testimonianza di sacerdoti, suore e laici possiamo capire la vocazione.
Come ha reagito la sua famiglia?
Juan Muñoz: Quando dissi che volevo diventare sacerdote la presero male. Mi dissero di no, che dovevo sposarmi e avere figli.
Io appartengo al popolo gitano, e per la mia famiglia il fatto che un figlio non si sposi e non abbia una discendenza risulta un po’ scioccante.
La non accettazione della mia vocazione da parte della mia famiglia mi fece entrare in crisi. Per qualche tempo non mi parlarono, e mio padre mi diede anche qualche schiaffo. Non ha accettato la mia vocazione fino al momento della sua morte.
In quel momento, dopo aver chiesto l’estrema unzione ed essersi confessato, mi chiese scusa e mi disse: “Vado con Dio e pregherò per te, perché diventi sacerdote; ti aiuterlò dal cielo”.
Io gli dissi solo che lo perdonavo e di andare in pace con Dio. Mi sembra che Dio abbia voluto darmi questa grande testimonianza di mio padre prima di morire. E’ stato molto bello. La morte di mio padre mi ha segnato moltissimo.
Ora, grazie a Dio, le cose vanno molto bene. Mia madre e i miei due fratelli sono molto contenti.
Nel suo cammino verso il sacerdozio ha avuto dubbi?
Juan Muñoz: Per tutta la vita, da quando avevo dodici anni, ho voluto essere sacerdote, ma ci sono state moltissime difficoltà.
Ad esempio, mi nascondevo per andare a Messa perché i miei amici mi prendevano in giro. Per due anni smisi anche di andare in chiesa perché pensavo che la chiamata ad essere sacerdote fosse una mia ossessione.
In quel periodo uscii con una ragazza. L’avvertii che avevo la vocazione al sacerdozio ma che ero dubbioso. Rispose che lo rispettava, anche se non lo condivideva.
Arrivò un momento, tuttavia, in cui dovetti dirle: “Mi dispiace molto, ma non posso più andare avanti: c’è come un vuoto tra me e te, e l’unica cosa che può riempire la mia vita è servire gli altri, i più bisognosi, e seguire la via lungo la quale Dio mi conduce da anni, che è essere sacerdote, stare con Lui molto intensamente”.
La prese male, cadde anche in depressione, ma ne è uscita e ora abbiamo un buon rapporto. E’ sposata, ha figli e grazie a Dio tutto è andato bene.
Quali altre difficoltà ha dovuto affrontare in seminario?
Juan Muñoz: Il fatto che i miei amici non mi accettassero quando sono entrato in seminario mi ha segnato moltissimo e ha inciso sulla mia vocazione.
Sono gitano, e per questo mi sono sentito emarginato dai compagni di seminario, e anche da alcuni sacerdoti che non mi accettavano.
Mi dicevano la cosa tipica, che siamo sempre sporchi. Qualcuno è arrivato a dirmi che me ne dovevo andare alla Chiesa evangelica perché ero gitano.
Con l’aiuto di Dio, però, con la mia preghiera diretta a Lui, che mi ha sempre aiutato, che mi diceva “Non ti preoccupare, tu vai avanti, nonostante le crisi, nonostante i momenti difficili, sono con te”, guarda dove sono arrivato.
Credo che l’essere diventato sacerdote sia stata opera di Dio.
Sono stato ordinato nella Basilica di Santa María del Mar con altri due compagni. Hanno assistito alla cerimonia 1.600 persone e circa 140 sacerdoti.
Ora sono la persona più felice di tutti. Vivo il sacerdozio con molta pienezza, come se lo avessi cercato da sempre.
Qual è stata la parte più dura di questo processo?
Juan Muñoz: Il momento più duro è stato quando ero diacono e i medici mi diagnosticarono un cancro. Mi colpì moltissimo ed entrai in crisi.
In realtà scoprii la malattia in sogno. Nei miei sogni mio padre, che era morto, era accanto a una signora che non vedevo in faccia e mi diceva “Vai dal medico”.
Lo spiegai a mia madre, che mi esortò ad andare dal medico. Il terzo giorno che facevo questo sogno sentii un dolore forte, che mi spaventò. Andai allora dal medico e mi venne diagnosticata la malattia.
Era un cancro molto aggressivo. Il medico mi disse che dovevano operarmi, anche se potevo avere molte metastasi e forse non sarei uscito vivo dalla sala operatoria.
Mi ribellai contro Dio. Gli chiesi perché quando arrivavo alla pienezza, a ciò che avevo sognato di più, essere sacerdote, mi veniva un cancro dal quale forse non sarei uscito vivo.
Dissi allora al mio direttore spirituale che volevo andare a Lourdes e mi raccomandati al dottor Pere Tarrés.
Andammo a Lourdes, dormimmo in un ostello soffrendo il freddo e il mattino dopo celebrammo la Messa nella Grotta e andammo alle piscine.
Nelle piscine c’eravamo solo io e lui. Quando toccò a me entrare nell’acqua provai una sensazione molto strana e iniziai a piangere.
Uno dei volontari mi chiese cosa mi stava succedendo. Gli raccontai ciò che avevo, gli dissi che non volevo morire, che avevo paura, e mi rispose: “Vedrai che la Madonna ti guarirà; tu prega qui”.
Mi bagnò e poi iniziai a piangere un’altra volta. Restai lì per qualche minuto pregando davanti all’immagine della Madonna. E uscii trasformato.
Dissi allora al mio direttore spirituale: “La Madonna mi ha guarito, sento molta pace dentro di me”. Rimase sorpreso.
Tornando a Barcellona, anche gli amici che mi vedevano mi chiedevano cosa mi succedesse, e dicevano: “Sei cambiato, sei come illuminato”.
Quando i medici mi operarono videro che non c’erano metastasi. Non ho dovuto fare né chemioterapia né radioterapia, né ho preso alcun farmaco, anche se mi sottopongo a dei controlli. Per me è stato un miracolo.
Quali esperienze, positive e negative, l’hanno sorpresa da quando è diventato sacerdote un anno e mezzo fa?
Juan Muñoz: Pensavo di trovare più rispetto, amore e dedizione tra i compagni sacerdoti, ma mi ha deluso un po’ sentire come una mancanza di unione tra i presbiteri, non so se è come una sorta di solitudine per il fatto che i sacerdoti diocesani vivono soli.
Allo stesso tempo, però, ho conosciuto gente splendida che mi ha sostenuto in
tutto; persone di ogni tipo, di ogni cultura, di ogni razza, giovani e anziani, dai quali ho imparato moltissimo.
Ho visto davvero il volto di Dio in quelle persone. Non riuscivo a immaginare come Dio possa parlare attraverso le persone.
Alcune di loro, curiosamente soprattutto donne, mi hanno segnato molto e mi hanno dato ogni tipo di aiuto – spirituale, economico… – per diventare sacerdote.
Penso al rapporto di Maria Maddalena con Gesù, suppongo che lei lo abbia consolato molte volte e lo abbia aiutato con le sue parole, quando si sentiva incompreso, indifeso e anche solo, a trovare la forza e a chiedere a Dio che si facesse la sua volontà.
Ricordo ad esempio un grande amico, che ora lavora nel vescovado, con il quale ho condiviso i momenti precedenti la mia ordinazione sacerdotale.
Non riuscivo a dormire. Ci siamo abbracciati, abbiamo pianto insieme e abbiamo parlato di Dio, della dedizione totale in cui mi sarei impegnato, consacrando tutta la mia vita a Dio e ai più bisognosi.
La cosa più bella è stata arrivare alla pienezza del sacerdozio. Lo vivo con moltissima intensità. A volte le parole non bastano.
Vivo con molta passione l’Eucaristia. A volte mi emoziono cantando il prefazio.
Qual è l’aspetto che l’ha più colpita della sua vita sacerdotale?
Juan Muñoz: La camera ardente. Sto collaborando con i servizi funebri di Barcellona e mi hanno colpito moltissimo il dolore delle persone e il fatto di poter trasmettere una speranza, una fede nell’aldilà a persone che soffrono per la morte di una persona cara, che si sentono sole, abbandonate da Dio.
Ciò che mi ha più colpito è il fatto che entrino piangendo amaramente ed escano con fede, ringraziandoti perché hai trasmesso una testimonianza e un messaggio di Cristo vivo e una speranza nell’aldilà.
Ho anche sposato persone che ho conosciuto nella camera ardente e mi sono fatto molti amici che hanno iniziato a confessarsi con me, che li seguo come guida spirituale.
Se il sacerdote è una persona che prega e si dedica agli altri, è il più felice di tutti.
[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]