La Chiesa italiana ha come Primate il Vescovo di Roma: poiché questo Ordinario diocesano è anche capo di tutti i Cattolici, il nostro Paese ha dal 1978 il privilegio di conferire la sua primazia ad un Vescovo proveniente dall’estero.
Ciò non significa che la Chiesa italiana acquisisca suo malgrado caratteristiche di estraneità rispetto alla realtà del Paese, ma certamente comporta l’acquisizione di quanto vi è di positivo e di adattabile alle nostre specifiche caratteristiche in esperienze diverse.
Bergoglio è uno straniero di tipo particolare; forse lo si può meglio definire come un italiano diasporico: ve ne sono moltissimi nel mondo, ed in particolare nelle Americhe.
Tra loro vi è indubbiamente chi mantiene della patria di origine una immagine idealizzata, chi si accontenta di una immagine folcloristica del Paese da cui proviene; vi però anche chi sa meditare sulla propria condizione: quella dell’esilio, sia pure, nella maggior parte dei casi, determinato dalle condizioni economiche di una Nazione che fu a lungo povera e che purtroppo oggi ritorna ad essere tale.
Non dimentichiamo che anche Gesù conobbe la condizione dell’esiliato, quando la sua famiglia dovette compiere la fuga in Egitto. E allora l’italiano diasporico viene a trovarsi paradossalmente in una condizione privilegiata per capire i problemi del suo Paese, in quanto può meditare sulle cause profonde della propria condizione, sul perché – come si diceva un tempo – la patria sia stata matrigna verso di lui, verso i suoi genitori, verso i suoi antenati.
Per giunta, la lontananza – non tanto quella spaziale, quanto piuttosto quella dalle passioni contingenti che agitano i suoi luoghi di origine – lo rende uno spettatore da un lato partecipe, ma da un altro lato spassionato.
Il Presidente Kennedy, visitando il piccolo paese dell’Irlanda da cui era partito il suo bisnonno, disse semplicemente, rivolgendosi ai suoi concittadino: “Sono tornato”. E anche Bergoglio, in fondo, parlando agli altri Vescovi in qualità di loro concittadino potrebbe dire loro lo stesso. Aggiunge però, subito dopo, di avere trovato “una società priva di speranza, scossa in tante sue certezze fondamentali, impoverita da una crisi che, più che economica, è culturale, morale e spirituale”.
Certamente, uno dei sintomi di questa crisi morale viene rivelato dall’atteggiamento di rifiuto degli immigrati: conscio della propria memoria familiare, il Papa dice: “La scialuppa che si deve calare è l’abbraccio accogliente ai migranti”.
Ed aggiunge: “Accoglietene la cultura, porgetegli con rispetto la memoria della fede e la compagnia della Chiesa, quindi i segni della fraternità, della gratitudine e della solidarietà”.
Questo atteggiamento, però, deve caratterizzare i cristiani non soltanto verso i migranti, ma anche verso l’intero corpo sociale, che certamente è composto in gran parte da diversi, per religione, per convinzioni, per formazione.
Ed allora arriviamo all’essenza della “rivoluzione” promossa da Bergoglio: la Conferenza Episcopale è stata fino ad ora il portabandiera dei cosiddetti “valori non negoziabili”: che risultano certamente tali in quanto definiscono l’atteggiamento del cristiano davanti alle grandi scelte morali della vita individuale.
E’ tuttavia necessario promuovere la partecipazione dei cattolici alla vita civile e in particolare alle sue espressioni politiche – dove questa parola indica l’appartenenza alla “polis”, intesa come luogo di discussione e di ricerca del bene comune – in modo che i fedeli, anziché isolarsi dalla società, diano ad essa un proprio apporto nel contempo leale ed originale.
Don Davide Albertario, uno dei grandi personaggi del cattolicesimo sociale italiano, processato insieme con Filippo Turati per i fatti del 1898 a Milano, disse: “La società deve camminare compatta verso il suo fine ultimo”. E oggi, secondo Bergoglio, sono “i segni della fraternità, della gratitudine e della solidarietà che anticipano nei giorni dell’uomo i riflessi della Domenica senza tramonto”.
Questa visione teleologica della vicenda umana, propria del Vescovo di Roma non ammette – In quella che egli definisce “un’emergenza storica”- il venir meno alla “responsabilità sociale di tutti: come Chiesa, aiutiamo a non cedere al catastrofismo e alla rassegnazione”.
Come non cogliere in queste parole un riferimento allo scontro in atto in Italia tra chi scommette sulla catastrofe per lucrarne poteri dittatoriali e chi si sforza di salvare il salvabile? La società si salva dal disastro – ammonisce il Papa – solo restando unita: e la Chiesa deve essere promotrice e partecipe di questa unità, non costituirsi come fattore di divisione.
Già Paolo VI – ricorda Bergoglio – aveva proposto alla Chiesa “il servizio all’unità”, quando disse rivolgendosi proprio ai Vescovi italiani: “E’ venuto il momento (e dovremmo dolerci di ciò?) di dare a noi stessi e di imprimere alla vita ecclesiastica italiana un forte e rinnovato spirito di unità”.
“Nulla – dice il Vescovo di Roma – giustifica la divisione”. Occorre evitare “la durezza di chi giudica senza coinvolgersi”, così come “la pretesa di quanti vorrebbero difendere l’unità negando le diversità”.
Lo sforzo comune non deve escludere la “libera e ampia possibilità d’indagine, di discussione e di espressione”: questa libertà né costituisce anzi allo stesso tempo il fine ed il fondamento: solo essendo “lievito di unità” riusciremo “a essere profezia del Regno”.