Una cultura dell'incontro contro la tentazione del "gossip ecclesiale"

La Chiesa è in grado oggi di gestire il flusso mediatico senza farsi strumentalizzare da esso? Una riflessione in vista della 48° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali

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Poco più di un anno fa Benedetto XVI affermò, nel suo ultimo incontro con il clero romano, che ci fu un “Concilio dei media”, una sorta di concilio parallelo al Vaticano II, il quale si impose all’opinione pubblica e causò per diversi anni una visione distorta del vero Concilio Ecumenico, con non poche negative conseguenze sulla storia recente della Chiesa e della nostra società.

Secondo l’analisi del Pontefice, dunque, nulla poté l’imponenza e l’autorevolezza di un avvenimento così particolare ed universale di fronte alla forza dei mezzi di comunicazione del tempo, che ne avrebbero offuscato la verità e ridotto la portata.

Alla luce della riflessione del Papa emerito, a distanza di cinquanta anni da quell’evento, ci domandiamo quale sia lo stato di salute del rapporto tra Chiesa e comunicazione, utilizzando come chiave di lettura il recente messaggio di Francesco per la 48ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali. In altre parole  ci chiediamo se la Chiesa oggi sia in grado di gestire il flusso mediatico in modo da non farsi strumentalizzare da esso, e se i media laici abbiano acquisito una maturità tale da potersi considerare onestamente in funzione della verità.

Nel messaggio di quest’anno, l’attuale Papa mette in guardia dall’autoreferenzialità della Chiesa e si domanda come la comunicazione possa essere a servizio di una autentica cultura dell’incontro. A questo proposito il Santo Padre evidenzia che, seppure “comunicare” significhi “farsi prossimo”, “non basta passare lungo le strade digitali, cioè semplicemente essere connessi”, per comunicare e quindi essere vicini.

La Chiesa del dialogo di Paolo VI, dei gesti di Giovanni Paolo II, dell’umiltà di Benedetto XVI e della semplicità di Papa Francesco si sta rivelando sempre più lontana dall’idea di “società di perfetti” che presumeva di essere neanche un secolo fa. E in questa progressiva kenosi, oggi essa di sicuro si sta avvicinando maggiormente all’uomo, al suo limite e al suo peccato. Ma siamo ancora lontani dall’icona del buon samaritano che fascia le ferite dell’uomo percosso dai briganti.

Uno dei pericoli mediatici in cui si può incorrere è quello di sprecare inchiostro sull’autocompiacimento per questa crescente e dovuta attenzione alla persona umana, togliendo spazio all’ascolto dell’altro e alla trasmissione del messaggio evangelico. Così può accadere ad esempio che si desti l’interesse per una iniziativa di solidarietà della tale istituzione cattolica o per una carezza del Papa, cui però non seguirà nient’altro che un inedito “gossip” religioso, con siti, programmi e riviste, vecchie e nuove, interamente dedicate al “genere letterario”. È la moda del momento, ma da una tale forma di comunicazione non può che emergere una Chiesa immanente, alla stregua di una qualsiasi altra associazione di promozione sociale.

Fin qui il peccato è veniale. Ma quando si arriva a banalizzare il sacro, con sacerdoti che ballano in chiesa al ritmo della dance o suore che cantano le hit del momento, illudendosi di creare occasioni di evangelizzazione, allora il problema si fa serio. Quando nei talk show sovente la figura del chierico ricopre soltanto il ruolo di moralizzatore, quando in certe sit-com, confezionate per il web, il prete o l’intera parrocchia fanno semplicemente da scenario alle storie di tutti i giorni, senza mai far riferimento ad una benché minima meditazione spirituale, allora ci sarebbe da fermarsi e riflettere.

Ecco perché Papa Francesco quest’anno invita, a mio avviso, alla lentezza: perché nel vorticoso scorrere di immagini e di parole, il rischio della comunicazione per la Chiesa sarà inevitabilmente quello della superficialità, del distacco dalla realtà e, per l’appunto, dell’autoreferenzialità, qualora ci si affidi all’improvvisazione e non si facciano decantare progetti e idee dietro a un qualsiasi prodotto comunicativo. Del resto, se è stato manipolato un Concilio, figuriamoci quanto possa essere facile condizionare un messaggio, una testimonianza, una persona.

I media laici mostrano interesse verso le vicende della Chiesa, perché di fondo ognuno è alla ricerca della “voce del Pastore”. Nel contempo però non riescono a prescindere dal profitto, per cui la tentazione di cavalcare l’onda e amplificare le distorsioni è sempre alla porta, soprattutto quando si intravede il guadagno. Penso non abbia precedenti lo spazio dedicato alla Chiesa sui giornali, in tv, sul web, dall’elezione di Papa Francesco ad oggi. Ma i dati di ascolto in continua crescita e i consensi di massa alla moderna immagine di Chiesa non sono l’obiettivo della missione di chi vuol comunicare la fede cristiana. E ancora una volta il moribondo della parabola del buon samaritano, citata dal Santo Padre, rimane a terra senza che nessuno se ne prenda cura.

Cosa occorre allora perché si comunichi davvero la salvezza? Per dirla con le parole del compianto cardinale Carlo Maria Martini, nella sua lettera pastorale “Il lembo del mantello”, è necessario un processo forte di personalizzazione, perché si passi dall’anonimato della massa ad un contatto diretto con Gesù, come recettori dialoganti, vigilanti e attivi. Papa Francesco ricorda che c’è bisogno “di tempo e capacità di fare silenzio per ascoltare”, che non si può prescindere anche nei media di amare ed essere amati.

Sostiene a questo proposito il cardinale Gianfranco Ravasi, intervenuto di recente al Salone del Libro di Torino, che è imprescindibile trasmettere per la Chiesa il contenuto del messaggio evangelico in un ambito comunicativo tante volte affidato a parole in sequenza vuote e inutili, specie su internet. E poi, altrettanto importante è il modo in cui si comunica, che deve richiamarsi a principi di bellezza, di incisività, di passione nei confronti di Dio, per un annuncio autentico, non affidato all’equivoco.

La Chiesa può e deve arrivare a questi obiettivi. E deve poter guidare la comunicazione in genere, anche quella laica, a muoversi verso questa direzione. Innanzitutto rendendosi finalmente conto dell’importanza del comunicare attraverso i media con professionalità: dedicando tempo ed energie alla formazione delle famiglie e degli operatori a tutti i livelli, sensibilizzando i fedeli all’uso dei media; in secondo luogo cercando una sempre maggiore interazione tra i mezzi di comunicazione di massa e le realtà locali, le parrocchie, i movimenti, le associazioni che costituiscono attualmente la sua vera ricchezza: le sale della comunità, in questo contesto, potrebbero avere un ruolo fondamentale; ma soprattutto è urgente ritornare alle radici del nostro credo, ritrovare quella parresia che contrasti le pericolose derive del nostro tempo e trasmetta le affascinanti ragioni della nostra fede, per veicolare esperienze di vita e non solo fatue immagini.

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Francesco Indelicato

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