Discorso del Papa ai componenti del Tribunale della Rota Romana

Non si deve giungere a una dichiarazione di nullità ad ogni costo

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CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 29 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato da Benedetto XVI nel ricevere questo venerdì in udienza i prelati uditori, gli officiali e gli avvocati del Tribunale della Rota Romana in occasione della solenne inaugurazione dell’Anno giudiziario.

 

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Cari Componenti del Tribunale della Rota Romana!

Sono lieto di incontrarvi ancora una volta per l’inaugurazione dell’Anno Giudiziario. Saluto cordialmente il Collegio dei Prelati Uditori, ad iniziare dal Decano, Mons. Antoni Stankiewicz, che ringrazio per le parole che mi ha rivolto a nome dei presenti. Estendo il mio saluto ai Promotori di Giustizia, ai Difensori del Vincolo, agli altri Officiali, agli Avvocati e a tutti i Collaboratori di codesto Tribunale Apostolico, come pure ai Membri dello Studio Rotale. Colgo volentieri l’occasione per rinnovarvi l’espressione della mia profonda stima e della mia sincera gratitudine per il vostro ministero ecclesiale, ribadendo, allo stesso tempo, la necessità della vostra attività giudiziaria. Il prezioso lavoro che i Prelati Uditori sono chiamati a svolgere con diligenza, a nome e per mandato di questa Sede Apostolica, è sostenuto dalle autorevoli e consolidate tradizioni di codesto Tribunale, al cui rispetto ciascuno di voi deve sentirsi personalmente impegnato.

Oggi desidero soffermarmi sul nucleo essenziale del vostro ministero, cercando di approfondirne i rapporti con la giustizia, la carità e la verità. Farò riferimento soprattutto ad alcune considerazioni esposte nell’Enciclica Caritas in veritate, le quali, pur essendo considerate nel contesto della dottrina sociale della Chiesa, possono illuminare anche altri ambiti ecclesiali. Occorre prendere atto della diffusa e radicata tendenza, anche se non sempre manifesta, che porta a contrapporre la giustizia alla carità, quasi che una escluda l’altra. In questa linea, riferendosi più specificamente alla vita della Chiesa, alcuni ritengono che la carità pastorale potrebbe giustificare ogni passo verso la dichiarazione della nullità del vincolo matrimoniale per venire incontro alle persone che si trovano in situazione matrimoniale irregolare. La stessa verità, pur invocata a parole, tenderebbe così ad essere vista in un’ottica strumentale, che l’adatterebbe di volta in volta alle diverse esigenze che si presentano.

Partendo dall’espressione “amministrazione della giustizia”, vorrei ricordare innanzitutto che il vostro ministero è essenzialmente opera di giustizia: una virtù – “che consiste nella costante e ferma volontà di dare a Dio e al prossimo ciò che è loro dovuto” (CCC, n. 1807) – della quale è quanto mai importante riscoprire il valore umano e cristiano, anche all’interno della Chiesa. Il Diritto Canonico, a volte, è sottovalutato, come se esso fosse un mero strumento tecnico al servizio di qualsiasi interesse soggettivo, anche non fondato sulla verità. Occorre invece che tale Diritto venga sempre considerato nel suo rapporto essenziale con la giustizia, nella consapevolezza che nella Chiesa l’attività giuridica ha come fine la salvezza delle anime e “costituisce una peculiare partecipazione alla missione di Cristo Pastore… nell’attualizzare l’ordine voluto dallo stesso Cristo” (Giovanni Paolo II, Allocuzione alla Rota Romana, 18 gennaio 1990, in AAS 82 [1990], p. 874, n.4). In questa prospettiva è da tenere presente, qualunque sia la situazione, che il processo e la sentenza sono legati in modo fondamentale alla giustizia e si pongono al suo servizio. Il processo e la sentenza hanno una grande rilevanza sia per le parti, sia per l’intera compagine ecclesiale e ciò acquista un valore del tutto singolare quando si tratta di pronunciarsi sulla nullità di un matrimonio, il quale riguarda direttamente il bene umano e soprannaturale dei coniugi, nonché il bene pubblico della Chiesa. Oltre a questa dimensione che potremmo definire “oggettiva” della giustizia, ne esiste un’altra, inseparabile da essa, che riguarda gli “operatori del diritto”, coloro, cioè, che la rendono possibile. Vorrei sottolineare come essi devono essere caratterizzati da un alto esercizio delle virtù umane e cristiane, in particolare della prudenza e della giustizia, ma anche della fortezza. Quest’ultima diventa più rilevante quando l’ingiustizia appare la via più facile da seguire, in quanto implica accondiscendenza ai desideri e alle aspettative delle parti, oppure ai condizionamenti dell’ambiente sociale. In tale contesto, il giudice che desidera essere giusto e vuole adeguarsi al paradigma classico della “giustizia vivente” (cfr Aristotele, Etica nicomachea, V, 1132a), sperimenta la grave responsabilità davanti a Dio e agli uomini della sua funzione, che include altresì la dovuta tempestività in ogni fase del processo: «quam primum, salva iustitia» (Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, Instr. Dignitas connubii, art. 72). Tutti coloro che operano nel campo del Diritto, ognuno secondo la propria funzione, devono essere guidati dalla giustizia. Penso in particolare agli avvocati, i quali devono non soltanto porre ogni attenzione al rispetto della verità delle prove, ma anche evitare con cura di assumere, come legali di fiducia, il patrocinio di cause che, secondo la loro coscienza, non siano oggettivamente sostenibili.

L’azione, poi, di chi amministra la giustizia non può prescindere dalla carità. L’amore verso Dio e verso il prossimo deve informare ogni attività, anche quella apparentemente più tecnica e burocratica. Lo sguardo e la misura della carità aiuterà a non dimenticare che si è sempre davanti a persone segnate da problemi e da sofferenze. Anche nell’ambito specifico del servizio di operatori della giustizia vale il principio secondo cui “la carità eccede la giustizia” (Enc. Caritas in veritate, n. 6). Di conseguenza, l’approccio alle persone, pur avendo una sua specifica modalità legata al processo, deve calarsi nel caso concreto per facilitare alle parti, mediante la delicatezza e la sollecitudine, il contatto con il competente tribunale. In pari tempo, è importante adoperarsi fattivamente ogni qualvolta si intraveda una speranza di buon esito, per indurre i coniugi a convalidare eventualmente il matrimonio e a ristabilire la convivenza coniugale (cfr CIC, can. 1676). Non va, inoltre, tralasciato lo sforzo di instaurare tra le parti un clima di disponibilità umana e cristiana, fondata sulla ricerca della verità (cfr Instr. Dignitas connubii, art. 65 §§ 2-3).

Tuttavia occorre ribadire che ogni opera di autentica carità comprende il riferimento indispensabile alla giustizia, tanto più nel nostro caso. “L’amore – «caritas» – è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità nel campo della giustizia e della pace” (Enc. Caritas in veritate, n. 1). “Chi ama con carità gli altri è anzitutto giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è «inseparabile dalla carità», intrinseca ad essa” (Ibid., n. 6). La carità senza giustizia non è tale, ma soltanto una contraffazione, perché la stessa carità richiede quella oggettività tipica della giustizia, che non va confusa con disumana freddezza. A tale riguardo, come ebbe ad affermare il mio Predecessore, il venerabile Giovanni Paolo II, nell’allocuzione dedicata ai rapporti tra pastorale e diritto: “Il giudice […] deve sempre guardarsi dal rischio di una malintesa compassione che scadrebbe in sentimentalismo, solo apparentemente pastorale” (18 gennaio 1990, in AAS, 82 [1990], p. 875, n. 5).

Occorre rifuggire da richiami pseudopastorali che situano le questioni su un piano meramente orizzontale, in cui ciò che conta è soddisfare le richieste soggettive per giungere ad ogni costo alla dichiarazione di nullità, al fine di poter superare, tra l’altro, gli
ostacoli alla ricezione dei sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Il bene altissimo della riammissione alla Comunione eucaristica dopo la riconciliazione sacramentale, esige invece di considerare l’autentico bene delle persone, inscindibile dalla verità della loro situazione canonica. Sarebbe un bene fittizio, e una grave mancanza di giustizia e di amore, spianare loro comunque la strada verso la ricezione dei sacramenti, con il pericolo di farli vivere in contrasto oggettivo con la verità della propria condizione personale.

Circa la verità, nelle allocuzioni rivolte a codesto Tribunale Apostolico, nel 2006 e nel 2007, ho ribadito la possibilità di raggiungere la verità sull’essenza del matrimonio e sulla realtà di ogni situazione personale che viene sottoposta al giudizio del tribunale (28 gennaio 2006, in AAS 98 [2006], pp. 135-138; e 27 gennaio 2007, in AAS 99 [2007], pp. 86-91; come pure sulla verità nei processi matrimoniali (cfr Instr. Dignitas connubii, artt. 65 §§ 1-2, 95 § 1, 167, 177, 178). Vorrei oggi sottolineare come sia la giustizia, sia la carità, postulino l’amore alla verità e comportino essenzialmente la ricerca del vero. In particolare, la carità rende il riferimento alla verità ancora più esigente. “Difendere la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, «si compiace della verità» (1 Cor 13, 6)” (Enc. Caritas in veritate, n. 1). “Solo nella verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta […]. Senza verità la carità scivola nel sentimentalismo. L’amore diventa un guscio vuoto, da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell’amore in una cultura senza verità. Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola abusata e distorta, fino a significare il contrario” (Ibid., n. 3).

Bisogna tener presente che un simile svuotamento può verificarsi non solo nell’attività pratica del giudicare, ma anche nelle impostazioni teoriche, che tanto influiscono poi sui giudizi concreti. Il problema si pone quando viene più o meno oscurata la stessa essenza del matrimonio, radicata nella natura dell’uomo e della donna, che consente di esprimere giudizi oggettivi sul singolo matrimonio. In questo senso, la considerazione esistenziale, personalistica e relazionale dell’unione coniugale non può mai essere fatta a scapito dell’indissolubilità, essenziale proprietà che nel matrimonio cristiano consegue, con l’unità, una peculiare stabilità in ragione del sacramento (cfr CIC, can. 1056). Non va, altresì, dimenticato che il matrimonio gode del favore del diritto. Pertanto, in caso di dubbio, esso si deve intendere valido fino a che non sia stato provato il contrario (cfr CIC, can. 1060). Altrimenti, si corre il grave rischio di rimanere senza un punto di riferimento oggettivo per le pronunce circa la nullità, trasformando ogni difficoltà coniugale in un sintomo di mancata attuazione di un’unione il cui nucleo essenziale di giustizia – il vincolo indissolubile – viene di fatto negato.

Illustri Prelati Uditori, Officiali ed Avvocati, vi affido queste riflessioni, ben conoscendo lo spirito di fedeltà che vi anima e l’impegno che profondete nel dare attuazione piena alle norme della Chiesa, nella ricerca del vero bene del Popolo di Dio. A conforto della vostra preziosa attività, su ciascuno di voi e sul vostro quotidiano lavoro invoco la materna protezione di Maria Santissima Speculum iustitiae e imparto con affetto la Benedizione Apostolica.

[© Copyright 2010 – Libreria Editrice Vaticana]

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ZENIT Staff

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