Bust of Aristotle. Marble

WIKIMEDIA COMMONS / Ludovisi Collection

La metafisica aristotelico-tomista (Prima parte)

Il principio di non contraddizione

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Aristotele e San Tommaso d’Aquino intendono la metafisica nello stesso modo: essa è “la scienza dell’ente in quanto ente e di tutto ciò che le appartiene”.

Ente significa “ciò che è”, quindi ogni cosa è ente: un uomo, un animale, un sasso ecc.

Appartiene all’ente una legge fondamentale, che è il principio assoluto della sua intellegibilità: il principio di non contraddizione.

Il primo a formularlo è stato Parmenide, considerato il padre della metafisica, avendo inaugurato, nella storia della filosofia, la riflessione sull’essere in quanto tale.

Il filosofo, con una prosa poetica, narra che una dea gli rivela la “Verità armoniosa” e formula con queste lapidarie parole il principio di non contraddizione: “l’essere è, come non è il non essere”.

Parmenide da questo principio deduce tutti gli attributi dell’essere, infatti se l’essere esclude assolutamente il non-essere, allora esso è uno perché il molteplice implica il non-essere (es.: la penna non-è il libro), quindi in esso non sono presenti distinzioni: “né pure è distinto perché tutto quanto esso è uguale”. Inoltre, l’essere è immutabile perché il divenire comporta il non-essere (es.: un uomo che nasce e poi muore, prima non-era, poi è e dopo non-è più).

L’essere, essendo immutabile, “immobile stretto in ineluttabili ceppi”, è sempre identico a se stesso, quindi eterno, “senza principio né fine”.

L’essere parmenideo presenta caratteri evidentemente divini: è uno, immutabile e eterno.

Nicoletti scrive giustamente in proposito:

“Per Parmenide, l’essere in quanto essere esclude ogni negatività sia assoluta che relativa; ne consegue una determinazione della verità dell’essere in modo essenzialmente teologico, se è vero che, per una larga e autorevole tradizione, Dio è pensato come l’essere necessario, immutabile, eterno.

Questa interpretazione ontologica dello sfondo si riversa sulle cose che appaiono e non consente di salvare i fenomeni, sui quali viene a cadere l’ipoteca dell’illusorietà e della parvenza”.

L’affermazione di Parmenide secondo cui “né in vero può dirsi o pensarsi che quanto non è sia”, analizzata criticamente, riguarda il concetto di non-essere assoluto o nulla, ma non quello di non-essere relativo.

Il nulla è nulla nell’ambito della realtà, del pensiero, del linguaggio.

Ogni realtà è qualcosa che è, quindi è un non-nulla.

Ogni pensiero è qualcosa di pensato; anche il concetto di nulla (non essere assoluto) è qualcosa.

Ogni parola è qualcosa di detto; anche la parola nulla è qualcosa.

Il concetto di nulla è un “ente di ragione” e non deve essere confuso con quello di non-essere relativo, che riguarda la negatività che è presente nella realtà del mondo, che è intrinsecamente molteplice e diveniente.

Tutta la filosofia greca successiva a Parmenide ha dovuto confrontarsi con la sua sentenza “l’essere è, il non-essere non è”, perché i fenomeni del mondo manifestano essere e non-essere ed è necessario “salvare i fenomeni” dall’illusorietà, come sosteneva Aristotele.

La soluzione dell’apparente contraddittorietà del molteplice e del divenire è fornita dalla speculazione di Platone e Aristotele.

Platone nel dialogo Sofista esprime il suo pensiero tramite un personaggio, chiamato Straniero di Elea, discepolo critico di Parmenide e figura chiave dell’intero dialogo.

Afferma lo Straniero:

“Risulta […] di necessità che ci sia un essere del non essere così per il moto, come per tutti i generi; giacché per tutti la natura del diverso , rendendo ciascuno d’essi diverso dall’essere, lo fa non essere. Così tutte insieme le cose sotto questo rispetto le diremo correttamente non essere; e viceversa poi, perché partecipano dell’essere, le diremo essere e enti”.

Ogni ente è diverso da ogni altro ente, cioè non è un altro ente. Non c’è alcun contraddizione nell’affermare che un fiore non è un limone, perché significa affermare la diversità tra l’uno e l’altro.

Il fiore non è il limone e il limone non è il fiore. Il non essere limone e il non essere fiore equivale non al nulla, ma all’essere diverso. E’ la stessa cosa dire: il fiore è diverso dal limone o il fiore non è il limone.

Platone, pur riconoscendo a Parmenide il ruolo di padre della metafisica, si rende conto di aver commesso un “parricidio” filosofico, avendo messo in discussione la sua formulazione del principio di non contraddizione.

Nel Sofista Platone si identifica con lo Straniero che dialoga con un altro personaggio, Teeteto:

“Straniero. Che tu non creda che io divenga quasi un parricida.

Teeteto. E perché?

Straniero. «Perché» per difenderci sarà necessario sottoporre ad esame la sentenza di Parmenide, nostro padre, e costringere il non essere ad essere in qualche modo, e viceversa l’essere, a sua volta, a non essere sotto un certo riguardo”.

Platone ha “salvato” la molteplicità dei fenomeni, ma non il loro divenire. Questo salvataggio è opera del suo discepolo, Aristotele.

Apparentemente nel divenire gli enti oscillano tra l’essere e il nulla, vengono dal nulla e vi ritornano.

Aristotele, come Platone, e in continuità con Parmenide, sostiene che il nulla non è simpliciter, e quindi è necessario spiegare come il divenire sia possibile.

Nel divenire si assiste sempre al passaggio da un ente a un altro ente (es.: un essere umano che muore e diventa cadavere) o da un modo di essere ad un altro modo di essere (es.: l’acqua fredda che a contatto con il fuoco diventa calda), e mai si constata il nulla.

Ogni cambiamento presuppone sempre qualcosa che cambi (es.: un bambino che cresce), non esiste il divenire puro senza qualcosa che diviene, ma il problema è: come è possibile questo cambiamento?

Aristotele risolve speculativamente questo problema, affermando la realtà di un modo di essere denominato “potenza”.

Esistono quindi enti in atto, cioè attualmente presenti, e enti in potenza, che, in quanto tali, sono poter essere.

Ente in potenza non equivale quindi a nulla, ma neanche all’ente in senso pieno, che è l’ente in atto. E’ un quid intermedio tra i due.

In se stesso l’ente in potenza è inconcepibile perché è una pura possibilità o capacità di essere e quando penso sempre qualcosa in atto.

Gli enti divengono perché non sono totalmente in atto altrimenti non potrebbero divenire, si deve allora affermare che negli enti del mondo è presente un modo di essere in potenza e un modo di essere in atto. Il divenire è spiegabile come il passaggio degli enti dal modo di essere in potenza al modo di essere in atto (es.: il legno in potenza cenere, che, a contatto del fuoco, diventa cenere in atto).Vedremo in seguito quali sono le cause di questo passaggio.

Aristotele affermava che la potenza è “principio di mutamento” e criticava i Megarici perché sostenevano, ispirandosi al pensiero di Parmenide, che l’ente è sempre in atto e quindi non esiste l’essere in potenza.

Scrive infatti:

“Ci sono alcuni pensatori, come ad esempio i Megarici, i quali sostengono che c’è la potenza solamente quando c’è l’atto, e che quando non c’è l’atto non
c’è neppure la potenza
. Per esempio colui che non sta costruendo – secondo costoro – non ha la potenza di costruire, ma solo colui che costruisce e nel momento in cui costruisce; e cosi dicasi per tutti gli altri casi. Le assurdità che derivano da queste asserzioni sono facilmente comprensibili. Infatti, è chiaro che uno non potrebbe essere costruttore se non nell’atto di costruire, mentre, in realtà, l’essere costruttore consiste nell’aver la capacità di costruire”.

Questo articolo è l’ultimo di una serie, interrotta l’11 aprile (cfr. La metafisica dell’essere. Per quelli che il Creatore non esiste).

La seconda parte sarà pubblicata sabato 3 ottobre.

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Maurizio Moscone

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