La fede è l'antidoto al turbamento

Commento al Vangelo della V Domenica del Tempo di Pasqua 2014

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Che cosa oggi “turba il nostro cuore”, sottraendoci la pace e la gioia? Gesù aveva appena annunciato agli apostoli che sarebbe morto. Come loro, anche noi ci “turbiamo” quando la morte appare sull’orizzonte della nostra vita.

Ma la prima grande notizia è che, celato in ogni evento e relazione che odora di morte e ci impone di abbandonare progetti e desideri per rimetterci in gioco, c’è Cristo. Ciò significa che la storia di ogni giorno ci annuncia il Mistero Pasquale di Gesù. 

Ma, come per gli apostoli, saperlo non basta; il tradimento, quello altrui e il nostro, e poi la morte, beh questo ci “turba” sempre, il nulla che potrebbe spalancarsi davanti, e precipitarci dentro evaporando; e smettere di essere, di respirare, di pensare, di gioire, di fissare il volto della donna che ami, di litigare e far pace con tuo figlio. 

Per questo ci “turba” ogni annuncio della fine: i peccati degli altri, il male nel mondo, le ingiustizie.  Non importa se poi Gesù ha detto ai discepoli che sarebbe “tornato e li avrebbe presi con Lui”. Quello era il futuro, il presente era spalancato sulla precarietà, e il “cuore” era preda del “turbamento”.

Più avanti il Signore li avrebbe incoraggiati ancora dicendo che “non li avrebbe lasciati orfani”. Ecco, il punto è qui. Come il figliol prodigo, abbiamo lasciato la “casa di nostro Padre”, la nostra, cercando di essere in altri luoghi, e ci siamo risvegliati “orfani”.

Il demonio ci ha ingannati, come fece con Adamo ed Eva nel Paradiso. In quella “casa” ci siamo sentiti limitati, non potevamo raggiungere l’identità che il padre della menzogna ci prospettava: essere come Dio, quello sì che ci era piaciuto.

E ci siamo incamminati sulla “via” della “menzogna”, dimenticando, passo dopo passo, la “verità”. Ma senza di questa la “vita” perde senso, e si converte in una condanna, come accadde ai progenitori una volta precipitati fuori dal Paradiso. 

Per questo non siamo mai tranquilli, ci manca sempre qualcosa; ogni luogo che ci costruiamo con fatica, o che gli altri e gli eventi ci presentano, non ci sembra mai il nostro, ovunque ci sentiamo in trappola. Siamo “orfani”, e non possiamo sopportare che ci venga strappato neanche un frammento di quello che crediamo di avere tra le mani.

Il “turbamento” degli apostoli nasceva qui, come accade a noi quando la storia solleva il velo sulla “verità”, e cioè che esiste la morte perché esiste il peccato, il tuo e il mio. Ci eravamo illusi che fuori della “casa del Padre” avremmo trovato la “vita”. Ma la superbia genera sempre altri peccati, e la morte impregna di sé l’esistenza.

Gesù era stato chiaro, proprio nel momento in cui Giuda, immagine d’ogni superbo, aveva intinto il boccone con Lui ed era uscito nella notte. Il calice era colmo, e ora il male traboccava, tutto il male del mondo, i peccati di ogni generazione tingevano di nero ogni centimetro della terra, come una colata di lava che arrivava a Cristo. Quella notte era preparata per Lui, perché tutte le tenebre che spengono la vita degli uomini, fossero vinte dallo splendore della sua risurrezione.

Ma per risorgere doveva “andarci” dentro a quella notte, lasciare che il tradimento lo inchiodasse sulla Croce e lo deponesse nella tomba. Per Gesù quel momento era la sua “glorificazione”, ma per gli apostoli, ancora ciechi e illusi di poter “dare la vita” per qualcuno, era solo il momento in cui il loro Maestro sarebbe “andato via”, e loro non avrebbero “potuto seguirlo”.

Era il momento in cui stavano sperimentando il “turbamento” dell’orfano, il vuoto che si spalancava dinanzi. Era lì a un passo la “verità”, le conseguenze dei loro peccati; e il “cuore”, il punto più intimo di noi stessi, la sede della nostra volontà, dove siamo noi stessi e liberi, non ha retto l’urto. E’ un terremoto troppo forte la “verità”, la menzogna ha eroso le fondamenta e gli apostoli, come ciascuno di noi, non avevano “cuori” antismici per resistergli.

“Erano con Gesù da tanto tempo, ma ancora non lo conoscevano”. La “conoscenza” di Gesù, infatti, è l’unico pilone capace di restare in piedi nonostante le scosse devastanti che sfregiano la vita, perché apre alla “conoscenza del Padre”, che significherebbe cessare di essere orfani.

Come Filippo, anche noi vorremmo vedere il “Padre”; era quella l’unica speranza rimasta al figlio prodigo, ad ogni superbo che è uscito dalla “verità” per sparire nella menzogna. Certo che vedere il Padre “ci basterebbe”, perché significherebbe essere di nuovo accanto a Lui “nella sua casa”, e lì sì che si mangiava, che c’era vita e pace…

Per questo l’annuncio inesausto della Chiesa risuona anche questa domenica per tutti noi “turbati”: Cristo è risorto! E’ “tornato” vivo da quell’oscurità e ora è rivestito di una luce che nessun peccato potrà oscurare. 

Cristo è “andato” nel buio della morte, ma non ci ha lasciato “orfani”. E’ questo annuncio così stolto per il mondo che ogni figlio prodigo e perduto può rientrare in se stesso e convertirsi, tornare a casa, perché ogni passo deposto dal Signore sul cammino che lo ha condotto nel regno della menzogna e della morte, ha trasformato in una “via” di luce ogni via di perdizione. 

Cristo è risorto, è “tornato” con le chiavi del “posto” che “ha preparato” per noi in Cielo. “Nella casa del Padre”, infatti, “ci sono molti posti”, uno per ogni peccatore scacciato dal Paradiso, uno per ogni figlio orgoglioso spintosi nella notte a cercare di saziare l’insaziabile concupiscenza, “se no ce lo avrebbe detto”, e Gesù non ci inganna.

Ma come facciamo a credere a questo annuncio così sconvolgente? ”Fede” in ebraico si dice “emunah”, da cui deriva la parola “amen”; significa “essere stabili”, “appoggiarsi stabilmente”. La “fede”, dunque, è l’antidoto al “turbamento”, perché offre un sostegno stabile in mezzo alla precarietà.

Non è un sentimento, ma è profondamente esistenziale: quando Gesù ci dice “avere fede in Dio e in Lui” significa che oggi, di fronte alle situazioni difficili, quando ti sentirai senza “un posto” dove essere, “non turbarti”, cioè non scappare, ma “appoggiati in me”, resta in me, e scoprirai il tuo “posto” proprio in quello che pensavi che ti togliesse la vita e l’essere. 

E’ proprio lì, che Gesù “torna e ci “prende con sé” dove Lui “è”. Ma Lui dov’è? Non si tratta di un luogo fisico, ma di una relazione. Il “posto” di Gesù “è nel Padre e il Padre è in Lui”: il suo “essere” dipende dal Padre, al punto che “le parole che dice non le dice da se stesso”, e “il Padre che è con Lui compie le sue opere”. 

Allora possiamo scoprire il luogo dove essere con Gesù dalle “parole” e dalle “opere” del Padre che parla e compie in Lui. Per questo “fin da ora” possiamo “conoscere il Padre”; già qui nella nostra vita lo “possiamo vedere” parlare e operare in Cristo. 

Innanzitutto nella liturgia che celebriamo, nella Parola proclamata e scrutata, nei sacramenti a cui ci accostiamo, nella predicazione degli apostoli, nella comunione che sperimentiamo nella Chiesa. Qui il Signore ci dona i “souvenir” della “casa” che ci attende. Come gli esploratori che scesero nella Terra di Canaan e da lì riportarono le primizie di quel lembo di mondo meraviglioso, così Gesù che è “andato dal Padre”, “torna” anche oggi dal Cielo per consegnarci le primizie del Paradiso. 

Qui siamo gestati alla fede, per “credere in Lui”, cioè appoggiarci in Lui rimanendo nel suo amore, per “compiere anche noi le opere che Lui compie, e farne di più grandi”. Ma come è possibile, noi faremo opere più grandi di quelle di Gesù?
Sì è possibile, perché quando ha annunciato questo Lui non era ancora “andato al Padre”.

Ma ora che “è andato” ed è “tornato”, è per noi “via” attraverso la morte, “verità” che cancella la menzogna”, e “vita” più forte del peccato. In Lui possiamo compiere opere celesti, le opere della fede adulta che può compiere solo chi ha dentro la vita eterna: l’amore che cantava San Paolo, paziente, benigno, che cerca il bene degli altri, che tutto sopporta, non si gonfia e rispetta sempre, che ci fa donare all’altro, aprendoci alla vita, perdonando, scusando, prestando senza chiedere che ci sia restituito, non esigendo nulla ma lasciando l’altro libero di sbagliare, anche di farci del male.

Così scopriremo che il nostro “posto” coincide davvero con quello dove Gesù “è”: perché il suo “posto” siamo noi, come lo è suo Padre. Gesù è amore puro, che lo fatto dimorare in ogni uomo, anche nel peggior peccatore. Sì, il “posto” preparato per noi è la Croce dove il Signore ci sposa a sé e ci consegna al prossimo. 

Anche il nostro “posto” è, infatti, una relazione d’amore: crocifissi con Cristo, i cristiani sono a casa propria ovunque; al lavoro, in famiglia, in un letto di ospedale, durante la chemioterapia, al banco di scuola, alla fermata dell’autobus, perché in ogni “posto” è piantata la Croce, sulla quale siamo chiamati a salire con Cristo, la pietra rigettata dal mondo, che Dio ha costituito pietra angolare. 

Ora sì che “conosciamo la via” che Gesù ha percorso per andare al Padre: proprio ciò che sino ad ora ci ha “turbato” risplende di “verità”; è necessario il cammino nella notte, attraverso la “via” del rifiuto, per entrare nella “vita” che non finisce; è necessario questo “posto” così precario per gettare le fondamenta nel “posto” preparato per noi in Cielo.

E’ necessario perché il mondo “veda” il Figlio crocifisso e risorto per amore in noi, e così conosca il Padre e il destino eterno di pace e felicità per il quale ogni uomo è stato creato. 

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Antonello Iapicca

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