Utero in affitto: anche il Nepal lo vieta agli stranieri

Il divieto sancito da una sentenza della Corte suprema. Sul tema dovrà esprimersi nelle prossime settimane anche il Governo

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Dopo la Thailandia, un altro Paese asiatico interviene per arginare la pratica dell’utero in affitto. Grazie a una sentenza della Corte suprema che ha decretato “il blocco dei servizi di procreazione” a favore di coppie straniere, si interrompono le rotte che dall’Occidente portavano numerose coppie, spesso omosessuali, ai piedi dell’Everest per rincorrere il “diritto” alla genitorialità.

La sentenza, in attesa di una risposta che il Governo dovrà dare ai giudici nelle prossime settimane, dovrebbe avere come effetto immediato il blocco dei permessi di espatrio dei bambini già nati o di prossima nascita. Aveva suscitato le attenzioni della stampa internazionale, nell’aprile scorso, la scelta dello Stato di Israele di evacuare i piccoli nati da madri surrogate nepalesi e dal seme di uomini israeliani omosessuali o single. La decisione era seguita al terribile terremoto che il 25 aprile ha colpito il Nepal uccidendo migliaia di persone.

Israele aveva messo a disposizione propri velivoli militari con il compito di portare entro i confini nazionali non solo i cittadini israeliani e i neonati ottenuti con il metodo artificiale, ma anche, grazie a un permesso speciale concesso dal ministero degli Esteri, quattro madri surrogate che ancora dovevano partorire. Meno fortunate di queste quattro gestanti le donne che avevano appena partorito su commissione, abbandonate alle brutali scosse che hanno messo in ginocchio il Nepal.

Per via dei costi più bassi rispetto alle nazioni occidentali che consentono questa pratica, il Paese del cuore d’Asia fino ad oggi ha rappresentato una meta privilegiata per le coppie dello stesso sesso israeliane desiderose di avere un figlio con l’utero in affitto, che attualmente è legale in Israele soltanto per gli eterosessuali.

Ne dà prova l’esistenza di diverse agenzie specializzate nel settore. Come la Tammuz surrogacy international di Tel Aviv, la quale si ostina a negare che vi sia dietro un fenomeno di sfruttamento della povertà. Doron Mamet, proprietario dell’agenzia, ha detto al portale ebraico-americano Forward che queste accuse “demagogiche” sono messe in piedi da persone che “stanno cercando con ogni mezzo di fermare la maternità surrogata”. Secondo Mamet, costoro “non si basano su nessuna verità”.

Appare però fuori luogo parlare di demagogia a fronte di una realtà che produce giri di denaro inimmaginabili per un cittadino medio del Nepal, ove permangono enormi sacche di estrema indigenza. Si stima che per ogni maternità surrogata, una donna nepalese potesse guadagnare circa 6mila euro, l’equivalente di anni di duro lavoro nei campi agricoli.

È innegabile, al tempo stesso, che fino ad oggi l’utero in affitto, in Nepal, abbia camminato sul filo della legalità e sia stato reso possibile da un vuoto legislativo. Sono anni che il Paese si trova nel limbo politico a causa delle difficoltà registrate nel promulgare la nuova Carta costituzionale. Nel 2014, il Governo si era espresso sul tema della maternità surrogata, consentendola nel territorio nazionale alle donne straniere ed escludendo così le donne nepalesi. Ma come riporta Avvenire, per aggirare la legge molte donne si spacciavano per indiane pur di prestarsi alla pratica.

Pratica su cui il violento sisma che ha sconvolto il Nepal ha sollevato un velo che vi era stato volontariamente disteso sopra. La stessa Tammuz faceva sapere, a pochi giorni dal disastro naturale, che 52 cittadini di Israele si trovavano in alberghi di Kathmandu, in attesa di lasciare il Paese insieme ai bambini nati da maternità surrogate. Del resto, in quei momenti concitati circa 100 donne erano in procinto di partorire neonati da destinare agli israeliani che avevano “affittato” il loro utero. Sulla sorte di molte di queste vittime della povertà, e delle vite che portavano in grembo, è calata oggi una fitta nube di mistero.

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Federico Cenci

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