E’ di nuovo Domenica, il memoriale della Vita più forte nella morte. E’ Domenica per noi, che durante la settimana abbiamo perduto sangue senza riuscire a guarire dalle sconfitte, dalle umiliazioni, dai peccati con i quali ci siamo difesi dal mondo.
Il flusso del sangue, infatti, nella Bibbia è vita che si perde e morte che lambisce l’esistenza. Per questo l’emorragia rendeva impuri, impedendo il culto, e quindi la relazione con Dio, come un anticipo dell’inferno. La donna del Vangelo lo era “da dodici anni”, numero che indica i mesi di un anno, immagine della totalità dell’esistenza. E stava “peggiorando”.
E’ immagine della nostra vita che ci sfugge senza riuscire a trattenerla, progetti che se ne vanno in fumo, relazioni fallimentari consegnate agli psicologi, alle terapie di gruppo, alle medicine, o agli amici, ai confidenti, alla televisione, ai social networks, ai manuali, alle palestre e alle meditazioni zen; o all’impegno, al fare, al produrre, tentando di dare un senso che riempia la voragine che inghiotte l’esistenza.
Ma sempre senza successo, anzi peggiorando. Sempre più poveri, “dilapidando ogni avere”. Ma il Signore é in mezzo a noi, è all’opera e passa beneficando; anche ora sta seguendo uno dei tanti Giairo che lo implorano dopo aver ascoltato l’annuncio che Lui è in grado guarire davvero. Passa Gesú, si tratta semplicemente di raggiungerlo e toccarlo.
Anche solo di sfuggita, anche “solo il lembo del suo mantello”, lo stesso del Profeta Elia, dal quale si sprigiona il potere di salvare la Vita che abbiamo perso. Ma sorge una domanda: abbiamo mai toccato Gesù? La donna del Vangelo lo tocca prima con la mente e con il cuore, lo tocca dentro di lei, dal fondo della sua disperazione, dal buio della sua impotenza.
“Chi mi ha toccato?”. Uno tra mille, e Lui si accorge dell’unica che lo ha toccato “tra la folla”, con ansia e paura, dal fondo delle sofferenze e dei fallimenti di una vita, ma con fede. Mentre la folla va a messa, prega, chiede grazie, si impegna “nel sociale”; bravi preti, brave mamme, bravi papà che fanno elemosine, volontariato, gruppi, gite e pellegrinaggi. E Lui non si accorge di nulla, e nulla di tutto ciò scuote il Signore, nulla carpisce la sua forza. Tanti si accalcano, forse lo toccano, ma è solo curiosità, religiosità superficiale, un tentativo, un numero in più sulla ruota della vita.
Per lei no, solo per lei è questione di vita o di morte. Dal cuore, dal desiderio disperato che si traduce in speranza, la sua mano si allunga e, “da dietro”, come il pubblicano nascosto nell’ombra al fondo del tempio, lo tocca tremante. E torna alla vita. Impura tocca il puro, infrangendo la legge secondo la quale non avrebbe assolutamente dovuto. Cosí facendo infatti, la donna contamina Gesù (cfr. Lev. 15, 19-33), lo tocca e lo attira dentro la propria immondezza. Lei sa che toccarlo da impura significava renderlo impuro come lei. Per questo si avvicina da tergo e lo tocca fugacemente, sperando d’essere salvata senza essere riconosciuta, senza che nessuno se ne dia conto e accusi Gesú.
Ma il Signore va oltre le apparenze, perché Lui guarda il cuore. Si rende conto di quello che è successo, “sente” che il flusso di morte di quella donna lo aveva raggiunto strappandogli la vita: a Lui la morte, a lei la Vita. Il mistero pasquale si compie in un incontro, immagine d’ogni sacramento che ridona la vita realizzando quello che significa, la vittoria di Gesù sulla morte. I due sanno quello che è successo, “sentono” la stessa cosa nel loro intimo, laddove gli occhi della carne che appesantiscono anche lo sguardo di Pietro, non possono arrivare: “sentono” lo stesso flusso d’amore e di vita, si “toccano” nel cuore in un abbraccio interiore che è il ritorno alla comunione del Paradiso.
E’ un’immagine fortissima della relazione di intimità con Gesù dalla quale scaturiscono tutti gli altri rapporti: in questo toccare della donna si rivelano le nozze mistiche che generano la santità matrimoniale, la santa sottomissione della sposa allo Sposo e il dono della vita di questi alla sposa, l’obbedienza fiduciosa della creatura al Creatore, il “mistero grande” di cui parla San Paolo riferendosi al sacramento del matrimonio. In questo gesto brillano anche lo splendore e la santità dell’unione sessuale dei corpi aperti al flusso di vita che sgorga da Cristo; e così l’amicizia, il fidanzamento, la relazione tra i genitori e i figli. Per questo Gesú la cerca, la vede, e con il suo sguardo la chiama.
E’ il compimento dell’amore, il frutto benedetto di ogni relazione che passa attraverso la mediazione della carne. La donna tocca il Signore, guarisce dall’egoismo che disperde la vita, per incontrare lo sguardo celeste di Dio. Ogni volta che ci si consegna a Cristo ci si ritrova in Paradiso; così, ogni volta che ci doniamo all’altro, sia nel talamo come nella vita di ogni giorno, si schiudono per noi le porte del Cielo, l’anticipo della vita che non muore.
Finalmente libera e tornata alla vita, la donna può “gettarsi ai piedi” di Gesù, professando la sua fede, il canto di lode che accompagna la sua Redditio Symboli; lì, accasciata davanti al Signore, racconta e testimonia l’incontro seguito all’annuncio, di come Gesù abbia avuto il potere di salvarla, laddove tutti e tutto avevano fallito, e quell’intimità esclusiva “sentita” nel fondo dello spirito, la gioia più grande di tutta la sua vita.
E diventa figlia, rigenerata nel potere di Gesù, attraverso la porta della fede che l’ha “salvata” prima di “guarirla”. Ora può andare in pace, sanata alla radice dal male, perché prima è stata “salvata”. L’audacia della sua fede ha aperto il cuore di Dio: toccare Gesù significa la fede pura e adulta nella quale abbandonarsi a Lui anche dal fondo del peccato più grave. La fede, infatti, è sporcare e contaminare Gesù, trascinarlo dentro la nostra vita mezza morta. E fare in modo che si accorga che ci ha salvati, obbligare il potere che il Signore sembra sia incapace di controllare.
Secondo la tradizione rabbinica, prima d’ogni altra cosa, Dio ha creato la misericordia, sapendo che l’uomo appena creato ne avrebbe avuto subito bisogno. Forse è tempo che non parliamo con nostra moglie, o con quel cugino che ci ha tolto denaro e onore. Forse l’emorragia ci ha prosciugato la forza per perdonare e chiedere perdono, per parlare con nostra figlia, per svegliarci e accogliere un nuovo giorno grigio di routine.
Forse abbiamo speso tutto, energie e speranze, ci siamo dibattuti come pesci nella rete cercando di saltar fuori dalla solitudine, dal dolore, dal tradimento. Forse i tanti affari con i quali abbiamo tentato di tenere lontana la realtà dura e difficile del ministero e della missione si sono dissolti e nessuno ha più bisogno di noi. Forse ci siamo ritrovati soli con anni spesi a rincorrere una pienezza e una pace mai trovate.
Fratelli, è giunto il momento unico e irripetibile di correre e toccare Gesù, con il cuore e con la mente: è santa l’emorragia come sono santi i “dodici anni” – tutta la nostra vita sino ad oggi – che ci hanno condotto sul bordo della piscina battesimale, pronti ad immergervi il nostro uomo vecchio. E’ santa la storia che ha reciso ogni alienazione, appoggio, sicurezza.
E’ santa l’impotenza che ci spinge a toccare il lembo del mantello di Cristo, e che suscita il desiderio di cercare in Lui solo consolazione, pace, amore e pienezza. E’ santa la nostra vita di oggi che ci costituisce per il Signore un tu vero e da amare, un “chi” che il Signore possa cercare tra la folla e riconoscere per salvare.
E’ santa la volontà di Dio che ci conduce alla fede adulta che non teme si toccare Cristo nel suo mantello che è la Chiesa dispensatrice dei sacramenti
che hanno potere su ogni nostro peccato. Proprio quello che crediamo ci stia distruggendo afferma invece la nostra identità unica e preziosa agli occhi di Cristo; la nostra debolezza gettata sul suo mantello ci rende oggetto delle sue attenzioni, della ricerca del suo sguardo, dello zelo del suo cuore.
E chi non vorrebbe attirare l’attenzione dell’amato? Con Gesù non è il trucco, non sono i vestiti, non sono le qualità a suscitare attenzioni e sguardi, perché Lui cerca la debolezza, l’inutilità, la povertà, proprio tutto quello che l’uomo disprezza. Come la “figlioletta” di Giairo, immagine di quanto di noi e in noi è ormai “agli estremi”. Mentre attorno le voci dei parenti e degli amici che credono di conoscere la nostra vita, fermi alla superficie delle cose, ripetono che ogni “figlia” dei nostri sforzi, dei desideri e dei progetti è ormai “morta”, ed è inutile “disturbare ancora il Maestro”.
Parole di una logica così stringente che ci assediano anche dal nostro intimo. Il matrimonio fa acqua, i figli non ascoltano, l’irreparabile suscita “derisione”, e molti “piangono e strepitano”, inducendoci a disperare e a vestire il lutto che avvolga i fallimenti, il vero obbiettivo del demonio. Ma anche oggi Gesù ci annuncia che la nostra vita “è solo addormentata, non è morta!”. Nulla di quanto speravamo e desideravamo è destinato alla corruzione; tutto si addormenta nella caducità e nella debolezza della carne per risvegliarsi e trasfigurarsi nell’incontro con Cristo, l’autore della vita.
Gesù “caccia via” tutti quelli che ci vogliono allontanare dalla fede, ed entra con la sua Chiesa “dove è la bambina”, esattamente dove oggi giace quella parte di noi che sembra morta. Ci porta con sé, “genitori” a cui è stata affidata la vita con la sua storia, che per il peccato si sta spegnendo su di un giaciglio di morte; e “prende la mano” inerme del matrimonio, della relazione con i figli, del lavoro, del fidanzamento e sussurra quell’ “Alzati, risuscita!” con cui ristabilisce nello splendore originale della volontà del Padre ogni frammento della nostra vita.
“Dodici anni” per comprendere la nostra debolezza, una vita per farci prendere per mano dal Signore e ascoltare l’annuncio che ci rimette in piedi, per “camminare” seguendo le sue orme di amore e libertà, “mangiando” finalmente il cibo che non perisce, la sua vita fatta carne e sangue capaci di compiere la volontà del Padre.