Il cuore per ascoltare i fatti

Lectio Divina sulle letture per la XXIII domenica del Tempo Ordinario (Anno B) — 6 settembre 2015

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Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture per la XXIII domenica del Tempo Ordinario (Anno B), 6 settembre 2015.

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Rito Romano
Is 35,4-7a; Sal 145; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37

Rito Ambrosiano
Is 29,13-21; Sal 84; Eb 12,18-25; Gv 3,25-36
II Domenica dopo il Martirio di San Giovanni il Precursore.

1) La guarigione di un cuore sordo e muto.

Il brano del Vangelo di oggi racconta di un sordomuto miracolato da Gesù. Non dimentichiamo, però, che il Messia non è venuto soltanto per guarire da malattie e difetti fisici. Lui è la Parola fatta carne che vuole guarire non solamente il popolo di Israele che – come spesso affermavano i Profeti – era un popolo duro d’orecchio rispetto alla parola di Dio e perciò anche incapace di dare una vera risposta. Cristo vuole guarire e parlare a tutta l’umanità e il fatto che questo miracolo del sordomuto avvenga nel territorio della Decapoli1 indica che Cristo è Parola per tutta l’umanità e che il non ascolto di Dio era (ed è) un peccato da cui l’umanità intera ha bisogno di essere salvata. Inoltre va tenuto presente che il racconto indica pure che la salvezza portata da Gesù non solo è per ogni uomo (universalità geografica) ma pure per tutto l’uomo, per l’uomo nella sua integralità (universalità antropologica).

Gesù di Nazareth è il Redentore di tutte le “parti” del mondo ed di ogni “parte” di cui siamo composti, anche di quella parte di noi stessi che è ancora pagana. E’ presente in quella Decapoli che tutti ancora abbiamo nel cuore.

E’ vero che Gesù opera al di fuori del popolo d’Israele, compie un gesto che è apertura del campo della rivelazione a tutta l’umanità. Ma è altrettanto vero che Lui si muove in una terra pagana e questo dice con chiarezza che Lui è presente dovunque ed è presente proprio anche là dove lo immaginiamo assente: è presente in tutte le “terre pagane”, in tutte le situazioni rovinate dal peccato.

Gesù di Nazareth, Redentore di ogni uomo e di tutto l’uomo, per salvare prega. Il Figlio di Dio prima di compiere questo miracolo sul sordomuto alza lo sguardo al cielo – lo stesso gesto che Lui aveva compiuto alla moltiplicazione dei pani e dei pesci (Mc 6,41): il Figlio di Dio prega. A volte, Gesù faceva dei miracoli con l’autorità della sua parola, potremmo dire a nome proprio. In questo modo dimostrava di non essere semplicemente un profeta di Dio, ma di essere Dio stesso. Altre volte invece, come nel caso del sordomuto, Gesù ricorre alla preghiera, per insegnarci che la salvezza è un puro dono della grazia di Dio: un dono da chiedere, non da pretendere.

In ogni caso, i miracoli di Cristo non sono mai fine a se stessi; sono “segni”, che annunciano e inaugurano il suo Regno di verità e di amore. Segni che contengono quello che il Signore Gesù vorrebbe operare in ogni suo fratello e sorella. Quello che Gesù operò un giorno per una persona sul piano fisico indica quello che egli vuole operare ogni giorno per ogni persona sul piano spirituale. Cristo tocca il corpo per guarire lo spirito. L’uomo guarito da Cristo era sordomuto; non poteva comunicare con gli altri, ascoltare la loro voce ed esprimere i propri sentimenti e bisogni. Se la sordità e il mutismo consistono nella incapacità di comunicare correttamente con il prossimo, di avere relazioni facili e chiare, buone e belle, allora dobbiamo riconoscere che, chi più chi meno, siamo tutti dei sordomuti ed è perciò a tutti che Gesù rivolge quel suo grido: “Effatà, àpriti”.

Da parte di ciascuno di noi non resta che lasciarci portare presso il Signore e chiedergli di aprirci le orecchie ogni giorno, perché possiamo accogliere la Sua Parola di vita, anche quando ci risulta scomoda, anche quando il rumore delle creature fuori di noi e quello delle passioni dentro di noi ci assordano e ci impediscono di sentire la Sua voce.

2) Il cuore guarito parla la lingua dell’amore.

La prima voce che questo miracolato ha potuto ascoltare è stata quella di Gesù. La prima parola donata a questo sordo è stata: “Effatà”, “Apriti”. E così poté udire la Parola di Dio e accoglierla perché l’apertura delle orecchie implica la dilatazione del cuore nella gioia non tanto semplicemente di essere chiamati, ma di essere realmente “figli”.

Quando nel Battesimo divenimmo figli nel Figlio, anche a noi fu detta la parola “Effatà”, cioè “apriti”, e così fummo aperti alla Parola di Dio, al dialogo con il nostro Dio e Padre.

L’ascolto del Figlio, Verbo di Dio, ci fa come Lui: figli. “Ciò fa l’amore, rende l’amante simile all’amato” (Sant’Alfonso Maria de’ Liguori, Pratica di amar Gesù Cristo).  Se perseveriamo in questo ascolto, possiamo parlare sempre con amore. Se ascoltiamo Cristo, saremo sempre più capaci di parlare come Cristo, di dire: Gesù. Se siamo aperti al dialogo con il Padre, restando aperti alla sua Parola, saremo sempre più capaci, per grazia, di udire le consolazioni, i suggerimenti e i comandi amorosi di Dio e di rispondergli con la preghiera e con la vita.

Il cuore guarito ascolta Dio per pregarlo e comunicare il suo amore all’umanità, e Gesù ci insegna che la nostra vita cristiana dipende dalla preghiera e dalla carità. Non è qui il caso di parlare del rapporto tra contemplazione e azione. Voglio solo ricordare che non ci si deve perdere nell’attivismo puro. Occorre che nella nostra attività ci si lasci penetrare dalla luce della Parola di Dio. In questo modo si impara la vera carità, il vero servizio per l’altro, che non ha bisogno di tante cose – ha bisogno certamente delle cose necessarie – ma ha bisogno soprattutto dell’affetto del nostro cuore, della luce di Dio. La Chiesa unisce sempre il ministero della verità, annunciando la Parola, al ministero della carità.

I Santi, tutti, hanno sperimentato una profonda unità di vita tra preghiera e azione, tra l’amore totale per Dio e l’amore generoso per i fratelli. Tutti i Santi ci mostrano che è possibile pregare ovunque, anche in un campo di concentramento, come ha fatto Santa Teresa Benedetta della Croce (Edith Stein) e fare del bene al prossimo come fece San Massimiliano Kolbe che si offrì per morire al posto di un altro: “Non c’è carità più grande di chi da la vita per gli amici”.

Un modo più normale, ma non meno vero, un modo –direi- di santità ordinaria per vivere questa unione tra preghiera e azione è quello delle Vergini consacrate che vivono nel mondo.

Per loro, come per tutte le persone consacrate, la vita di preghiera consiste nell’essere abitualmente e coscientemente alla presenza di Dio, nel vivere in relazione con Dio al quale si sono donate senza riserva.

La loro preghiera2 coincide con la loro vita e loro vita è la loro preghiera, vissuta come quotidiano sacrificio di lode. Se i “grandi” santi hanno mostrato che si può essere preghiera e casa di preghiera nel dramma di un campo di concentramento o di una grave malattia, le Vergini consacrate mostrano nella loro umiltà che si può essere preghiera e tempio di preghiera nella “banalità” del quotidiano. Nella loro vita=preghiera sono riconoscibili le cinque caratteristiche che la preghiera ben fatta deve avere: essere cioè sicura, retta, ordinata, devota e umile3. Sono le caratteristiche individuate da San Tommaso d’Aquino, che definiva la preghiera “espressione del desiderio che l’uomo ha di Dio”.

Con casto atteggiamento sponsale le Vergini consacrate sono in costante ascolto della Parola di Dio e parlano la Parola pura e casta di Dio. Questa Parola pura è Parola di Vita che parla anche dal di dentro della nostra vita di persone peccatrici, introduce in noi la vita e la custodisce in noi. Poi, attraverso noi, è detta al mondo intero. Se ascoltiamo questa Parola con cuore puro, essa passa attraverso tutto l’inquinamento del nostro linguaggio umano al nostro prossimo che così è raggiunto dalla Parola che trasmette la vita in pienezza.

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NOTE

1 Decapoli (dal greco: Δὲκα πὸλἰς, dieci città) era la denominazione usata per un territorio composto da un gruppo di dieci città situate presso la frontiera orientale dell’Impero Romano, fra le attuali Giordania, Siria e Israele. Non costituivano un corpo politico unitario, ma ai tempi della vita terrena di Cristo erano comunemente raggruppate sotto la denominazione di Decapoli per le loro affinità linguistiche, culturali e politiche. Erano tutti centri di cultura greca e romana, quindi pagani.

2 “E’ necessario tenere presente che la preghiera è un atteggiamento interiore, prima che una serie di pratiche e formule, un modo di essere di fronte a Dio prima che il compiere atti di culto o il pronunciare parole. La preghiera ha il suo centro e affonda le sue radici nel più profondo della persona”. (Benedetto XVI)

3 1. Sicura, perché hanno fatto esperienza di ciò che Dio dice nel Salmo 91,15: “Mi invocherà e gli darò risposta”.
2. Retta. Ogni preghiera deve essere retta. Già San Giovanni Damasceno insegnava che la preghiera è una “una richiesta a Dio di cose che sono un bene per noi”.
Ecco perché molte volte la preghiera non viene esaudita: perché vengono chieste cose che non sono un bene per noi, come dice S. Giacomo: “Chiedete e non ottenete perché chiedete male” (Gc 4,3). Se poi chiediamo al Signore le cose che lui stesso ci ha insegnato a chiedere, la nostra preghiera sarà rettissima. A questo riguardo S. Agostino diceva: “Se vogliamo pregare in modo retto e conveniente, qualunque sia la parola che usiamo, dobbiamo chiedere solo ciò che è contenuto nella Preghiera del Signore”.
3. Ordinata. La preghiera deve essere ordinata, così come ordinato dev’essere il desiderio. Infatti la preghiera è interprete del desiderio. Ebbene: il giusto ordine vuole che tanto nel desiderare come nel chiedere preferiamo i beni spirituali a quelli materiali e i beni del cielo a quelle della terra. Il Signore infatti ci ha ammonito: “Cercate innanzitutto il regno di Dio e la sua giustizia, e tutto il resto vi sarà dato in aggiunta” (Mt 6,33).
4. Devota. La preghiera deve essere anche devota, perché l’abbondanza della devozione rende il sacrificio dell’orazione accetto a Dio, secondo quanto dice il salmista: “Nel tuo nome alzerò le mie mani; mi sazierò come a lauto convito, e con voci di gioia ti loderà la mia bocca” (Sal 63,5-6). La devozione, poi, sgorga dalla carità, e cioè dall’amore di Dio e del prossimo.
5. Umile. La preghiera deve essere umile perché Dio “si volge alla preghiera dell’umile e non disprezza la sua supplica” (Sal 102,18). Vedi anche la parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,10 14) e la preghiera di Giuditta: “Tu sei il Dio degli umili, sei il soccorritore dei derelitti” (Gdt 9,11). 

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Archbishop Francesco Follo

Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l'UNESCO a Parigi.

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