Democrazia e Chiesa

ROMA, sabato, 20 febbraio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lectio magistralis svolta l’11 febbraio scorso dal Cardinale Tarcisio Bertone, Segretario di Stato vaticano, in occasione del conferimento della laurea honoris causa da parte della Pontificia Facoltà Teologica dell’Università di Wrocław, in Polonia.

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* * *

I
DEMOCRAZIA E DOTTRINA SOCIALE
DELLA CHIESA

Innanzitutto, una premessa. Il tema della democrazia è entrato nella riflessione della Chiesa, più tradizionalmente abituata ai rapporti con gli Stati a regime monarchico, dal sec. XIX, con la nascita e lo sviluppo delle moderne democrazie elettive. Il dato di fatto ha spinto il Magistero ad elaborare una dottrina sociale coerente, anche se già san Tommaso, in qualche modo, aveva espresso la preferenza a un tipo di ordinamento più vicino al diritto naturale, in quanto espressione della sovranità popolare.

A proposito del diritto naturale mi sia permesso di fare una rapida digressione. Oggi si parla spesso più che di diritti “umani” di diritti “individuali” trasformando desideri da soddisfare in diritti senza un vero fondamento ontologico e quindi universale. Ecco perché mi pare quanto mai opportuno sottolineare che i diritti umani sono universali non perché approvati e riconosciuti da maggioranze parlamentari o della pubblica opinione, bensì perché poggiano sulla natura dell’essere umano, che resta inalterata pur nel mutare delle condizioni sociali e storiche. Cito quanto disse Benedetto XVI all’Assemblea delle Nazioni Unite a New York il 18 aprile 2008: “Questi diritti trovano il loro fondamento nella legge naturale inscritta nel cuore dell’uomo e presente nelle diverse culture e civiltà. Separare i diritti umani da tale contesto significherebbe limitare la loro portata e cedere a una concezione relativista, per la quale il senso e l’interpretazione dei diritti potrebbe variare e la loro universalità potrebbe essere negata in nome delle diverse concezioni culturali, politiche, sociali e anche religiose”. Sono considerazioni che valgono non solo per i diritti dell’uomo, ma per ogni intervento dell’autorità legittima chiamata a regolare secondo vera giustizia la vita della comunità mediante leggi che non siano frutto dell’adesione ad un mero proceduralismo, ma che discendano dalla volontà di tendere all’autentico bene della persona e della società e per questo facciano riferimento alla legge naturale. Nella Caritas in veritate Benedetto XVI ci spinge ad un’ulteriore profonda considerazione, avvertendoci che “i diritti umani rischiano di non essere rispettati” quando “vengono privati del loro fondamento trascendente” (n. 56), cioè quando si dimentica che “Dio è il garante del vero sviluppo dell’uomo, in quanto, avendolo creato a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità”(n. 29).

Ritornando ora al tema delle moderne democrazie elettive, bisogna dare atto che la loro struttura è fondata sul principio della sovranità popolare e si basa sul presupposto dell’essenziale uguaglianza di tutti gli uomini [1]. Di qui deriva l’imperativo di instaurare un ordine politico-giuridico nel quale siano meglio tutelati i diritti della persona [2] e il suo adeguato sviluppo sociale.

I principi animatori delle moderne democrazie sono fondamentalmente tre: i principi di sussidiarietà, di solidarietà e di responsabilità, ampiamente descritti e sviluppati nei documenti del Magistero sociale del Papa e dei vescovi. Ma ciò che fin qui ho sinteticamente esposto riguarda la Comunità Politica. Si può applicare tutto questo anche alla Chiesa?

La struttura della Chiesa

La Chiesa ha un proprio diritto, denominato diritto ecclesiale o canonico, la cui funzione è far sì che i fedeli attuino la loro vocazione nello stesso tempo personale e comunitaria, con un duplice fine: tutelare la comunione ecclesiale e proteggere i diritti dei singoli fedeli, fini che dipendono l’uno dall’altro, in quanto solo nel promuovere e tutelare il bene comune, cioè la comunione ecclesiale, si realizza la sempre più piena dignità dell’uomo come persona umana e come fedele. La Chiesa cattolica ha su questa terra una duplice struttura: a) intima e spirituale, perciò è una comunità di fede, di speranza, di carità [3]; b) esterna e visibile, perciò è nello stesso tempo un organismo sociale e giuridico, ordinato gerarchicamente. Si presenta quindi come istituzione dotata di un fine e di mezzi adatti per conseguire il fine. E’ senz’altro un modello tipico di società religiosa che ha rivendicato e formulato un proprio ordinamento giuridico sovrano e indipendente dal potere civile, fondato sulla pretesa di avere una missione propria ed esclusiva verso tutti gli uomini, ricevuta da Dio stesso, la cui finalità propria ed esclusiva è la salvezza delle anime.

Don Sturzo afferma: «La forma religiosa è una forma fondamentale del vivere sociale. Non si può concepire una società in concreto – proiezione e risultante delle tendenze finalistiche individuali – senza una forma religiosa. La “forma religiosa” può dirsi: la necessaria realizzazione concreta sociale del bisogno dell’Assoluto» [4]. Questa forma, anche nelle religioni precristiane o non cristiane tende ad affermare la sua autonomia, benché sia incontestabile che nei vari stadi del periodo precristiano non si è mai giunti ad avere piena coscienza di una forma religiosa autonoma ed universale rispetto ad ogni altra forma di socialità. Fino all’avvento del Cristianesimo gli uomini pensarono sempre ad un vincolo inscindibile di rapporti tra religione e famiglia, tribù, razze, nazione, impero. Fu con l’avvento del Cristianesimo che la forma religiosa divenne una Chiesa tra le nazioni, liberandosi da ogni legame mondano-temporale-materialistico, e si stabilì definitivamente su una base personale e di coscienza.

Della Chiesa come società visibile fanno parte a pieno titolo tutti i battezzati, i quali, proprio in forza del battesimo che li ha incorporati a Cristo [5], condividono una stessa dignità e missione e partecipano alla triplice funzione di Cristo profeta, sacerdote e pastore. La fondamentale e uguale dignità e partecipazione che tutti hanno in forza dell’unico battesimo viene esercitata, secondo una diversità di funzioni, carismi e vocazioni che determinano la “condizione” propria di ciascuno [6]. Espressione essenziale delle diverse funzioni che si danno nella Chiesa sono quelle proprie del ministero gerarchico. La gerarchia si perpetua attraverso il sacramento dell’Ordine sacro, la cui ricezione conferisce all’ordinato l’abilitazione ad esercitare l’autorità che Cristo ha, come Capo, su tutto il corpo della Chiesa, mentre i fedeli laici possono cooperare al ministero gerarchico in quelle funzioni che non richiedono necessariamente l’Ordine sacro [7].

Non tutto il governo della Chiesa spetta ad ogni membro della gerarchia, in quanto le diverse mansioni sono distribuite attraverso un’organizzazione stabile ed ordinata di funzioni pubbliche. Esistono poi due livelli fondamentali di organizzazione, quello universale e quello particolare. Tuttavia, l’insieme delle Chiese particolari che formano la Chiesa universale non deriva dalla semplice aggregazione o federazione di soggetti autosufficienti. Le Chiese particolari, nelle quali e dalle quali esiste la sola Chiesa cattolica, sono formate a immagine della Chiesa universale, il cui governo supremo è affidato a due soggetti, il Papa e il Collegio dei Vescovi; quest’ultimo però non ha autorità se non in comunione con il Romano Pontefice, che conserva integralmente il suo potere primaziale su tutti, pastori e fedeli [8]. Ed il Papa, per svolgere il suo ministero di pastore universale, si avvale di vari organismi e persone: sinodo dei Vescovi, collegio dei Cardinali, Curia romana, Legati pontifici, ecc.

I Vescovi, da parte loro, ricevono con la consacrazione episcopale la potestà di santificare, di insegnare e di governare. Nel compiere il proprio ufficio pastorale il Vescovo diocesano conta a sua volta sulla collaborazione dei sacerdoti e sull’impegno, che si fonda nel batte
simo, di tutti i fedeli. Vi sono diversi uffici e organismi che lo aiutano in tale sua funzione pastorale: Vescovi ausiliari, Vicari episcopali, sinodo diocesano, Curia diocesana, Consigli di partecipazione (collegio dei consultori, consiglio presbiterale, consiglio per gli affari economici, consiglio pastorale diocesano). Esistono poi strutture e organismi sovradiocesani: come ad esempio, le Province ecclesiatiche, i Metropoliti, i Concili particolari, le Conferenze episcopali. Parallelamente alla Chiesa latina, regolata dal Codex Iuris Canonici vigente, promulgato nel 1983, le Chiese Orientali hanno la loro propria tradizione e configurazione, e sono regolate dal Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, promulgato nel 1990.

II
COMUNITÀ POLITICA
E CHIESA COMUNIONE

È evidente, da una semplice comparazione delle esposizioni precedenti, quanto sia differente la natura dello “Stato democratico” dalla natura della Chiesa. La stessa origine delle due rispettive strutture, i fini loro assegnati, e la loro successiva articolazione ne confermano la radicale diversità.

Eppure anche nella struttura della Chiesa non mancano elementi analoghi, di forte affinità, che la fanno “respirare” democraticamente: la centralità della persona umana, l’unica creatura da Dio voluta e amata per se stessa[9], ed ordinata alla salvezza eterna; l’uguaglianza fondamentale dei membri della Chiesa, in forza della Cristoconformazione battesimale; la collegialità e la sinodalità come principi-motori della vita della Chiesa, sia a livello di Chiesa universale, sia a livello di Chiesa particolare; la partecipazione di tutti i fedeli alla triplice funzione sacerdotale, profetica e regale di Cristo e alla missione della Chiesa; le forme concrete di tale cooperazione nella varietà dei consigli a livello diocesano e parrocchiale, con la distinzione del voto deliberativo o consultivo, a seconda delle materie da trattare e dei ruoli che vi sono implicati. Non c’è dubbio che un impulso decisivo in questo senso sia stato dato dal Concilio Vaticano II e dalla legislazione successiva stabilita nei due Codici, quello latino e quello orientale.

Il ruolo dei laici nella Chiesa

Mi domando ora quale siano lo specifico ruolo dei laici e la loro partecipazione alla missione della Chiesa. In merito, non mancano i punti di riferimento nei documenti del Magistero, e in particolare nel Concilio Vaticano II e nell’Esortazione post-sinodale Christifideles laici di Giovanni Paolo II (1988), che al n. 2 lancia una sfida: occorre «individuare le strade concrete perché la splendida “teoria” sul laicato espressa dal Concilio possa diventare un’autentica “prassi ecclesiale”. Ed il testo prosegue segnalando i problemi emergenti: i ministeri e i servizi ecclesiali da affidare ai laici; la diffusione dei nuovi “movimenti”, il posto e il ruolo della donna. Ma per aprire strade nuove occorre uno stile nuovo e nuovi spazi per i christifideles. Lo stile nuovo non può essere che quello sinodale, valido non soltanto per la celebrazione del Sinodo, ma anche come metodo per l’approccio ai problemi.

La celebrazione dei Sinodi diocesani più recenti, rispetto a quelli del passato, si caratterizza precisamente per il fatto che non si tratta più solo di un’istituzione quasi esclusivamente clericale a carattere legislativo, in cui si procede all’adattamento della legislazione universale alla concreta situazione locale [10], ma è piuttosto un evento spiritualmente e teologicamente denso nel quale le varie componenti del Popolo di Dio, sotto la guida del Vescovo, esprimono e danno il loro contributo per meglio manifestare il mistero della Chiesa. Quello sinodale è allora uno stile che ha il pregio di coinvolgere tutte le comunità, chiamandole alla partecipazione attiva e responsabile; uno stile che esige ricerca e dialogo, elaborazione di proposte con risposte non prefabbricate; uno stile che domanda l’ascolto di tutti, o quanto meno delle rappresentanze delle comunità, come prevede il Diritto Canonico.

Potere, servizio e responsabilità

Potrebbe essere che talora le nuove strutture sinodali, specialmente della Chiesa particolare, siano concepite, e talora persino strumentalizzate, in funzione di una logica mondana di potere: dall’alto verso il basso per la conservazione dello “status quo“, dal basso verso l’alto per la scalata al potere, vale a dire in funzione della così detta “democratizzazione” della Chiesa. Proprio all’interno di quest’ultima tendenza si dimentica facilmente che anche la democrazia, come ogni sistema costituzionale, è una struttura di potere, che si pone perciò, lo si voglia o no, al pari di ogni sistema di governo, essenzialmente in termini di ripartizione di potere. Evidentemente tale dinamica del potere, se trasportata nell’ambito ecclesiale, non può non diventare radicalmente equivoca, perché nella Chiesa il rapporto strutturale, anche al livello decisionale-operativo, tra la Gerarchia e il resto del Popolo di Dio, non può mai ultimamente essere posto in termini di ripartizione di potere, a meno di scadere nell’empirismo teologico e perciò anche giuridico. Infatti, il problema non può essere posto né in termini ideologici di lotta di classe, né in quelli più tipicamente politici dell’equilibrio delle forze. All’interno della Chiesa il problema di una necessaria e ordinata ripartizione delle competenze non può mai coincidere, come ultimamente avviene all’interno dell’ambito statale, con il problema del possesso di una porzione più o meno grande del potere, perché il potere – se per potere si intende la responsabilità ultima e perciò il servizio specifico dei Vescovi di fronte alla vita della Chiesa – non è divisibile. La divisione delle competenze dovrebbe servire, nell’ordinamento canonico, solo a regolare, con un legittimo criterio di efficienza, l’intervento operativo delle singole persone e dei singoli organismi, tenendo conto della loro funzione e del loro carisma [11].

La Chiesa può diventare una democrazia?

Diversi movimenti sorti nel nostro tempo reclamano una forma di democratizzazione della Chiesa, nel senso di integrare nella sua costituzione interna quel patrimonio di diritti della libertà che l’illuminismo ha elaborato e che poi è stato riconosciuto come regola fondamentale delle formazioni politiche. A questi movimenti sembra ovvio servirsi di tali strutture di libertà per passare da una Chiesa considerata paternalistica e distributrice di beni ad una Chiesa-comunità, così che nessuno più rimanga fruitore passivo dei suoi doni. Tutti devono invece diventare operatori attivi della vita cristiana. La Chiesa non deve più venire calata giù dall’alto. A queste critiche e a queste aspirazioni corrisponde la formazione di una Chiesa che si costituisce attraverso discussioni, accordi, decisioni e che, nel dibattito, fa emergere ciò che può essere richiesto al fedele come appartenente alla fede o come linea morale direttiva. Anche la liturgia non sfugge a questo processo in quanto essa non deve più corrispondere a uno schema previo già stabilito, ma deve sorgere invece sul posto, in una data situazione, ad opera della comunità per la quale viene celebrata. Di questo passo può diventare un ostacolo anche la parola della Scrittura, alla quale però non si può del tutto rinunciare e che quindi viene affrontata con ampia libertà di scelta.

Di fronte ad una tale concezione di Chiesa, frutto de
ll’autodeterminazione democratica, sorgono però precise domande.

A chi spetta il diritto di prendere le decisioni? Su quale base ciò avviene? E’ ovvio come il confronto con la democrazia politica non regga con la struttura della Chiesa. Nella democrazia politica a queste domande si risponde con il sistema della rappresentanza: attraverso le elezioni i singoli scelgono i loro rappresentanti, i quali prendono le decisioni per loro. Questo incarico è limitato nel tempo; è circoscritto anche contenutisticamente in grandi linee dal sistema partitico e comprende solo quegli ambiti dell’azione politica che dalla Costituzione sono assegnati alle entità rappresentative. A questo proposito, però, rimangono sul tappeto delle questioni: la minoranza deve inchinarsi alla maggioranza, e questa minoranza può essere molto grande. Inoltre non è sempre garantito che il rappresentante eletto agisca e parli davvero nel senso desiderato dall’elettore, cosicché anche la maggioranza vittoriosa, osservando le cose più da vicino, non può considerarsi affatto del tutto come soggetto attivo dell’evento politico. Al contrario essa deve accettare anche “decisioni prese da altri”, onde non mettere in pericolo il sistema nella sua interezza.

Più importante per la nostra questione è però un problema generale. Tutto quello che gli uomini fanno può anche essere annullato da altri. Tutto ciò che proviene da un gesto umano può non piacere ad altri. Tutto ciò che una maggioranza decide può essere abrogato da un’altra maggioranza. Una Chiesa che riposi solamente sulle decisioni di una maggioranza diventa una Chiesa puramente umana, ridotta al livello di ciò che è fattibile e plausibile, di quanto è frutto della propria azione e delle proprie intuizioni e opinioni, dove l’opinione sostituisce la fede. Effettivamente, nelle formule di fede coniate da sé spesso il significato dell’espressione “credo” o “noi crediamo”, non va mai al di là del significato “noi pensiamo”. La Chiesa fatta da sé (“Religione fai da te”, come dice Benedetto XVI) ha alla fine il sapore del “se stessi”, che agli altri “se stessi” non è mai gradito e ben presto rivela la propria piccolezza, si ritira nell’ambito dell’empirico, e così si dissolve anche come ideale sognato. La domanda che ora sorge spontanea è quali prospettive ecclesiologiche sono necessarie per superare una simile crisi.

La comunione come principio formale della vita ecclesiale

Dobbiamo tornare alla visione del cristiano, l’uomo nuovo, che avendo incontrato Cristo possiede di fatto una struttura, non solo morale ma ontologica, nuova. Egli sa di appartenere a Cristo e sa che questa appartenenza genera in lui un criterio nuovo ed unico per affrontare la realtà e l’esistenza. La concezione dell’uomo come uomo nuovo, inaugurata da Cristo, è l’unica che risolve l’antinomia tra persona e società e permette anche di concepire in modo nuovo il pluralismo all’interno della Chiesa. Se la personalità cristiana si costituisce solo all’interno di un ambito di comunione, ne deriva che anche il pluralismo ecclesiale non può essere concepito come pluralismo di individui, ma fondamentalmente come pluralismo di Chiese particolari o di comunità.

Il fatto della comunione domina tutta la personalità cristiana e ne informa le varie ed articolate espressioni. Non è quindi una cosa da fare tra le altre cose, è il modo di fare ogni cosa. Questo è capitale per intendere rettamente il significato delle strutture sinodali e di conseguenza il modo di lavorare in esse. Lo specifico dell’elemento ecclesiale, vale a dire il lavoro per un giudizio comune operativo-decisionale all’interno della comunità cristiana, non può mai essere ridotto ad una forma di attivismo associazionistico. Il “fare o decidere qualche cosa assieme” può eventualmente esaurire il significato delle associazioni secolari, come i circoli culturali, le società economiche e altre consimili, che non chiedono alle persone di giocarsi integralmente o comunque al di là delle prestazioni richieste. I cristiani per contro non si riuniscono mai solo per decidere qualcosa assieme, per dare una prestazione, ma per vivere la comunione facendo e decidendo assieme. La comunione non è in funzione dell’attività, ma l’attività in funzione della vita in comunione. La ragione ultima per cui i cristiani si riuniscono è data dal fatto che essi si riconoscono convocati da Cristo, originati e costituiti da Lui nella comunione.

Da questa concezione del cristiano e della Chiesa come realtà di comunione si possono trarre alcune conseguenze.

La costruzione della Chiesa come impegno globale del cristiano

Il primo compito del cristiano è quello di costruire la Chiesa, affinché attraverso di essa possa avvenire l’annuncio della salvezza al mondo. L’annuncio cristiano non può avvenire individualisticamente, è un annuncio di comunione generato da una comunione.

Costruendo la Chiesa il cristiano costruisce il mondo, lo anima, lo trasforma e redime perché la Chiesa è nel mondo [12]. Il Santo Padre Benedetto XVI non di rado invita a riscoprire la vocazione laicale a servizio dell’annuncio evangelico: “Ogni ambiente, circostanza e attività in cui ci si attende che possa risplendere l’unità tra la fede e la vita è affidato alla responsabilità dei fedeli laici, mossi dal desiderio di comunicare il dono dell’incontro con Cristo e la certezza della dignità della persona umana. Ad essi spetta di farsi carico della testimonianza della carità specialmente con i più poveri, sofferenti e bisognosi, come anche di assumere ogni impegno cristiano volto a costruire condizioni di sempre maggiore giustizia e pace nella convivenza umana, così da aprire nuove frontiere al Vangelo” [13].

La vita del cristiano nel mondo è segnata e sostenuta dalle categorie generate dalla comunione ecclesiale senza conflitti e soluzione di continuità con la verità intrinseca alle realtà terrestri. Intesa in questo senso non esiste un’autonomia del cristiano come persona, ma solo un’autonomia delle cose. Il suo compito consiste nel sapersi rapportare con le realtà terrestri usando le categorie proprie della fede. E non esiste un’autonomia del laico nei confronti della gerarchia, nel senso che non esiste un ambito in cui il laico costruisce il mondo in modo disgiunto e indipendente senza costruire nello stesso tempo la Chiesa. Può costruire però la Chiesa solo in comunione con tutto il popolo di Dio e perciò anche con la gerarchia. Il rapporto tra laicato e gerarchia è perciò un rapporto di comunione, non di sottomissione né di potere.

Testimonianza invece di rappresentanza

L’idea fondamentale del parlamentarismo è quella della rappresentatività. Il potere è demandato dal popolo a persone che lo rappresentano, sulla base del suffragio universale. Nella comunità cristiana il concetto di rappresentatività è fondamentalmente diverso per due ordini di ragioni. Anzitutto le persone che guidano il Popolo di Dio non sono investite, anche quando fossero elette, del potere in forza del quale esercitano la loro diaconia, dal basso, ma dall’alto, attraverso il Sacramento e la missione. Al livello della Chiesa universale solo il Papa o tutto il Collegio Episcopale possono parlare in nome della Chiesa, cioè rappresentare la Chiesa. Al livello della Chiesa particolare, solo il Vescovo rappresenta la Diocesi; infatti, è lui, e non uno dei Consigli Diocesani, a rappresentare la Diocesi in seno al Concilio Ecumenico, né i Consigli Diocesani senza il Vescovo, possono rappresentare i cattolici di una Diocesi.

In secondo luogo la fede non è rappresentabile da nessuno, perché la salvezza è un fatto eminentemente personale. Non ci si può far salvare da un altro,
come ci si può far rappresentare da un terzo nell’ambito economico o anche più strettamente personale, come nel matrimonio per procura. E’ per contro affermazione corretta il dire che il Vescovo rappresenta la fede dei membri della sua Chiesa particolare, per esempio al Concilio Ecumenico. Il concetto di rappresentanza assume però in questo contesto un significato diverso, originalmente ecclesiale. Rappresenta questa fede solo nella misura in cui la sua fede è ortodossa, e quella corrisponde alla sua. Non la rappresenta in forza di un mandato dei suoi diocesani, ma la testimonia in forza della sua partecipazione più piena all’ufficio profetico, sacerdotale e regale di Cristo, mediatore tra Dio e gli uomini. La traduzione più corretta del concetto di rappresentanza è perciò in sede ecclesiale quello di testimonianza. Solo la testimonianza del Vescovo in merito alla sua Diocesi ha valore vincolante ultimo, cioè giuridico, con valore appunto di voto “deliberativo”, in seno al Collegio Episcopale.

Tutto questo comporta delle conseguenze precise. I membri dei Consigli Diocesani non sono rappresentanti parlamentari, ma semplicemente persone scelte, magari per elezione, per consigliare ed aiutare il Vescovo, nel governo della Diocesi. Ciò non toglie che la loro scelta non possa avvenire con criteri “rappresentativi”, proprio perché il nesso del Vescovo con le parrocchie e gli altri gruppi comunitari deve essere stretto e funzionale. La loro funzione perciò non è quella di rappresentare democraticamente la fede degli altri, e la loro prima diaconia è quella di realizzare l’esperienza di fede comune a tutto il popolo di Dio anche dentro l’ambito in cui devono svolgere il loro compito specifico [14].

Comunione come esperienza comune

La comunione è il principio formale della comunità cristiana, e di conseguenza anche di tutte le sue strutture e di tutti i suoi istituti giuridici. Il rapporto tra il Vescovo e i fedeli non può essere risolto ultimamente in termini di controllo di potere, ma solo in termini di esperienza di comunione. Le forme di controllo introdotte nel corso della storia per contenere gli abusi di potere da parte della gerarchia, raramente hanno generato un’autentica esperienza di comunione cristiana.

Applicato ai Vescovi il discorso di comunione implica un esercizio delle loro competenze entro un contesto di informazione e consultazione. La competenza consultiva dei Consigli Diocesani, introdotti dal Concilio Vaticano II, tende ad abbracciare tutti i settori della vita della Diocesi e della missione della Chiesa. Ciò non elimina la responsabilità eminentemente personale del Vescovo e il fatto che certi rapporti e problemi esigono, per loro natura, di essere trattati con la dovuta discrezione. Si tratta di saper leggere intelligentemente le situazioni e la natura delle cose. Il potere discrezionale del Vescovo è garanzia di comunione, perché esclude ogni forma di collettivismo meccanico.

La comunione tuttavia, se non vuole ridursi a un’espressione solo sentimentale e perciò facilmente eludibile, esige dai Vescovi di vivere in comunione con i propri fedeli, collaborando in tutti i settori della vita ecclesiale.

Per concludere

Vorrei offrirvi un bel pensiero di San Giovanni Damascèno, dottore della tradizione ecclesiastica, specialmente orientale. Egli ci invita ad essere protagonisti nella costruzione della Chiesa con ardente impegno e fedeltà: “Tu puoi, o nobile vertice di perfetta purità, o nobilissima assemblea della Chiesa, che attendi aiuto da Dio [e da tutti i tuoi membri!]; tu in cui abita Dio, accogli da noi la dottrina della fede immune da errore, e la dedizione delle opere; con esse si rafforzi la Chiesa, come ci fu trasmesso dai Padri”[15].

Fonti:

Documenti del Concilio Vaticano II, soprattutto cost. dogm. Lumen gentium, e cost. past. Gaudium et spes.

Codex Iuris Canonici, LEV 1983.

Codex Canonum Ecclesiarum Orientalium, LEV 1995.

I discorsi del Papa alla Rota, Città del Vaticano, 1986.

– Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Sollicitudo Rei socialis, 30 dicembre 1987.

– Esortazione Apostolica di Giovanni Paolo II, Christifideles laici, 30 dicembre 1988.

– Lettera Enciclica di Giovanni Paolo II, Centesimus Annus, 1 maggio 1991.

Educare alla Legalità. Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 4 ottobre 1991.

Legalità, giustizia e moralità. Nota pastorale della Commissione Ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 20 dicembre 1993.

Stato sociale ed educazione alla socialità. Nota pastorale della Commissione ecclesiale Giustizia e Pace, Roma 1 maggio 1995.

– Arrieta Juan Ignacio, Il sistema dell’organizzazione ecclesiastica. Norme e documenti, Edizioni Università della Santa Croce, Roma 2006.

– Bertone Tarcisio, «Il rapporto giuridico tra Chiesa e Comunità politica» in Il diritto nel mistero della Chiesa, Quaderni di Apollinaris 10, Roma 1992, pp. 609-610.

Bibliografia:

– Coste R., Les communautés politiques, Paris 1967.

– Corecco E., Parlamento ecclesiale o diaconia sinodale? in “Communio”, 1 (1972), 32-44.

– Mattai G., Morale politica, Bologna 1975.

– Maritain J., L’homme et l’Etat, trad. it. L’uomo e lo Stato, Milano 1975.

– Ghirlanda G., Il diritto nella Chiesa mistero di comunione, Roma, 1990.

– Berlingò S., Giustizia e carità nell’economia della Chiesa, Torino, 1991.

– Ratzinger J., La Chiesa – Una comunità sempre in cammino, Torino 1992.

– Rivella M. (a cura), Partecipazione e corresponsabilità nella Chiesa, Milano 2000.

– Associazione Teologica Italiana, Chiesa e sinodalità. Coscienza, forme, processi, a cura di Riccardo Battocchio e Serena Nocetti, Glossa, Milano 2007.

[1] Cfr. GS 29.

[2] Cfr. GS 73.

[3] Cfr LG 8.

[4] L. STURZO, La società. Sua natura e leggi, Bergamo 1949, p. 97.

[5] Cfr. CIC, can. 204.

[6] Cfr. CIC, can. 208.

[7] Cfr. CIC, can. 129 § 2.

[8] Cfr. LG 22 e 23.

[9] Cfr. GS 24.

[10] Cfr. can. 356 §1 CIC 1917.

[11] In nome di una ripartizione delle competenze però, nessuno può essere escluso da una corresponsabilità effettiva e globale nella preparazione del giudizio di comunione dal quale deve nascere geneticamente l’intervento decisivo dell’Autorità. Il problema del potere all’interno del Popolo di Dio perciò non può essere, in ultima analisi, che quello della natura del rapporto a livello operativo-decisionale tra i Vescovi e gli altri cristiani e di conseguenza quello della modalità di partecipazione del clero e dei laici alla responsabilità che ultimamente spetta ai successori degli Apostoli, dell’annuncio cristiano nel mondo.

[12] Realizzando un modo nuovo di vivere i rapporti umani, affett
ivi, culturali, economici, sociali e politici, il fedele laico costruisce una nuova realtà di mondo senza correre il rischio di cadere in una situazione di dualismo. Come infatti il cristiano è chiamato a rispettare la logica interna della Parola e del Sacramento, così deve rispettare il valore e la logica interna delle realtà terrestri in obbedienza al loro statuto proprio.

[13] Discorso alla Plenaria del Pontificio Consiglio per i Laici, 15 novembre 2008.

[14] Una simile concezione esclude la possibilità di cercare nello stile parlamentare, sempre di più determinato dai partiti politici e perciò dalla lotta per il potere tra le forze della destra e della sinistra, la soluzione dei bisogni della comunità cristiana. La formazione anche nella Chiesa di fronti tendenti alla conservazione o al progresso, è un atto praticamente inevitabile a causa del nostro limite umano. Questi fronti sono sempre stati i limiti di tutti i Concili. Il fenomeno va accettato senza sottovalutarne l’aspetto positivo, cioè la possibilità che attraverso una pluralità di accenti si pervenga alla lettura più completa della complessità dei problemi, ma senza assolutizzare questa dialettica fino a definirla necessaria al progresso nella Chiesa, perché questo non può essere previsto e programmato, e perciò neppure schematizzato, secondo categorie che sono troppo ristrette e inadeguate a cogliere una realtà che nel suo farsi è mistero.

[15] Cfr. San Giovanni Damasceno, Dichiarazione di fede, Cap. I; PG 95, 419.

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ZENIT Staff

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