Come abbiamo visto nei precedenti due articoli, la presenza della luce nella teoria dell’arte qualifica un vasto mondo di esperienze artistiche e consente di comprenderle. La conoscenza della luce aiuta la lettura delle opere pittoriche ed architettoniche ed inoltre forma la consapevolezza di come progettarle e realizzarle. Senza la teoria delle luci e delle ombre, il disegno, la pittura ed anche l’architettura perdono significato e rischiano di ridursi a mero esercizio di “stile”.
Capita sovente di vedere progetti architettonici che, una volta realizzati, mostrano una brutta reazione con la luce naturale: masse troppo sporgenti, ombre troppo marcate oppure proiezioni di ombre inattese e non calcolate, deturpano i piani “astrattizzanti” e “incorporei”, piacevoli sul monitor del computer o nel rendering, ma impropri e sgradevoli nella realtà naturale. Questo incidente, frequente nella nostra contemporaneità, può essere rivelatore di una insufficiente sensibilità nei confronti della luce ed anche nei confronti dei corpi illuminati. Anzi forse i maggiori problemi si manifestano proprio a proposito della corporeità delle cose e a proposito del corpo umano. Infatti accade di osservare gli oggetti e di vedere il mondo attraverso una ideologia che si potrebbe definire del “corpo assoluto” o meglio ancora della “incorporeità della bellezza”.
Di fatto, siamo immersi in una tipologia di immagini in cui gli effetti dei set fotografici mostrano i prodotti senza profondità, senza ombre proprie e senza ombre portate; gli oggetti vengono proposti in modo da cancellare la dimensionalità ed anche, di conseguenza, la temporalità. Per esempio, il corpo delle modelle viene mostrato, attraverso un complesso sistema di illuminazione, come quasi privo di ogni ombra, se non quelle minime necessarie alla percezione, in questo modo il corpo viene ridotto ad una astrazione, e di conseguenza viene percepito come modello incorruttibile di una bellezza eterea ed incorporea, in una sorta di effetto di sparizione della corporeità proprio nella rappresentazione di un corpo. Tutto appare sovraesposto ed appiattito. Quando si abitua il gusto a questo tipo di immagini patinate, difficilmente si può percepire la realtà senza sofferenza, giacché la luce naturale non cancella ma rileva, e lo stesso corpo può apparire, nella sua verità, brutalmente imperfetto.
L’incorporeità della bellezza, proposta da questa visione fondamentalmente consumista e materialista, produce due effetti stranianti diametralmente opposti. Da una parte si annulla il corpo reale delle cose in una trasfigurazione incorporea pseudo-angelica, per cui gli oggetti, i prodotti e i corpi umani sono rappresentati come sospesi e privi di ogni qualità e accidente che li identifichi come tali. Privati delle ombre proprie e portate sono anche privi di odore, calore, umori e peso. Dall’altra parte, questa operazione di riduzione ad una patina levigata, riduce ad inorganico ogni corporeità, proponendola nello stesso tempo come consumabile ed appetibile. In questa prospettiva, si può leggere Il sex appeal dell’inorganico scritto da Mario Perniola nel 1994, in una visione sociologica dell’estetica contemporanea. Necessariamente l’operazione di edulcorazione del corporeo non eleva il discorso, ma lo porta paradossalmente alla sua più bassa materialità, appunto quella dell’oggetto desiderabile, consumabile, di cui ci si può impossessare, ma che, con la stessa superficialità con cui lo si è desiderato e consumato, lo si rifiuta e lo si getta via da sé.
Nell’arte pittorica sta accadendo un fenomeno analogo. Da una parte il corpo è annullato nell’esaltazione luminosa del colore, tutto è ridotto a pigmento senza ombre e senza luci, in una incorporeità di-vertente dal reale. Nel contempo però, tutto è più materiale che mai. La sola visione intra-fisica del mondo, non permette di vederlo perché troppo immersa in esso, e quindi di fatto incapace a rappresentarlo. Il corpo risulta sospeso ed annullato in divertenti giochi linguistici e formali, e nel contempo è materialmente frantumato in parti o in deformi dissociazioni psicotiche. Il corpo è l’oggetto dei desideri privi di peso purché incorporei, e quando il corpo stesso si fa presente, quando è vicino, quando è reale, allora appare insostenibile ed insopportabile e viene smembrato, violentato e rinnegato, perché troppo umano, pieno di difetti odori, umori, e – in una parola – mortale.
Sembra anzi che l’occulto significato delle strategie di marketing operate attraverso la sovraesposizione fotonica delle cose e del mondo, sia nascondere il terrore della morte ed illudere attraverso l’inganno dell’incorporeità del corpo, che l’oggetto dei nostri desideri sia immortale, a portata di mano e sempre disponibile. Sembra dunque che l’assenza di luci e di ombre serva una visione disincarnata e insieme materialistica, consumistica e insieme astratta della realtà. Di contro, ci si può interrogare se lo stesso linguaggio, che veicola una tale concezione materialista e consumista della luce e di conseguenza della rappresentazione del mondo, possa essere in grado di dire una visione realistica e aperta alla trascendenza, o addirittura se possa parlare di Gesù Cristo.
La risposta sembra scontatamente negativa, eppure può e deve essere articolata in almeno due direzioni di ragionamento.
Infatti, occorre tenere conto che una sbagliata concezione della luce e della corporeità, può condurre, in primo luogo, verso l’astrattismo, l’informale e il deforme. Infatti, senza la luce cade anche la forma. Ebbene, queste modalità linguistiche che non vogliono e non possono conoscere la realtà corporea, si rivelano incapaci di cogliere la dimensione creaturale della realtà e, soprattutto, si rivelano costitutivamente inadeguate alla trasmissione di misteri che sono “incarnati”.
Di contro però, una erronea concezione della luce e della corporeità può condurre anche verso l’iperrealismo, che risulta essere anch’esso incapace di cogliere il senso unitario della realtà, in quanto ossessionato dall’analisi del particolare, tanto da non saper neanche vedere la sintesi unitaria della realtà. La duplice dimensione storica ed eterna, umana e divina di Gesù Cristo risulta in questi termini indicibile nella sua unitarietà.
Sembra, dunque, che una corretta considerazione della luce e della corporeità naturale, conduca verso una dimensione realistica ma non ossessivamente iperrealistica, sintetica ma non astratta, ovvero a un realismo moderato, a un realismo antropologico, cioè a quella medietà virtuosa in cui tutte le strade umane trovano la propria vera virtù, tanto da poter accogliere i doni soprannaturali e teologali propri dell’arte realmente sacra.
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* Rodolfo Papa è storico dell’arte, docente di storia delle teorie estetiche presso la Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Urbaniana, Roma; presidente della Accademia Urbana delle Arti. Pittore, membro ordinario della Pontificia Insigne Accademia di Belle Arti e Lettere dei Virtuosi al Pantheon. Autore di cicli pittorici di arte sacra in diverse basiliche e cattedrali. Si interessa di questioni iconologiche relative all’arte rinascimentale e barocca, su cui ha scritto monografie e saggi; specialista di Leonardo e Caravaggio, collabora con numerose riviste; tiene dal 2000 una rubrica settimanale di storia dell’arte cristiana alla Radio Vaticana.