Ha accontentato il pubblico portoghese ma non poteva trascurare i ‘suoi’ argentini. Quindi, quasi di pari passo al colloquio con Aura Miguel di Radio Renascença, Papa Francesco ha rilasciato un’intervista all’emittente indipendente di Buenos Aires, FM Milenium 106.7, per il programma in onda ogni domenica pomeriggio Diálogos para el encuentro. Dietro il microfono c’è questa volta Marcelo Figueroa, giornalista evangelico protestante, amico del Pontefice da circa 15 anni, da quando, cioè, lui era il direttore delle Società Bibliche Argentine.
Proprio di amicizia parlano i due interlocutori, ma anche di dialogo, sociale e interreligioso, di cultura dell’incontro e di cura del creato. A partire da una consapevolezza comune, che il Papa ci tiene subito a sottolineare: “Tu evangelico, io cattolico, lavoriamo insieme per Gesù”.
“Non ho mai avuto tanti ‘amici’ come adesso. Tutti sono amici del Papa”, spiega il Santo Padre, con un velo d’ironia. Mentre con grande onestà e libertà confessa di essersi sentito “usato da persone che si sono presentate come amiche e che io forse non avevo visto più di una o due volte in vita mia. Hanno usato questo per il loro vantaggio”. “A me, questo fa male”, ammette, dal momento che per lui l’amicizia è “qualcosa di molto sacro”. Come dice la Bibbia: “‘Abbi uno o due amici’. Prima di considerare amico qualcuno, lascia che il tempo lo metta alla prova, per vedere come reagisce davanti a te”. Perché “un amico non è un conoscente”, uno “con il quale si trascorre un momento piacevole di conversazione”.
L’amicizia è “più profonda”, afferma Bergoglio, “è accompagnare la vita dell’altro da un presupposto tacito. In genere, le vere amicizie non devono essere esplicitate, succedono, e poi è come se si coltivassero. Al punto di far entrare l’altra persona nella mia vita come sollecitudine, come buon auspicio, come salutare curiosità di sapere com’è lui, la sua famiglia, i suoi figli”. La prova del nove per distinguere una vera da una falsa amicizia è “che con un amico, che magari non vedi da molto tempo, senti come se fosse stato ieri l’ultimo incontro. Questa è una caratteristica molto umana dell’amicizia”.
Dio stesso, ricorda poi Francesco, ha verso il Suo popolo un atteggiamento “di affetto paterno, ma anche di amicizia”. E Gesù nell’Ultima Cena dice ai discepoli: “Non vi chiamo servi, ma amici”. “Ciò – evidenzia Bergoglio – significa oggi lasciarsi chiamare amico da Lui, perché dinanzi alla parola di Gesù, che ti chiama amico, o non capisci, o apri il tuo cuore a quel dialogo di amicizia”.
Un dialogo che il Pontefice invoca come ponte tra le diverse confessioni religiose, in un momento in cui invece sembra prevalere una “cultura dell’inimicizia” che va, in larga scala, “dalle chiacchiere di quartiere, o al lavoro” fino a gesti di feroce estremismo. “Noi uomini, per il nostro peccato, per la nostra debolezza, fomentiamo la cultura dell’inimicizia”, dice il Papa. “Uno degrada, calunnia o diffama l’altro con molta libertà, come se fosse la cosa più naturale al mondo, anche se non fosse vero, soltanto per avere un posto più potente o qualcos’altro”.
Davanti a questo ostacolo bisogna contrapporre allora una “amicizia sociale”, o meglio quella “cultura dell’incontro” che Francesco non smette di predicare sin dall’inizio del suo pontificato. Una cultura orientata, cioè, alla “fratellanza”, avulsa da qualsiasi giudizio o pregiudizio. Ad alcune persone “piace molto”, infatti, ergersi a giudici per marcare le distanze, ma “giudice è soltanto Dio”.
Il Papa punta quindi il dito contro la recente ondata di estremismo e fanatismo religioso, portata avanti da un “gruppetto di fondamentalisti” presente in ogni confessione, il cui “lavoro” è “distruggere per un’idea, non per la realtà”. Questi, “allontanano Dio dalla compagnia del suo popolo” e lo trasformano in un’ideologia o, ancora peggio, “in un idolo”, in nome del quale “uccidono, attaccano, distruggono, calunniano”. Tutto ciò il Pontefice lo raffigura in una “oscurità trasversale che ci toglie l’orizzonte, ci fa chiudere nelle nostre convinzioni e, tra virgolette, ideologie”. “È un muro e, quindi, non c’è incontro”, dice. E ribadisce ancora una volta l’importanza del dialogo e dell’incontro.
A tal proposito, il giornalista, ricordando i gesti affettuosi verso i fedeli, domanda al Papa cosa provi nell’abbracciare o accarezzare il suo popolo. “Sento il bisogno di avvicinarmi, della prossimità”, risponde Francesco, “quando abbraccio la gente, è Gesù che abbraccia me! Ricevo una vita contenta, allegra, una testimonianza…”. “Non sono soltanto io quello che dà – soggiunge – ma anche quello che riceve. Io ho bisogno dei fedeli, i fedeli mi fanno un dono, mi donano la loro vita”.
Una sensazione che ogni pastore dovrebbe provare, perché – ammonisce il Santo Padre – “quando un prete si isola, nella sua postura ieratica o nella sua postura legalista, o nella sua postura da principe – quando dico prete, dico vescovo, Papa…. – quando si allontana, incarna in certa maniera quei personaggi ai quali Gesù dedica tutto il capitolo 23 del Vangelo di Matteo. Quei legalisti, farisei, sadducei, dottori della legge che si sentivano dei puri”. Il prete dev’essere invece “un ponte”, cioè “costruire ponti e non isolarsi”, e anche un buon “pescatore”. Cosa che Bergoglio prova a fare, nonostante – ammette – “so di essere un peccatore e, quindi parlo con Gesù, e gli dico: ‘Quanto è buona la gente nei miei confronti’. Ma quel che di buono c’è in me, lo devo a Lui. È un dono di Dio”.
Figueroa stuzzica allora il Pontefice e gli ricorda che “tanti, anche atei, dicono: ‘Io non sono cattolico, ma questo Papa mi è simpatico’”. È un modo, questo, per compiere una missione anche al di fuori dei confini della Chiesa? Francesco risponde secco: “Un pastore, a qualsiasi confessione appartenga, non ha confini. È pastore e basta. E uno deve lottare contro i propri egoismi – che ho anch’io – affinché non cancellino ciò che Gesù ti chiede come pastore, cioè, stare in mezzo al Suo popolo”. Alla domanda se si senta di esempio per gli altri leader religiosi, il Vescovo di Roma replica invece: “Non si tratta di esempio, è la mia identità. Mi sento prete, mi viene spontaneo. Altrimenti, sarei un impiegato della Chiesa”.
Sicuramente, rimarca il giornalista, con l’Enciclica Laudato Si’, il Papa argentino è divenuto un punto di riferimento mondiale per la cura e la difesa del Creato. Tema di grande attualità, su cui l’intervistato non risparmia una vigorosa denuncia: “È evidente che maltrattiamo il creato. Non siamo amici del creato, a volte lo trattiamo come il peggior nemico”; “arriva un momento nel quale l’uomo si sente padrone, va oltre quello che vuol dire prendersi cura della terra e la tralascia. E così crea un’incultura, perché abusa della natura”.
Ecco perché è necessario prendere coscienza e contrastare il sistema dominante che oggi – afferma, citando il capitolo 2 dell’Enciclica – “ha decentrato l’uomo, mettendo al suo posto il denaro”, perché in fondo “c’è il guadagno, l’agnello e sempre d’oro, l’idolo è d’oro e si trova nel centro”. Lo stesso sistema ha portato alla “schiavitù dal lavoro e a non prendersi cura del creato, trascurando – in quel modo – anche il Re del creato”.