ROMA, domenica, 31 maggio 2009 (ZENIT.org).- La vicenda di Eluana Englaro e la discussione in Parlamento per una legge di fine vita suscitano ogni giorno nuove domande. Per la rubrica di Bioetica ne abbiamo raccolte un certo numero, chiedendo al professor Lucio Romano di rispondere.
Il prof. Romano è dirigente ginecologo nel Dipartimento di Scienze Ostetrico Ginecologiche, Urologiche e Medicina della Riproduzione dell’Università di Napoli “Federico II” e docente di Ostetricia al Corso di Laurea Specialistica in Scienze Ostetriche. E’ inoltre docente di Bioetica ai corsi di laurea dell’Università Cattolica del Sacro Cuore presso l’A.O. S. Carlo di Potenza e alla Facoltà di Bioetica e al Master in Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum di Roma. E’ vicepresidente del Movimento per la Vita Italiano e componente del Consiglio Esecutivo nazionale dell’Associazione “Scienza & Vita”. Fa parte del Comitato Scientifico della rivista “I Quaderni di Scienza & Vita” ed è autore, insieme a Maria Luisa Di Pietro, Maurizio P. Faggioni e Marina Casini, del volume “Dall’aborto chimico alla contraccezione d’emergenza” (Edizioni ART, Roma 2008).
La prima parte dell’articolo è stata pubblicata il 24 maggio. La terza parte verrà pubblicata domenica prossima, 7 giugno.
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Che cosa si intende per atti terapeutici e che cosa per atti di cura?
Atti terapeutici sul corpo sono “le azioni propriamente mediche o chirurgiche, il cui oggetto è il contrasto o il contenimento di una patologia, esordiente oppure decorrente, ed il cui scopo è la risoluzione, il miglioramento o la stabilizzazione del quadro clinico”. Atti di cura del corpo sono “le azioni che, a seconda delle condizioni dell’organismo del paziente, possono coincidere con gli atti consueti della esistenza quotidiana, eseguiti dal paziente stesso o dai suoi familiari, oppure richiedere l’intervento di personale sanitario qualificato, il cui oggetto è comunque il mantenimento dell’omeostasi entro parametri fisiologici compatibili con la vita attraverso la disponibilità di aria, acqua, elettroliti e nutrienti organici per i processi metabolici essenziali, ed il cui scopo è consentire la sopravvivenza del soggetto”.Quali conseguenze, sotto il profilo clinico ed etico, al rifiuto di un atto terapeutico o di un atto di cura?
Per dirla con Roberto Colombo, “il rifiuto ad iniziare o continuare un atto terapeutico può comportare, indirettamente, un’abbreviazione della vita. Invece il rifiuto di un atto di cura, ovvero la sospensione di un sostegno vitale, comporta direttamente ed inevitabilmente la rinuncia alla vita”.
Che cosa si intende per “cura”?
Premesse le considerazioni in merito agli atti terapeutici e agli atti di cura, preferisco descrivere il “prisma di cura”: a. guarire dalla malattia, ove possibile e secondo il principio di proporzionalità senza ricorrere a interventi definibili sproporzionati e futili, e b. prendersi cura del malato come “altro” e come “oltre”. La terapia è un’arte tecnica, il prendersi cura è un’arte morale che appartiene al medico sempre e anche quando nulla c’è più da fare. La terapia sproporzionata e futile non ha fondazione clinica né etica. Il prendersi cura è il fondamento della costitutiva relazionalità tra esseri umani, pertanto non può essere mai sospeso.
E’ stato richiamato il principio di proporzionalità. E’ possibile così definire ciò che è giusto fare o meno?
La proporzionalità terapeutica è principio di giustificazione etica e giuridica dell’atto medico. E’ definibile proporzionato l’atto medico i cui benefici attesi sono superiori, o almeno uguali, ai rischi previsti. Viceversa c’è sproporzione e l’atto medico non è giustificato. La proporzionalità terapeutica costituisce, nella sua dimensione oggettiva, criterio prioritario persino a quello della volontà espressa dal paziente. Di conseguenza la terapia è doverosa quando esiste un’ampia proporzionalità tra i benefici attesi (elevati, certi) e i rischi previsti; non è doverosa se esiste una sproporzione tra i benefici attesi e i rischi previsti (elevati, certi). Il trattamento è opzionale se esiste ancora una certa proporzionalità tra i benefici e i rischi, ma molto ristretta, cosicché spetta solo al paziente decidere se effettuare il trattamento oppure rinunciarvi, soluzioni in questo caso entrambe eticamente lecite.
Un atto terapeutico sproporzionato è accanimento?
E’ accanimento un atto sproporzionato e futile. Ma necessitano alcune precisazioni. I parametri dell’accanimento terapeutico sono la valutazione in scienza e coscienza del medico e la percezione del paziente. Pertanto la definizione dell’accanimento è sempre conseguenza di una relazione medico-paziente che, se basata sull’alleanza terapeutica della beneficialità nella fiducia, consente corretta applicazione della terapia, il suo mantenimento o sospensione. Ma procediamo alla esplicitazione di ulteriori termini e classificazioni spesso richiamate nel dibattito bioetico in oggetto: a) cure ordinarie e straordinarie; b) insistenza terapeutica e c) ostinazione terapeutica. A) Sono da ritenersi ordinarie le cure in cui si dà rapporto di debita proporzione tra i mezzi impiegati e il fine perseguito. Dove non si dà proporzione le cure sono da considerare straordinarie. B) Per insistenza terapeutica si intende il comportamento rivolto alla ricerca delle tecniche diagnostiche e terapeutiche più appropriate, ricorrendo anche a terapie innovative, in presenza di ragionevoli possibilità di evoluzione positiva del quadro clinico e di miglioramento della qualità di vita. C) Per ostinazione terapeutica si intende l’atteggiamento rivolto ad inseguire ogni minima possibilità terapeutica anche a costo di gravare il paziente di oneri eccessivi a fronte della scarsità di benefici conseguibili. L’ostinazione terapeutica sfocia spesso, anche se inconsapevolmente, nell’accanimento terapeutico.
In conclusione, quali caratteri definiscono l’accanimento terapeutico?
Il persistere in terapie futili, sproporzionate, inutilmente invasive ed incapaci di arrecare alcun reale beneficio, fermo restando che ogni trattamento va valutato bilanciandone i potenziali apporti positivi (beneficialità) o negativi (neminem laedere). Comunque anche in merito all’accanimento terapeutico si cerca di riformularne il concetto. Infatti la desistenza da un supposto accanimento terapeutico è giustificabile dalla espressione di una volontà pregressa, anche se semplicemente riferita.
In contrapposizione all’accanimento terapeutico?
Certamente l’umanizzazione e la dignità del morire. Specifichiamo: dignità del morire e accompagnamento al morire non significano indurre la morte, piuttosto cure normali ovvero di sostegno vitale, terapia del dolore, cure palliative.
Con l’accanimento terapeutico, e non solo, si introduce il tema della pervasività della tecnica.
Affrontare il tema della tecnica e la sua relazione con l’etica richiederebbe una trattazione a parte. Possiamo dire che la tecnica svolge un ruolo sempre più preminente nella “relazione di cura” fino a negare la relazione medico-paziente.
Inoltre le conseguenze della pervasività tecnica si riverberano non solo a livello assistenziale, sociale e culturale. Si assiste ad un vero disorientamento circa valori consolidati quali la tutela della vita umana, il limite degli interventi medici, il rispetto della dignità di ogni persona. Dignità, però da intendere come valore intrinseco di ogni essere umano oltre qualsiasi stato di salute o di malattia. La tendenza postmoderna, invece, è quella di anteporre il concetto e la definizione di “vita di qualità”, interpretata soggettivamente o supportata da un volere sociale, a quello di dignità. In altri termini, secondo la seguente locuzione: in quanto di scarsa qualità (es.: stato di malattia, grave disabilità, ecc.) que
lla vita non è degna di essere vissuta. Nello specifico della domanda, il fare tecnico richiede sempre un confronto con l’agire etico, evidentemente orientato a valori corrispondenti alla dignità propria di ogni essere umano. Senza procedure che rappresentino eutanasia né accanimento.
Eluana Englaro aveva espresso in maniera certa le sue volontà anticipate?
Il tentativo è quello di sottomettere anche le forme di sostegno vitale alla volontà individuale, pure in mancanza di certezza e attualità. Eluana non aveva mai rilasciato, in forma certa, volontà in merito. E’ opportuno ricordare che il consenso è valido se personale, consapevole, attuale, manifesto, libero e completo. Tuttavia, anche in presenza di volontà certa e attuale non può inquadrarsi nelle DAT la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione: forme elementari, essenziali e imprescindibili per un dignitoso morire. Bene pertanto, per le ragioni suddette, che il DdL escluda alimentazione e idratazione dalle DAT.
Le DAT obbligano il medico?
Le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento non obbligano il medico. La stessa Convenzione di Oviedo sui Diritti Umani e la Biomedicina, all’art. 9 richiama quanto segue: “I desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione”. Infatti l’art. 9 della Convenzione adotta le espressioni souhaits e wishes, che corrispondono al concetto di cosa desiderata, non di cosa imposta a terzi. Ancora, il Rapporto Esplicativo (punto 62) sull’art. 9 della Convenzione di Oviedo specifica: “Questo articolo afferma che quando le persone hanno previamente espresso i loro desideri, tali desideri dovranno essere tenuti in considerazione. Tuttavia, tenere in considerazione i desideri precedentemente espressi non significa che essi debbano necessariamente essere eseguiti. Per esempio, se i desideri sono stati espressi molto tempo prima dell’intervento e la scienza ha da allora fatto progressi, potrebbero esserci le basi per non tener in conto l’opinione del paziente. Il medico dovrebbe quindi, per quanto possibile, essere soddisfatto che i desideri del paziente si applicano alla situazione presente e sono ancora validi, prendendo in considerazione particolarmente il progresso tecnico in medicina”.
Comunque, come richiamato dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel parere “Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico” del 24.10.2008, si configura un diritto di astensione del medico: “Qualora per accogliere la competente e documentata richiesta di interruzione delle cure formulate da un paziente in stato di dipendenza siano necessari un’azione o comunque un intervento positivo da parte del medico e della sua équipe (ad esempio lo spegnimento di un macchinario che garantisca la sopravvivenza del malato), si riconosce il diritto di questi di astenersi da simili condotte da loro avvertite come contrarie alle proprie concezioni etiche, deontologiche e professionali”.
Quali dovrebbero essere le caratteristiche contenutistiche delle DAT?
Sono state indicate dal Comitato Nazionale per la Bioetica nel documento del 18.12.2003 (Dichiarazioni Anticipate di Trattamento): “A. Abbiano carattere pubblico, siano cioè fornite di data, redatte in forma scritta e mai orale, da soggetti maggiorenni, capaci di intendere e di volere, informati, autonomi e non sottoposti ad alcuna pressione familiare, sociale, ambientale; B. non contengano disposizioni aventi finalità eutanasiche, che contraddicano il diritto positivo, le regole di pratica medica, la deontologia. Comunque il medico non può essere costretto a fare nulla che vada contro la sua scienza e la sua coscienza; C. ai fini di una loro adeguata redazione, in conformità a quanto indicato nel punto B, si auspica che esse siano compilate con l’assistenza di un medico, che può controfirmarle; D. siano tali da garantire la massima personalizzazione della volontà del futuro paziente, non consistano nella mera sottoscrizione di moduli o di stampati, siano redatte in maniera non generica, in modo tale da non lasciare equivoci sul loro contenuto e da chiarire quanto più è possibile le situazioni cliniche in relazione alle quali esse debbano poi essere prese in considerazione”.
Quale comportamento, pertanto, da parte del medico?
Il medico prende in considerazione le volontà del paziente, ma deve assumere le sue decisioni in piena scienza e coscienza nell’interesse dello stesso paziente e sempre al fine della tutela della salute e della vita umana secondo precauzione, proporzionalità e prudenza. Evidentemente non può effettuare o favorire trattamenti che provochino la morte, anche se richiesti dal paziente. Infatti l’art. 17 del Codice di Deontologia Medica afferma: “Il medico, anche su richiesta del malato, non deve effettuare né favorire trattamenti finalizzati a provocarne la morte “.