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Il ponte di Francesco

I tre profili della missione a Cuba e negli Stati Uniti

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Sono almeno tre i profili che rendono particolarmente rilevante il viaggio apostolico di Papa Francesco a Cuba e negli Stati Uniti, che inizia oggi: il primo è quello che potrebbe definirsi geo-politico; il secondo è quello storico – culturale; il terzo quello propriamente pastorale. Il profilo geo-politico risulta evidente dal collegamento fra le due Nazioni che saranno visitate: il loro rapporto è stato per anni il simbolo della divisione del mondo in blocchi contrapposti. L’avvicinamento degli ultimi tempi è stato frutto diretto della mediazione del Papa venuto dall’America Latina, per questo pubblicamente ringraziato da Obama e Raul Castro: da autentico “pontefice” Francesco ha saputo lanciare ponti di distensione e di dialogo, tessendo con discrezione e con la sola forza della sua autorità morale la tela del disgelo e dell’incontro. Certo, non tutto è risolto fra i due Paesi, a cominciare dalle resistenze – soprattutto da parte americana – a far cadere gli ostacoli sul piano dei rapporti commerciali ed economici, e non è escluso che il viaggio del Vescovo di Roma potrà contribuire a compiere nuovi, coraggiosi passi di avvicinamento. Il valore simbolico dell’azione mediatrice del Papa va però oltre la relazione fra i due vicini, per decenni così lontani: venuto dal Sud del mondo, da quell’America Latina che da sempre ha un rapporto complesso col gigante del Nord e lo ha vissuto e lo vive fra dipendenza economica, sfruttamento, tensioni, invadenze nord-americane a sostegno dei peggiori regimi dittatoriali e resistenze spesso fiere e rivoluzionarie alla pesante influenza dei “gringos” (termine che per alcuni verrebbe dal grido “greens go home”, “verdi andate a casa”, dove i verdi sarebbero i militari USA), Francesco porta nel cuore del potere statunitense la voce dell’intero continente latino-americano. È certamente una voce libera e profetica, che sa e può parlare in nome soprattutto dei poveri e degli sfruttati del Sud del mondo: proprio per questo, però, è una voce autorevole, che non potrà non avere risonanza mondiale. Il modo in cui Francesco verrà accolto e soprattutto la profondità con cui la sua voce sarà ascoltata saranno segnali importantissimi degli orientamenti della potenza americana nei confronti dei Paesi ispanici del sub-continente per i prossimi anni.

Dal punto di vista storico – culturale la coniugazione delle due mete del viaggio apostolico avvicina due mondi da secoli ormai in un contatto, che spesso è stato vissuto come distanza o spazio di dominio del più forte: la cultura ispanica dell’America Meridionale e quella anglofona del Nord americano. Si tratta certo di due mondi linguistici entrambi di straordinaria ricchezza e rilevanza per l’intero “villaggio globale”: il rapporto fra di essi è stato tuttavia molto spesso gestito dalla cultura nordamericana con atteggiamenti di superiorità o di sfruttamento. Oggi la relazione fra questi due mondi è resa ancor più rilevante dal fatto che oramai gran parte della popolazione degli Stati Uniti è di lingua spagnola: i “latinos” superano numericamente in molte aree gli anglofoni, e con buona pace di quello che viene detto lo “spanglish” (lo slam nato dalle innumerevoli contaminazioni linguistiche fra i due idiomi nel parlato vivo) sembra inarrestabile la crescita della lingua di Cervantes a scapito di quella di Shakespeare. Questi processi culturali e linguistici non si producono senza grandi conseguenze sociali e politiche, culturali e di costume: per fermarci al solo aspetto religioso, si pensi al prevalere del cattolicesimo in molti spazi vitali dominati precedentemente dal protestantesimo dei “padri fondatori”, o – più in generale in ambito sociale – all’estendersi del calore relazionale latino rispetto al “rugged individualism” di molta parte della cultura anglo-sassone. Francesco viene a porsi come ponte fra questi mondi, a incoraggiarne l’incontro, a favorirne la necessaria integrazione, sfidando irrigidimenti e chiusure fuori del tempo e tuttavia diffusi in non pochi ambienti, non solo conservatori.

Infine, c’è l’aspetto propriamente pastorale della visita del Papa: egli stesso ha voluto definire il suo ruolo in questo viaggio come quello di un “missionario di misericordia”. L’espressione mi sembra vada intesa in tre sensi: anzitutto, essa si riferisce al contenuto centrale del Vangelo che Francesco vuole annunziare a tutti, la buona novella dell’amore misericordioso e accogliente del Dio di Gesù Cristo. Il tema è così centrale e caro al cuore del Papa che egli ha voluto indire un “giubileo della misericordia” per l’anno che intercorre fra il dicembre 2015 e il dicembre 2016, affinché si aprano per quanti più cuori sarà possibile le porte della divina misericordia. L’espressione usata da Francesco per definire la sua missione a Cuba e negli Stati Uniti mi sembra abbia poi una valenza fortemente sociale: se l’isola caraibica è ancora largamente segnata dal bisogno, e chiede uno sviluppo tanto urgente da aver indotto lo stesso regime socialista a modificarsi sempre più nel senso di un’economia di mercato che favorisca la creazione di posti di lavoro e la distribuzione della ricchezza a livelli più ampi e articolati, gli USA conoscono livelli impressionanti di emarginazione sociale e hanno un tasso ufficiale di povertà intorno al 14%, che secondo i dati raccolti dal Census Bureau equivale alla cifra di 46,2 milioni di cittadini costretti a vivere sotto la cosiddetta “soglia di povertà”. Annunciare in questi contesti la misericordia vuol dire inevitabilmente chiedere maggiore giustizia soprattutto per le fasce più deboli e trascurate della popolazione. Infine, rivolgendosi a culture segnate da un alto tasso di violenza – a Cuba sotto la forma dei sistemi dittatoriali di controllo, negli Usa come forma diffusa di conflitto non di rado armato fra singoli e gruppi – l’appello alla misericordia lanciato da Francesco non potrà non avere i toni dell’invito pressante alla mitezza e alla riconciliazione, all’incontro e al dialogo come sole forme della risoluzione dei conflitti. Per tutte queste ragioni il viaggio apostolico del Papa a Cuba e negli Stati Uniti si presenta come una promessa e una sfida. Accompagnarlo con l’attenzione necessaria è urgenza per tutti, sostenerlo con la preghiera è dovere dei credenti.

Il testo è stato pubblicato su “Il Sole 24 Ore” di domenica 20 settembre 2015, pp. 1 e 21

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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