di Renzo Allegri
ROMA, venerdì, 9 settembre 2011 (ZENIT.org).- I Congressi Eucaristici sono grandi feste che celebrano una delle Verità più sconvolgenti della Fede cristiana: la presenza di Gesù nell’Eucaristia. Solenni cerimonie, incontri, discorsi, convegni, partecipazione corale di popolo esaltano la grandezza del mistero. Ma fanno anche riemergere nella mente episodi minori, situazioni precarie, avventurose e a volte assai tristi. Come per esempio la “solitudine dell’Eucaristia”.
Nella mia lunga carriera di giornalista ho fatto sempre l’inviato e questo incarico mi ha portato a viaggiare per il mondo. Ho così potuto visitare moltissime chiese, anche nei luoghi più remoti. Il ricordo non è sempre gioioso perché le trovavo quasi sempre deserte. Magari alla domenica, in certe nazioni europee, si animavano un poco. Ma durante la settimana era raro incontrare persone. Eppure Lui, Gesù, era là, nel tabernacolo. Il Catechismo della Chiesa cattolica dice che nell’Eucaristia Gesù è presente “in anima, corpo e divinità”, in modo “vero, reale e sostanziale”. Il significato di queste parole sconcerta. Indica una realtà immensa. Impossibile, per la ragione. Meravigliosa e commovente, per la Fede. Si tratta di un mistero inspiegabile per la nostra limitata capacità di conoscere. Ragionarci intorno per cercare di capire, non serve. Ma qualche piccola riflessione, potrebbe aiutare ad avere un’idea approssimativa di come stanno le cose.
Dio, spiega il catechismo, è “immenso”, ed è presente “in cielo, in terra e in ogni luogo”. Gesù, invece, con il suo corpo, la sua anima, la sua divinità, uomo-Dio, in questo nostro mondo è presente solo nell’Eucaristia, cioè nel pane e nel vino che sono stati consacrati secondo un rito da Lui stabilito. Chi si sofferma a guardare il tabernacolo dove si trova l’Eucaristia, può dire a se stesso che il suo sguardo, con certezza, punta dritto su Gesù. In quel tabernacolo, in quel piccolo spazio ben delimitato, vi è Gesù vivo, con il suo corpo vero e glorioso. Se sposta lo sguardo, anche di poco, la sua vista non si posa più sul corpo di Cristo, non si scontra più, per così dire, con i suoi occhi, ma si posa su banali realtà fisiche ben visibili. E’ un ragionamento elementare, per certi versi assurdo, ma rispecchia una realtà concreta, immensa, spaventosa e insieme meravigliosa.
Diceva Santa Teresa di Lisieux: “Se la gente conoscesse il valore dell’Eucaristia, l’accesso alle chiese dovrebbe essere regolato dalla forza pubblica”.Invece, la gente conosce poco questo mistero e le chiese sono vuote. Prima di chiudere la sua missione di Redentore su questa terra, Gesù, con un gesto di immenso amore, ha scelto di voler stare in mezzo ai suoi fratelli anche dopo la sua ascesa al cielo, e si è “imprigionato” nel mistero eucaristico. Da quasi duemila anni, sta chiuso nei tabernacoli. Non importa se le chiese sono vuote e a volte chiuse. Lui è là. In continuazione, 24 ore su 24. Non se ne va per mancanza di pubblico. Non riduce l’orario della sua presenza perché ci sono pochi interlocutori. E’ là, e aspetta.
Da anni frequento l’isola di Tenerife. Mi riposo e scrivo. Vado a Playa de las Americas, zona Sant’Eugenio, lungo la costa oceanica. Vicino all’albergo dove alloggio, vi è una chiesetta. Fino a qualche anno fa era l’unica chiesa della zona. Poi, con il boom turistico e l’enorme crescita delle abitazioni, ne è stata costruita una seconda, molto più grande, nel centro della città. E così, la chiesetta di Sant’Eugenio è passata in secondo ordine, ma serve ancora nelle domeniche per la Messa dei cattolici e subito dopo per le funzioni religiose dei protestanti. E’ una chiesetta amata dalla gente del luogo e dai turisti. Anche per la sua posizione, che si trova su una piccola altura, a cento metri dell’oceano, con una vista panoramica mozzafiato.
Al mattino presto, quando l’aria è pungente, diversi turisti escono dai vari alberghi per fare footing. E, correndo, passano anche accanto alla chiesetta. Anch’io, a quell’ora, esco sempre per una passeggiata. E mi sono accorto che tra i fanatici del footing ci sono persone credenti. E non pochi. Incuriosito e sorpreso, ho voluto fare un piccolo controllo. Mi fermavo un po’ lontano per non dare nell’occhio, e osservavo il comportamento dei passanti. Molti, senza interrompere la corsa, giravano il volto verso la chiesetta, quasi a voler dare un tacito saluto; qualcuno accennava a un segno di croce. Ma c’erano anche di quelli che si fermavano ed entravano per una breve sosta. La percentuale dei “sensibili” alla presenza del luogo sacro, mi pareva sorprendentemente elevata, tenendo conto che si trattava di turisti, persone giovani e anziane, uomini e donne, provenienti da ogni parte del mondo.
Quest’anno, le cose erano cambiate. Fin dalla mia prima passeggiata, mi sono accorto che la chiesetta era chiusa. Un cartello diceva che veniva aperta solo la domenica per la Messa. Mi sono informato. Nella chiesetta continuava ad esserci l’Eucaristia, ma, essendo venute a mancare le persone laiche, le solite preziose vecchiette, che se ne prendevano cura, il parroco, impegnato nella nuova sede, aveva deciso di tenere chiusa, durante la settimana, la chiesetta di Sant’Eugenio. E così, Gesù, presente nell’Eucaristia, restava isolato dalla gente. Ho constatato però che i fanatici del footing non hanno cambiato atteggiamento. Quelli che salutavano con uno sguardo e un veloce segno di croce, hanno continuato a farlo. Quelli che si fermavano ed entravano per una veloce visita, ora restavano sulla porta e, dopo aver letto il cartello, e se ne andavano lentamente, con disappunto.
In quei giorni ho notato la presenza di un signore anziano, distinto. Arrivava camminando lentamente, aiutandosi con un bastone. Si fermava davanti alla porta della chiesetta. La mani appoggiate sul bastone, gli occhi bassi, restava immobile per diversi minuti. Poi si faceva il segno della croce e riprendeva la passeggiata. Una mattina mi sono avvicinato. Finsi di leggere per la prima volta il cartello affisso e borbottai: “Peccato che la chiesa sia chiusa”. Mi ha guardato e con un leggero sorriso, mi ha detto: “Ma lui c’’è. Lui c’è sempre”.
Un giorno ero a Las Vegas per lavoro. Dovevo intervistare una famosa soubrette che in quel periodo teneva i suoi spettacoli in uno dei grandi alberghi di quella metropoli del divertimento e del gioco. Accompagnato da un fotografo italiano che vive a Los Angeles, arrivai durante la notte, ma a Las Vegas sembrava pieno giorno. Tutto aperto, tutto illuminato, tutto in funzione. Una città che non dorme mai.
Avevamo appuntamento alle undici del mattino. Conoscevo bene quell’artista. Era famosa, un idolo per le folle degli spettacoli, ma era anche una ragazza di fede. L’incontro, come sempre, fu cordialissimo. Abbiamo fatto l’intervista, le foto, e poi lei volle portarmi in una chiesetta dove andava spesso a pregare. Una chiesetta proprio piccola, invisibile quasi tra i mastodontici alberghi. Appartiene alle Suore Carmelitane, ma è aperta anche al pubblico. Siamo entrati. La mia amica, con una devozione discreta ma sentita, si è prostrata davanti al tabernacolo. Io ero rimasto vicino alla porta. Sentivo, in sottofondo, il brusio frenetico della città del gioco, ma avevo l’impressione che si fermasse sulla porta. Dentro, silenzio e solitudine. Nessun segno di presenza umana. Forse, nessun altro abitante di Las Vegas, oltre a quella soubrette, visitava la chiesetta. Lui, Gesù, quindi, era sempre solo. E’ vero che aveva la compagnia delle quattro religiose carmelitane, sepolte nella clausura, ma di tutta la gente di Las Vegas e degli innumerevoli turisti presenti nella città, in quella chiesetta non c’era nessuna traccia.
Lui era là, in quel piccolo tabernacolo, sulla cui porticina erano dipinte due lettere dell’alfabeto, una P e un X, intrecciate, che sono le due prime lettere della parola “Cristo” in greco. Guardavo la rag
azza raccolta in preghiera, pensavo alla città, alla gente, alle feste, a quel vivere chiassoso, e al vuoto assoluto di persone nella chiesetta. Sembrava che perfino i rumori e le voci si fermassero sulla porta. Ma Lui c’era, ed era lì proprio per tutta quella gente distratta, svampita, triste e disorientata che ne ignorava la presenza.
Liliana Cosi è una ballerina classica famosissima. Certamente la più grande ballerina italiana degli ultimi cinquant’anni. Etoile alla Scala, étoile al Bolshoi di Mosca, anni di trionfi nei teatri più prestigiosi del mondo, e poi fondatrice della prestigiosa Scuola di Balletto a Reggio Emilia, tra le più stimate nei teatri del mondo. Ma i media raramente si interessano di lei. E questo perché Liliana Cosi ha un grande difetto: è cattolica, credente e praticante. Lo è da sempre. Una donna innamorata di Gesù. Fa parte del Movimento dei Focolari fondato da Chiara Lubich. Fin da giovanissima ha legato la propria vita a quel movimento.
Negli Anni Sessanta e Settanta del Novecento, Liliana Cosi ha vissuto un’avventura artistica unica. Dopo il diploma conseguito alla Scala a 18 anni, è andata a perfezionarsi al Bolshoi di Mosca. Nel 1965, ha debuttato al Palazzo dei Congressi del Cremlino come protagonista nel “Lago dei Cigni”, ottenendo un trionfo e conquistando i dirigenti e il pubblico di quella nazione, considerata la “patria del balletto classico”. Dopo quel successo clamoroso, è diventata una beniamina del pubblico russo ed è stata richiamata molte volte per spettacoli e per lunghe tournée nell’Unione Sovietica. Allora, sotto il rigido Regime comunista, le ballerine straniere si esibivano in Unione Sovietica solo raramente e in occasioni di scambi culturali. Liliana Cosi, invece, fu “adottata” dai russi, e fu scelta addirittura per inaugurare la stagione dei balletti al Bolshoi, un onore mai riservato a una danzatrice straniera. Ha tenuto a Mosca e in giro per la città dell’Unione sovietica oltre 150 spettacoli.
Quando lavorava a Mosca, andava a Messa tutte le mattine nella chiesa di San Luigi, presso l’Ambasciata francese, l’unica chiesa aperta sotto il Regime comunista sovietico. Ma durante le tournée, non aveva la possibilità di entrare in una chiesa e tanto meno di partecipare alla Messa e fare la Comunione. Le chiese dell’Unione Sovietica erano tutte chiuse, trasformate in musei o un magazzini. La ballerina soffriva molto di questa situazione. Ma qualcuno le venne in aiuto. Chiara Lubich, intuendo il disagio interiore della giovane, le affidò una compagna focolarina, che si chiamava Vale e che aveva un permesso speciale di poter portare con sé l’Eucaristia. Dentro una piccola teca, custodita nella borsetta, Vale teneva le ostie consacrate e ogni mattina, lei e Liliana, nella loro stanza d’albergo pregavano e poi facevano la comunione. In questo modo, Gesù, in un periodo in cui in tutte la Nazioni dell’Unione dell’impero comunista sovietico non esistevano chiese aperte e tanto meno tabernacoli, ha percorso in lungo quell’enorme territorio. Insieme alle due ragazze ha visitato città e nazioni, si è fermato nei teatri, nei camerini dei teatri, negli alberghi, nei ristoranti, ha viaggiato sui taxi, sui treni, sugli aerei. E’ andato perfino al Cremlino. Liliana Cosi era un mito anche per le alte gerarchie sovietiche che, in varie occasioni, la vollero protagonista di spettacoli all’interno del Cremlino. Con Liliana e la sua amica Vale viaggiava sempre anche Gesù. E, così, sia pure clandestinamente, il Figlio di Dio ha messo piede anche in quella “cittadella” medievale che era diventata il centro dell’ateismo mondiale..
“Ho un ricordo struggente delle mie tournée artistiche in Russia”, mi disse un giorno Liliana Cosi. “Per via di quella speciale presenza eucaristica, mi pareva di vivere in Paradiso”. Nei suoi anni giovanili, padre Pio impiegava circa quattro ore per celebrare la Messa. Dopo la consacrazione, restava immobile, in contemplazione del mistero che si era verificato. Ma non tutti allora ritenevano che padre Pio fosse un santo e i suoi superiori gli imposero di non superare i trenta minuti nella celebrazione della Messa. Durante la giornata, padre Pio trascorreva molte ore davanti al tabernacolo. Ai suoi figli spirituali raccomandava di fare frequenti visite a Gesù eucaristico, lasciato spesso solo nei tabernacoli.
Nel periodo in cui il cardinale ungherese Joszef Mindszenty si trovava nelle carceri di Budapest, condannato all’ergastolo, e cioè tra il 1948 e il 1956, padre Pio fu protagonista di incredibili episodi. Correva voce che, in quegli anni, egli fosse andato, varie volte, in bilocazione, nelle carceri di Budapest per incontrare e confortare il cardinale Mindzsenty. Non solo. Ma, poiché il cardinale desiderava tanto poter celebrare la Messa, padre Pio, sempre in bilocazione, gli aveva portato il necessario per la Messa e lo aveva assistito nella celebrazione. Fatti clamorosi e, per questo, assurdi, incredibili. Dei viaggi in bilocazione di padre Pio si è parlato e scritto molto. Ma lo si è fatto sempre con una punta di scetticismo. Però, portare, in bilocazione, in un carcere comunista di assoluta sicurezza, l’occorrente per celebrare la Messa, sembrava proprio un racconto da leggenda.
Conoscevo molto bene Angelo Battisti, grande amico di padre Pio e per molti anni suo Amministratore della Casa Sollievo della Sofferenza. Un giorno, chiesi a Battisti che cosa pensasse di quelle voci. Mi rispose che era tutto vero. Mi disse che lui stesso ne aveva parlato direttamente con padre Pio, il quale aveva confermato, raccontando di aver trovato il cardinale tutto pesto per le torture subite. E aveva confermato anche di avergli portato l’occorrente per la celebrazione della Messa. Battisti, vedendo l’espressione del mio viso mentre mi raccontava quelle cose, con ogni probabilità si era reso conto che non riuscivo a credere a quanto mi diceva. Così, qualche tempo dopo, mi mandò una relazione manoscritta e dettagliata su quella sua conversazione con padre Pio. Confermando ciò che mi aveva detto a voce e aggiungendo molti altri particolari stupefacenti. Per esempio, questo. Sempre in quegli anni, a San Giovanni Rotondo era arrivata una lettera indirizzata a padre Pio e scritta da alcune suore cecoslovacche, che, clandestinamente, vivevano nascoste su una montagna. In quella lettera, le suore ringraziavano padre Pio perché era stato da loro a celebrare la Messa. Ma, come è noto e accertato, padre Pio non si è mai allontanato da San Giovanni Rotondo. E di questi viaggi misteriosi, per portare l’Eucaristia ai martiri del Comunismo ateo nei Paesi dell’Est, sembra che padre Pio, in quegli anni, ne abbia fatti parecchi.