Il pensiero antico e medievale differenziava usualmente l’Intelletto (il nous, l’intellectus) dalla Ragione (il logos e la dianoia, poi ratio con Cicerone) come distinte modalità della conoscenza: l’uno è volto a intuire e a ordinare discorsivamente, l’altra a contemplare e a operare processi logici. Quando Platone, in passaggi celebri della Repubblica (VI 509C ss.), va a distinguere dianoia e noesis fa corrispondere ad essi la conoscenza delle realtà matematiche e delle pure Idee, ovvero gradi diversi di intelligibili. Nella Etica Nicomachea, Aristotele insisterà invece sulla capacità di acquisire l’intelligenza della realtà, capacità attuata dal nous immateriale che specifica propriamente la natura umana (I 7 1097b22-1098a20). In età medievale la Scolastica riprende questa distinzione, sottolineando la necessità del ragionamento discorsivo come tipica del pensiero umano.

Prima ancora dell’uso fattone da Galileo, ad esempio nella dedica a Ferdinando de’ Medici del Dialogo sopra i massimi sistemi del mondo, o ancor prima ne Il Saggiatore, nel Medioevo si diffonde anche l’immagine del “Libro della natura” come libro in cui intravedere le vestigia di Dio, desacralizzando la natura e cogliendola come frutto dell’operato divino. In questo modo doveva risultare facile e di certo ragionevole percepire il mondo della natura come una totalità da intelligere e da contemplare; una totalità, allora, che facilmente poteva anche divenire oggetto della filosofia, che nella sua vocazione (e identità) originaria è scienza della totalità. Questo non comportava l’esclusione della Ragione dall’indagine intorno alla natura; sebbene appartiene all’età moderna l’idea di rappresentare matematicamente i fenomeni naturali, già Ruggero Bacone faceva della matematica proprio lo strumento privilegiato per ottenere la comprensione della natura – sebbene con una forte connotazione ontologica che non lo rende troppo facilmente quel “precursore” che spesso si è voluto credere1.

Alla luce di questa storia passata, ci si chiede se oggi, di fronte ai problemi suscitati dall’emergenza ambientale e all’operare umano che ne è la causa, sia possibile ritrovare uno spazio contemplativo da dove intuire la natura non solo come luogo di masse in movimento e di energie da sfruttare, non solo come oggetto di tecniche da realizzare, ma anche come oggetto e sorgente di meraviglia. Il termine ecologia rende poca giustizia alla ricchezza che deriverebbe da un simile accostamento concettuale: ecologia è, letteralmente, il “pensiero dell’ambiente” (dal gr. oikos ambiente, casa e logos discorso) e costituisce una vera e propria scienza che vuole studiare le relazioni tra ambiente e organismi che vi abitano. Il termine non indica altro in sé, nonostante che negli ultimi decenni sia stato sempre usato alludendo alla richiesta di rispetto verso l’ambiente, che sarebbe più propriamente da connettere con l’“ambientalismo”.

Questo ha potuto provocare quelle esagerazioni ideologiche che hanno inteso l’uomo inserito nell’ambiente indistintamente, come un ente tra gli altri, naturalizzandolo fino a perderne le connotazioni più proprie: quali, ad esempio, la sua emergenza sulla natura, la capacità di contemplarla, di rappresentarla, di ispirarsi ad essa per scrivere poesie…

Per rappresentare la natura con un significato più ampio, per farne più di un semplice luogo di eventi da quantificare ma anche un luogo di enti da pensare nella loro dimensione ontologica, il pensiero potrebbe affiancare alla scienza e alla filosofia della scienza anche una filosofia della natura, per comprendere significati ulteriori a quelli compresi dalla scienza e applicati poi dalla tecnica. Scienza – filosofia della scienza – filosofia della natura: tre modi diversi, ma complementari e contigui, per parlare di cose medesime o affini.

Se queste riflessioni interessano essenzialmente il piano teoretico del nostro discorso, pur importantissimo, non sarebbero sufficienti e complete se non si cogliesse anche un’altra urgenza: quella di sentirsi in un legame più stretto con la natura per coglierne il senso, oltre al significato. La natura ci interpella, e occorre rispondere. Non solo mediante intellectus e ratio, ma anche mediante un sentire. Questo sentire non dovrebbe commutarsi in un sentimento di “pietà” per la natura, motivato dallo sfruttamento ambientale che ha dato luogo a numerose impietose ribellioni che l’umanità ha pagato caro, e a scenari metropolitani duri da vivere – da cui le importanti ricerche dell’ingegneria ambientale – e incapaci di suscitare poesia. Come osservava K. Lorenz, «L’alienazione generale, e sempre più diffusa, dalla natura vivente è in larga misura responsabile dell’abbrutimento estetico e morale dell’uomo civilizzato»2. Sembrerebbe maggiormente adeguato un altro atteggiamento, un altro sentimento, capace di evocare l’antica philia tra l’uomo e la natura che consente al primo di essere sorretto dalla bellezza della seconda e alla seconda di essere rispettata e curata. Si dà il caso, infatti, che è fin troppo facile percepire una strana pace al cospetto di ambienti incontaminati, sensibili di una immanente armonia: lo dimostra chiaramente la storia della letteratura e dell’arte.

A congiungere nell’uomo philia e bellezza vi è un sentimento, capace di donargli uno sguardo gratuito e stupito di fronte alle cose: è la tenerezza3, la capacità di aprire l’io al tu per recepire la bontà che è al di fuori di sé, restarne stupiti, e tornare al sé per orientarlo nuovamente alla bontà, lasciando che anche la sensibilità sia coinvolta sotto il segno della delicatezza e del rispetto.

Se la tenerezza coinvolge una dimensione incontrollata dell’animo umano, non per questo tale dimensione è incontrollabile. Può essere esercitata ed assunta, come un habitus dell’anima capace di orientare i desideri della sensibilità, in quanto modo di essere e disposizione d’animo, stabile e duratura, che può essere acquisita attraverso l’abitudine e che determina l’ethos dell’individuo (cf. Arist., Etica nicomachea II 1, 1103a15-20). Una strada silenziosa e forse faticosa, perché coinvolge ugualmente il sentire, il volere e il capire, ma una strada plausibile che potrebbe fare dell’uomo il protagonista del “pianeta nuovo”: non si può impostare un rapporto sereno e maturo con la natura e il Creato se non si coinvolgono l’uomo nella sua interezza e nella sua capacità di agire, se l’uomo non decide di possedersi per donarsi con entusiasmo al progetto di una bella umanità. La tenerezza consente di scorgere il bello e il buono laddove spesso non viene visto; la tenerezza fa scegliere il bello e il buono per promuoverlo, laddove spesso verrebbe facile scivolare nel cinismo e nello sconforto. Ma per questo la tenerezza interpella la volontà, perché va scelta, prima di essere promossa. Occorre per questo un’educazione, che passa prima di tutto per il sentimento di rispetto dell’ambiente, già incoraggiato nei programmi formativi delle scuole. Sebbene sia solo un primo passo, da rendere più generalizzato e consapevole.

Ecco allora l’idea di affiancare all’ecologia una “eco-tenerezza”. Nel senso di imparare a vedere e gustare la natura come fonte di una bellezza che c’è prima di noi e la cui bontà attende di essere gustata con tutti i sensi per capirne il senso: il senso di essere-lì-per-l’uomo, come una totalità donata sotto il segno di una benedizione originaria, per riempire la sua anima di ampi spazi calmi e orizzonti incontaminati, dove l’intelligere darebbe i contenuti all a ratio.

Flavia Marcacci ​è docente di Storia del pensiero scientifico presso la Pontificia Università Lateranense

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NOTE

[1] Cf. F. Alessio, Introduzione a Ruggero Bacone, Laterza, Roma-Bari 1985, pp. 61-87; G. Molland, Roger Bacon’s Knowledge of Mathematich, in J. Hackett (ed.), Roger Bacon and the sciences, Brill, Leiden-New York- Köln 1997, pp.151-173.

[2] K. Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Adelphi, Milano 1977, p. 39.

[3] Per il concetto di tenerezza e sul suo rapporto con l’ecologia cfr. C. Rocchetta, Teologia della tenerezza, EDB, Bologna 2000, pp. 27-46 e pp. 419-423.