Il linguaggio dello Spirito

La relazione del cardinal Ravasi alla 35° Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito a Rimini

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RIMINI, mercoledì, 2 maggio 2012 (ZENIT.org) – Riportiamo di seguito la relazione del card. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio per la Cultura, durante la 35a Convocazione Nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo.

Il porporato è intervenuto, lunedì 30 aprile, sul tema “Noi parliamo con parole non suggerite dalla sapienza umana, bensì insegnate dallo Spirito, esprimendo cose spirituali in modo spirituale” (1 Cor 2,13)

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Vorrei iniziare anche io con una nota autobiografica all’inizio di questo percorso che farò con voi quest’oggi. Non mi trovo qui per la prima volta e non mi sento estraneo, non soltanto per la comune fede, ma anche per questa amicizia antica che mi aveva legato a mons. Dino Foglio.

Ho conosciuto mons. Dino Foglio quando ancora ero all’inizio del mio ministero di insegnamento, del mio percorso in Italia, anche in contesti molto diversi. In questo momento si compie quindi un suo annuncio che avevo ritenuto semplicemente espressione del suo affetto, della simpatia spontanea che aveva per me.

Quando infatti mi invitò per venire qui, in mezzo a voi, a quelli che erano qui allora, mi disse ciò che sotto il segno della cortesia, della gentilezza, dell’augurio, soprattutto nei confronti di un ecclesiastico, spesso si dice: “io ti invito, devi venire e poi vorrò invitarti ancora, soprattutto voglio invitarti quando sarai Cardinale”. E proprio oggi si compie il suo annunzio. Per questo devo dire che mi trovo in mezzo a voi con gioia, soprattutto avendo alle spalle la sua figura, la sua testimonianza.

Come è stato anticipato da Salvatore Martinez con un aggettivo davvero significativo, che mi mette anche in difficoltà effettivamente, quello che farò con voi è un itinerario arduo. Arduo, non perché la prima lettera ai Corinzi sia particolarmente complessa, anzi, per molti versi è una delle lettere più trasparenti di Paolo, è una lettera pastorale nel senso proprio del termine. Ma è arduo il versetto che è stato scelto (1 Cor 2,13). E io mi fermerò su questo versetto apparentemente minimo.

Nell’originale greco al quale io spesso farò riferimento -perché la nostra è anche una lezione teologica- il versetto è composto soltanto da una decina di parole. Eppure queste parole racchiudono tanti temi, tante allusioni, tanti ammiccamenti, tante vocazioni, tanti approfondimenti necessari, per cui il nostro lavoro sarà questo: studieremo le parole perché la parola di Dio si esprime in parole. Come diceva un grande testimone della spiritualità delle origini dei primi secoli cristiani, Massimo il Confessore, “se non conosci le parole come puoi conoscere la Parola?”. E la tradizione rabbinica, in maniera molto suggestiva, contiene due espressioni.

Da un lato afferma che le parole della Torah, ma non soltanto di tutta la Bibbia, sono come pietre, bisogna che sprizzino luce, come accade con una pietra focaia. E ancora afferma: ogni parola della Torah ha settanta volti, per indicare la ricchezza, l’iridescenza che la Parola di Dio ha. E lo studio della Parola, perciò, è anche un atto di adorazione nei confronti della Parola “maiuscola”. La parola italiana testo deriva dal latino textus ovvero “tessuto”. Ed io da questo “tessuto” estrarrò quattro fili che sono i quattro punti cardinali del nostro percorso.

Prima vorrei però evocare il fondale in cui parla san Paolo, in maniera molto semplificata. Paolo parla ad una comunità cristiana incastonata all’interno di una metropoli, come potrebbe essere una delle nostre città di oggi. Corinto era allora (non lo è più oggi) la seconda città per rilievo della Grecia e uno dei più importanti porti del bacino del Mediterraneo. Contava 600mila abitanti e ben due porti; l’archeologia ha portato alla luce lo splendore di quella città.

Ma come accade spesso nelle metropoli, soprattutto quelle che sono attraversate da figure che vengono da culture diverse, Corinto era una città estremamente corrotta. Le tre colonne doriche che si ergono sul colle che domina Corinto, sono oggi il residuo del grandioso tempio di Afrodite che secondo la tradizione ospitava ben mille ierodule, cioè prostitute sacre. Un mondo corrotto, un mondo squilibrato anche dal punto di vista economico, sociale. Ed è per questo che la comunità cristiana corre un rischio che Paolo cerca in tutti i modi di neutralizzare. È quel rischio che corriamo, che corrono tante comunità anche oggi all’interno di una società così secolarizzata.

I cristiani di Corinto non sono -per usare un’immagine molto americana di Martin Luther King- un termostato che riscalda l’ambiente, sono diventati soltanto un termometro che registra, che si adatta camaleonticamente, assumendo i colori, assumendo le tonalità del mondo in cui sono immersi. E quando il cristianesimo comincia ad essere stinto corre il rischio di diventare estinto; quando impallidisce perde la sua carica profonda. Ed è per questo che Paolo, fin dagli inizi della sua lettera, colpisce con veemenza questo degrado, questa sorta di deriva che lentamente si insinua, si ramifica come una mano gelida nell’interno della comunità cristiana di Corinto.

Ed ecco allora che questo versetto può essere considerato come il riassunto delle tesi che nei primi due capitoli, che vi invito poi a rileggere nella loro pienezza, Paolo presenta. Farò riferimento al testo greco, non per un gusto filologico, ma perché vedremo che la traduzione, pur pregevole, che che si usa anche nella Liturgia, non riesce a rendere conto della ricchezza del testo e anche dei suoi riferimenti, dei suoi rimandi. D’altronde sappiamo sempre che ogni traduzione, come diceva il grande Cervantes, è “il rovescio di un arazzo”. Se guardate l’arazzo di fronte lo vedete in tutto il suo splendore, nei suoi colori squillanti, nella linearità dei disegni delle scene, se lo guardate nella parte posteriore vedete i fili che cadono, vedete in maniera confusa che cosa rappresenta.

Quattro punti, quattro stelle polari, che illuminino il nostro cammino. La prima: Paolo comincia così nel versetto 13 del secondo capitolo: “Noi parliamo”. E usa un termine che nella cultura greca significava “chiacchiera”. Nel Nuovo Testamento questo verbo diventa il verbo della Rivelazione. Per questo è un parlare, proclamare. Il cristianesimo cerca di recuperare, di sanare la parola. Il premio Nobel della letteratura messicano Octavio Paz diceva che “il popolo comincia a corrompersi quando si corrompe la sua grammatica”.

Ad esempio, il linguaggio informatico, ci spinge lentamente verso l’ovvietà, la banalità, la superficialità, il minimo indispensabile, impedendoci tante volte l’approfondimento. Pensate nella società contemporanea quanti flussi di parole vengono trasmesse attraverso le vie digitali, informatiche, la televisione, la radio, le onde. È un parlare continuo, vacuo e fatuo. Invece il cristianesimo salva, ci salva dalla “chiacchiera” e ci presenta la Parola. E allora, tra le mille cose che possiamo dire, dobbiamo evocare questo tema sul quale bisognerà sempre scavare e approfondire. La Parola dovrà essere sempre il referente capitale della vostra esperienza spirituale.

Per intendere il “parlare di Dio” e il “nostro parlare” si usa lo stesso verbo perché noi trasmettiamo una parola che incide, che ferisce e che consola, che inquieta e che crea pace, una parola che artiglia le coscienze ma le sana anche come un balsamo. Nella Bibbia troviamo delle immagini antitetiche per parlare della Parola di Dio. La Parola di Dio è dolce come il miele ma è al tempo stesso simile, dice Geremia, ad “un martello che spacca la roccia”. È come l’acqua che feconda ma anche, dice la lettera agli Ebrei, ad “una spada che passa non soltanto la pelle, la carne, ma arriva fino al midollo”. Ritorniamo alla Parola anche perché la Parola è l’elemento fondamentale dell
a Epifania di Dio. Guardate, come comincia la Bibbia? Comincia con una frase che è un evento sonoro, in ebraico è persino ritmato. È  l’apparire di Dio sulla scena del mondo. “Dio disse: sia la luce. E la luce fu”.

E il Nuovo Testamento comincia alla stessa maniera, idealmente, con il prologo di Giovanni: “in principio c’era la Parola e per mezzo della Parola tutto è stato fatto di ciò che esiste”. La Parola, quindi. C’è un versetto, e concludo questo primo punto che vuole essere semplicemente un appello a purificare la nostra parola perché trasmetta la Parola. C’è un bellissimo versetto nel Deuteronomio, quando Mosè vuole riassumere con una sola frase tutta l’esperienza del Sinai, quel monte dal quale sono scese le Dieci parole, lampada per i passi nel cammino della nostra vita, il Decalogo: “Dio vi parlò in mezzo al fuoco, voce di parole, suono di parole, voi ascoltaste. Immagine alcuna voi non vedeste, solo una voce”.

Questo popolo povero ha questa intuizione altissima: Dio non è una statua. “Non avete visto nessuna immagine, tu non ti farai – dice il Decalogo – immagine alcuna di Dio, di ciò che è nel cielo, sulla terra o sotto terra”. Dio è la Parola. Questo è il paradosso, perché la parola è in assoluto la realtà più fragile. Pensate quante parole già ho detto dall’inizio del mio intervento e si sono perse nell’aria, eppure al tempo stesso le parole, anche quelle umane, hanno una potenza straordinaria. Ci sono dei fratelli e delle sorelle che si odiano per tutta la vita perché si son detti una parola cattiva una volta.

Ecco perché dobbiamo ritornare a celebrare la grande Parola di Dio e la nostra parola, perché purtroppo dobbiamo riconoscere che in principio c’era la parola ma la parola è stata tradita tante volte: sia la Parola di Dio, che si è offuscata (San Paolo parla di parola “adulterata”), sia la nostra parola che è caduta nella polvere della terra, che è diventata del colore stesso del fango.

Secondo punto del nostro percorso: Paolo dice che noi abbiamo questa parola che non è espressa in discorsi di sapienza umana con un’ espressione greca traducibile in “discorsi razionali”. Qui c’è un elemento che Paolo sviluppa soprattutto nel secondo capitolo: il rischio, in un mondo come quello greco molto sofisticato dal punto di vista culturale, di ridurre l’esperienza cristiana a un sistema di pensiero, di ridurre semplicemente la fede alla elaborazione di una serie di teoremi da dimostrare e da tenere come un tesoro prezioso.

Questa era la grande elaborazione di filosofica greca: la scatola cranica dell’uomo diventava quasi come il grande universo, conteneva l’universo attraverso la capacità del suo pensiero.E non per nulla Paolo nel primo capitolo dice: il cristianesimo è agli occhi dei greci “stupidità”, “follia”. Il cristianesimo ha la croce di Cristo, che è un elemento estremamente sconcertante. Per noi lo è molto di meno perché lo conosciamo, ma nel mondo greco-romano era il supplizio più infame, la condanna a morte per i terroristi e per gli schiavi, gli ultimi della terra, come ricorderà Paolo. Quindi era un emblema sconcertante.

Si dice spesso, da parte di alcuni, che fosse qualcosa di simile alla sedia elettrica che diventa l’emblema e il vessillo di questa religione. Ed ecco allora lo scandalo, la provocazione, la follia. Bisogna impedire alla nostra fede di essere soltanto il frutto di una razionalità. Non dobbiamo però dimenticare che l’uomo intero crede. E credendo ha anche questa grande via che Dio gli ha offerto, la via dell’intelligenza. Leggete per esempio quel capolavoro teologico che è la lettera di San Paolo ai Romani, dove l’apostolo fa della teologia, cioè teo-logia, logos di Dio, ragionamento, approfondimento.

Ricordate quella bella immagine che Giovanni Paolo II mette all’inizio dell’ enciclica, significativamente intitolata Fides et Ratio, Fede e Ragione: l’immagine delle due ali, l’ala della fede e l’ala della ragione per ascendere nel campo della trascendenza e del mistero. Ci sono alcune parole bellissime che vorrei ora citarvi, di un grande credente che era uno straordinario filosofo e uno straordinario scienziato, Pascal, il quale dice: due eccessi: escludere la ragione, non ammettere che la ragione. Ecco i due estremi. E continua: “L’ultimo passo della ragione è riconoscere che c’è un’infinità di cose che la sorpassano”.

Ecco allora il nostro itinerario: non fermarsi alla ragione ma dalla ragione andare oltre. E quell’oltre è rappresentato in maniera straordinaria, sceneggiato direi, dal libro di Giobbe. Giobbe, circondato dai suoi amici, stimolato da loro, percorre una strada che sostanzialmente è una strada della logica, della ragione, della spiegazione di questo mistero che è il mistero del dolore, quindi è il mistero di Dio. E alla fine qual è il vero approdo? Dio non lo condanna, ascolta questo suo percorso travagliato, comprende anche l’oscurità, la protesta, l’urlo: “Tu, o Dio, sei come un leopardo che affila gli occhi su di me per divorarmi. Tu sei un generale trionfatore che mi sfonda il cranio”.

Un itinerario tormentato, ma alla fine Dio gli si presenta e gli dirà esplicitamente: tu devi imparare che esiste un disegno, un progetto più grande, al di là delle tue capacità, pur giuste. Non lo condanna, difatti. Questo grande disegno è il disegno che io sto tracciando. E qual è allora l’esito? L’esito finale del libro di Giobbe è nel versetto celebre 42,5, suggello di tutto il pellegrinaggio di questo essere tormentato, provato in tutte le sue dimensioni: “Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono”. Il punto terminale è quindi la contemplazione che supera persino l’ascolto, uno degli elementi fondamentali del discorso biblico della fede. Ma la fede non finisce nell’ascolto, la fede si apre alla visione, alla contemplazione.

Ecco allora il terzo punto del nostro itinerario: Paolo dice che non è sufficiente il logos della sofia umana ma abbiamo bisogno di ciò che egli chiama le parole dello Spirito.  Abbiamo bisogno cioè di una conoscenza trascendente, ulteriore, l’intelligenza illuminata dall’amore. Noi uomini e donne non abbiamo solo un canale di conoscenza: la scienza e la tecnica ci hanno sempre convinti che ciò che la tecnica produce e dichiara sia l’unica realtà dimostrabile, quindi vera. Tutte le altre sono considerate o come fantasie o come realtà fluide. In verità questo non è genuino: noi conosciamo attraverso tanti canali; pensate ad esempio all’innamoramento.

Quando uno scienziato, uno studioso – poniamo un biologo – ha passato un pomeriggio intero nel suo laboratorio studiando, successivamente si reca ad una festa e gli accade quello che è capitato a molti di voi, l’innamoramento: scopre la donna di cui si innamora perdutamente. In quel momento e da quel momento in avanti, lo sguardo su quel volto è solo lo sguardo dello scienziato che riesce ad identificare cellule, a identificare meccanismi biologici?

Il suo sguardo, ormai, è anche uno sguardo estetico, poetico, sentimentale, affettivo e non è vero che questo sia marginale, secondario rispetto al primo. Certo, se quella donna si ammalerà egli userà la strumentazione della scienza, ma ponete per esempio il caso che questa donna lo tradisca o lo abbandoni: è del tutto indifferente per lui se è innamorato ancora profondamente? È una tragedia, forse anche peggiore della malattia. Come vedete, l’uomo ha tanti canali di conoscenza: poesia, arte, il canale della fede, dello Spirito, la via della mistica.

Ecco allora, a questo punto io vorrei ricordarvi semplicemente due tra i tanti luoghi in cui lo Spirito fa il suo discorso. Primo luogo: la creazione, il cosmo, la materia. La religione biblica è una religione materiale, non solo spirituale, esistenziale, storica. Vi ho citato l’incipit del libro della Genesi “l
o Spirito di Dio – si dice al versetto 2 – aleggiava sulle acque”. Nel salmo 104 (103) “Mandi il tuo spirito, sono creati”, le creature sono tenute insieme da questo respiro, vento e Spirito al tempo stesso. Gli arabi chiamano il vento che arriva dal deserto “vento di Giuda”, il respiro di Dio. Dio respira sulla sua creazione e quindi la tiene in vita. Ecco un appello, un logos da scoprire: è contemplare la natura.

Lo scrittore inglese Chesterton diceva giustamente: “il mondo perirà per mancanza di meraviglie”. Sono un numero sterminato le meraviglie del mondo. Il mondo perirà per mancanza di meraviglia, non ha più lo stupore. Ecco perché dobbiamo ritrovare ancora la capacità di controllare all’interno della natura, dell’essere, della materia, dei corpi – il cristianesimo è anche una religione corporale – il messaggio, il logos, che lo Spirito ci dà. Cito il salmo 19 (18): “i cieli narrano la gloria di Dio, l’opera delle sue mani annunzia al firmamento”.

È bellissimo anche questo viaggio del sole, la sua orbita che viene considerata come una rivelazione, ma vorrei anche ricordarvi un inno bellissimo della liturgia sinagogale ebraica di pentecoste, dello Spirito quindi, in cui si immagina che tra il cielo e la terra Dio abbia disteso una pergamena, che è il mondo, sulla quale ha scritto i suoi messaggi, e  conclude dicendo che noi dobbiamo scrivere su questa pergamena il nostro alleluja, la nostra lode.

Clemente Rebora fa un commento al salmo 104: lo Spirito di Dio abbraccia tutto l’universo mentre il poeta, in un giorno di primavera – la poesia è datata  aprile 1953, Rebora morirà nel ’57 – è davanti ad un ramoscello verdeggiante di un mandorlo fiorito, vicino ad un fuscello d’erba. Rebora, invece di dire che la rugiada si è deposta ed è stillante, scrive che la rugiada è stellante, perché ricorda l’immagine di tante stelle. Ecco le sue parole:

Ramoscello primaverile,

a roselline, in boccio, aperte,

fra slanci leggiadri di foglioline,

accanto a un tenue fuscello,

stellante di candide trine,

nel semplice incanto

dell’essere, buona bellezza:

o Spirito del Signore, che tutto abbracci,

e ricrei la faccia della terra,

amoroso lavoro il filo d’erba.

Il filo d’erba dunque come amoroso lavoro di Dio.

Il secondo luogo in cui lo Spirito si rivela è la storia. La religione ebraico cristiana è una religione storica. Non devi cercare Dio prima di tutto nella sua trascendenza; è anche nei cieli, ma non è un imperatore impassibile; attraverso il Figlio suo che si fa carne, uomo come noi, parla un dialetto locale, appartiene ad una provincia sperduta dell’impero, Dio è nei crocevia delle nostre strade, della nostra storia. I dipinti di Chagall rappresentano bene questo spirito della Bibbia. Dio con il suo Spirito è presente nell’interno del villaggio, il villaggio da cui veniva, lo spettro ebraico. Gli angeli escono dai comignoli delle case dove si sta cucinando la cena; svoltato l’angolo trovi Dio e i profeti. Ed è per questo che allora è importante riconoscere lo Spirito all’interno della nostra esistenza.

Quando siamo venuti al mondo, abbiamo ricevuto questo respiro di vita dai nostri genitori che ci hanno generato. Questo respiro fisico è preziosissimo, è quello che ci permette di parlare, di vivere. In tutte le culture il simbolo è il respiro della vita, della vita fisica. Abbiamo poi ricevuto il battesimo e in quel momento un altro spirito, un altro respiro che è lo Spirito stesso di Dio. Vedi Galati 4 e Romani 8, quando Paolo dice “voi potete chiamare Dio non più re, sovrano, signore, onnipotente, potete chiamarlo Abbà, come lo chiamava il figlio suo Gesù”, perché tra lui e voi c’è questo stesso respiro ed è per questo che dobbiamo ininterrottamente ricordarlo.

Volentieri vado il fine settimana alla periferia di Roma a fare le cresime, nelle parrocchie della periferia e l’augurio che faccio ai bambini è: “fra 20 anni non ricorderete nulla di quello che io vi ho detto però vorrei sperare, sognare quasi, che riportando qui un vostro figlio che riceve la cresima, dentro di voi ci sia ancora sottile quel respiro dello Spirito che è stato immesso in voi nel battesimo e nella Confermazione”.

La Chiesa tutta allora, è una raccolta di respiri dello Spirito.In spirito ecumenico cito un passo di un vescovo patriarca della chiesa greco ortodossa di Antiochia, Ignazio IV Azim che dava questa bellissima rappresentazione della chiesa, teologicamente ineccepibile: senza lo Spirito Santo Dio è lontano, il Cristo resta nel passato, il Vangelo è lettera morta, la Chiesa una semplice organizzazione, l’autorità un dominio, la missione una propaganda, il culto un’evocazione, l’agire cristiano una morale da schiavi. Con lo Spirito Santo il cosmo si solleva e geme nelle doglie del regno, il Cristo risorto è presente, il Vangelo è potenza di vita, la Chiesa significa comunione, l’autorità è servizio liberatore, la missione è Pentecoste, la liturgia è memoriale e prefigurazione, anticipazione. E l’agire umano è deificato.

Eccoci ora insieme all’ultimo punto cardinale: “esprimendo cose spirituali in modo spirituale”. E questa è certamente una traduzione possibile, molto pallida devo dire perché non si tratta di esprimere, ma molto di più, giudicare, quindi saper scegliere, scegliere le cose dello Spirito con rigore; mettere insieme le cose, non disperdere; avere cioè una visione compiuta, custodire in pienezza, come si diceva di Maria che custodiva tutte queste cose, metteva insieme tutte le cose di cui era testimone e che in lei si compivano. Nella stessa maniera dovremmo allora “mettere insieme in modo spirituale le cose spirituali”.

La traduzione che vorrei proporvi: comporre, mettere insieme le cose spirituali in modo spirituale  quindi per gli uomini spirituali, per gli altri, per i fratelli, è comunicare, irradiare lo Spirito che è in noi. E questo è secondo me un significato suggestivo perché è il significato della testimonianza; è quella realtà che fa sì che non siamo più termometro, che non registriamo più l’ambiente, ma irradiamo luce e calore in un mondo spesso gelido.

Nella cultura indiana si diceva che il martire profuma la spada del suo carnefice, come l’ascia che taglia il balsamo, resta profumata, cioè neanche il martire lascia indifferente il suo carnefice. Non conosciamo ancora il numero dei martiri di questi giorni, però non dimentichiamo mai che al di là dell’apparente forza e indifferenza del male, lo Spirito riesce a penetrare in percorsi che sono indecifrabili. Ma Paolo dice che soprattutto ai fratelli, a coloro che sono già pneumatikói, come noi, a loro soprattutto dobbiamo mandare il nostro messaggio.

Come lasciare spazio alla parola, a questa parola che incida all’interno della nostra esistenza, che incida ferite nei campi della consuetudine?  Una poetessa ebrea diceva che l‘orecchio degli uomini è ostruito di ortiche che non permettono che questa parola incida ferite nei campi dell’abitudine, della superficialità. Un teologo protestante Dietrich Bonhoeffer, morto il 9 aprile del 1945, impiccato per ordine di Hitler ha lasciato un diario del suo carcere all’interno del quale c’è una sorta di invito, di lezione ad ascoltare, a vivere la parola di Dio. Vorrei che ascoltaste le sue parole nel silenzio delle nostre coscienze come una sorta di trama di vita per il futuro, per il futuro della nostra lettura e ascolto della parola. La Parola di Dio è avvolta da silenzio; il silenzio della parola è il silenzio bianco, non quello nero, senza parole, che non ha nessun senso.

I giovani rifiutano il silenzio e urlano anche per questo. Anche la Bibbia dice che il silenzio è una maledizione: quando Dio deve, vuole condannare un popolo, fa tacere la voce dello sposo e d
ella sposa che cantano, il suono degli strumenti musicali (Ezechiele e Geremia). Il silenzio della Parola invece è il silenzio bianco, riassunto di tutte le parole.

Facciamo silenzio prima di ascoltare la parola perché  i nostri pensieri siano già rivolti alla Parola, facciamo silenzio dopo l’ascolto della Parola perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi; facciamo silenzio la mattina presto perché Dio deve avere la prima Parola; facciamo silenzio prima di coricarci perché l’ultima Parola appartiene a Dio. Facciamo silenzio solo per amore della Parola.

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ZENIT Staff

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