Ieri mattina la Comunità Ebraica di Roma ha incontrato Papa Francesco in Vaticano. Riportiamo di seguito l’intervento del Rabbino Capo di Roma, Rav Riccardo Di Segni.
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La Comunità Ebraica di Roma è qui presente con una delegazione di rabbini e di dirigenti delle sue istituzioni. La ringraziamo per aver accolto la nostra richiesta di incontro, a pochi mesi dalla Sua elezione; un incontro che abbiamo desiderato come segno di continuità e di novità.
Continuità perché esiste in questa città un rapporto tra le nostre due comunità di fede che è eccezionale per la sua antichità -quasi due millenni-, la sua drammaticità in molti periodi della storia, la sua valenza simbolica come emblema del difficile rapporto ebraico cristiano e come laboratorio di confronto. Non possiamo entrambi ignorare questa lunga storia locale ma di significato universale, riflettere sui suoi insegnamenti, correggere gli errori, lenire le ferite, costruire.
Novità perché quello che è successo al popolo ebraico nello scorso secolo –Shoà e fondazione dello Stato d’Israele- ha segnato profondamente non solo l’ebraismo ma il mondo intero e la Chiesa stessa, indirizzandola verso un nuovo percorso.
Ognuno dei Papi che si sono succeduti in questi ultimi tempi ha dato il suo contributo notevole a questo percorso. Mi trovo qui a distanza di dieci anni a parlare per la terza volta ad un Pontefice diverso; con i Suoi due ultimi predecessori, ciascuno con la sua individuale personalità, dottrina e stile, abbiamo avuto un rapporto speciale; e ora sentiamo, come tutti sentono, che la parola novità qui è di casa.
Un nuovo che è antico al tempo stesso, e non potrebbe essere altrimenti per la Cattedra da cui parte, un nuovo che è riscoperta delle forze creatrici di cui ogni religione è portatrice anche se rischia di sopirle nel tempo.
Riferendomi alla novità e ai Suoi forti messaggi di questi mesi traccerei due linee. La prima riguarda il nostro confronto, i problemi di relazione tra di noi. Guardandoci dietro è evidente cosa è stato fatto di buono. Ma spesso la soluzione di un problema ne apre molti altri e non dobbiamo illuderci di aver risolto tutto o quasi tutto. Bisogna lavorare per chiarire ancora, per comprendere le sensibilità e i punti critici, perché i messaggi positivi si diffondano, l’amicizia e la fiducia crescano e il rispetto reciproco sia reale.
La seconda e forse più importante linea riguarda la responsabilità pubblica che deriva dalla nostra vicinanza. Vorrei fare un esempio. Secondo il nostro calendario liturgico abbiamo letto lo scorso Sabato la storia di Noè e del diluvio universale. C’è qualcosa che ci tormenta oggi in quel racconto, in cui, di tutta l’umanità, sopravvive solo una famiglia chiusa dentro una barca, mentre il resto è distrutto dal diluvio.
In questi giorni assistiamo paradossalmente al contrario: a chi muore dentro a una barca mentre intorno sopravvive un’umanità impotente e in parte indifferente. La nostra storia e la nostra fede si ribellano a tutto questo; e Lei ha dimostrato con la forza della Sua presenza che condivide questa ribellione e che abbiamo valori comuni da trasmettere all’umanità. I nostri Maestri Farisei, approfondendo il senso di quel racconto biblico e del suo seguito con la storia di Abramo, ci hanno insegnato che Abramo si è distinto da Noè che, seppure giusto, non fece qualcosa in difesa della sua generazione prima del diluvio, mentre Abramo pregò con insistenza per impedire la distruzione di Sodoma e Gomorra.
Salvare dalla distruzione, riparare e costruire un mondo migliore in cui ognuno abbia il suo posto: un dovere che rimane nel tempo. La costruzione è basata anche su gesti di amicizia. Durante il Suo Pontificato, che Le auguriamo lungo e sereno, viaggerà nel mondo, incontrando molte comunità ebraiche, visiterà Israele. Ma non potrà mancare una nuova e significativa visita alla nostra Comunità romana, che attende di accoglierLa come ha accolto i Suoi predecessori.