Riprendiamo di seguito il testo pronunciato da monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro-Squillace, al termine della marcia della pace diocesana, svoltasi ieri sera nel comune di Borgia.
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C’è troppa violenza nel mondo, in Italia, in Calabria, nella società, contro gli immigrati, contro le donne, contro i bambini, contro gli anziani, contro i diversi, nelle città, nel mondo del lavoro, nel rapporto con l’ambiente, troppa censura nell’informazione. Nel mondo, ci sono troppi conflitti, troppe guerre, troppe ingiustizie, troppe disuguaglianze, troppe persone muoiono di fame, di sete e per malattie infettive. In Italia, c’è troppa mafia, troppa corruzione, troppo malcostume, troppa evasione fiscale, troppo razzismo, troppo egoismo, troppa falsità, troppa censura e purtroppo tanta indifferenza.
Ed è in questo contesto che si pone il dramma che sta lacerando in questi giorni i paesi di San Floro, Borgia, Girifalco Cortale, Maida e la città di Catanzaro: la costruzione dell’ isola ecologica di Battaglina, alle porte di Borgia: una super mega discarica di oltre40 ettariin una zona gia’ troppo compromessa e colpita dietro la giustificazione dell’energia pulita e del progresso tecnologico.
Comprendo con sofferenza le preoccupazioni delle persone che si troveranno a vivere e lavorare con la minaccia sulla testa di questa bomba ecologica, come ormai è definita, e sono pienamente solidale con i componenti dei comitati “No Discarica Battaglina”». Fare individualmente o in piccoli gruppi qualcosa per la soluzione del problema non basta più. Occorre imparare a farlo insieme. Cittadini, organizzazioni della chiesa e della società civile, comunità ed Enti Locali devono agire insieme, con audacia e lealtà, operando oltre le frontiere e le diversità come un fronte unico, con una strategia globale ed una consapevolezza comune per capire alle radici il problema, senza alcuna paura della verità. Noi tutti vogliamo strutture che diano lavoro e pane ai nostri giovani e se tale discarica è legale e sana, siamo contenti per coloro che, secondo giustizia e legalità, troveranno un’occupazione, ma allo stesso tempo non vogliamo per i nostri figli strutture che diano pane avvelenato, condito con scorie tossiche. Noi vogliamo la vita per la nostra gente, non la morte.
Con l’auspicio che tutto venga chiarito e risolto al più presto dagli Organi competenti, uniamoci al messaggio e al pensiero di Papa Francesco: ”Fraternità, fondamento e via per la pace”, nella convinzione che ripartire da rapporti fraterni e solidali è una della grandi vie per umanizzare le società contemporanee, per la realizzazione del bene comune e l’affermazione della pace presso di noi e nel mondo.
Una marcia non è fine a se stessa, continua negli animi, produce onde che vanno lontano, fa sorgere problemi, orientamenti, attività. La vera marcia, lo sappiamo, comincerà questa sera, quando ognuno di noi tornerà nella propria casa con l’impegno di realizzare il programma politico non violento di pace e fratellanza. Per cominciare dobbiamo partire da noi stessi, ognuno deve fare il proprio disarmo. Un disarmo unilaterale, un disarmo culturale. Far cadere i muri dentro le nostre teste. Spezzare il proprio fucile. Non aspettiamo che siano gli altri a disarmarsi, incominciamo noi!
Ma i principi non basta affermarli, vanno declinati in una consapevole ed efficace azione religiosa, culturale e politica. La forza delle marce gandhiane è stata la capacità di trasformare i partecipanti in attivisti della nonviolenza che puntavano a realizzare gli obiettivi specifici per i quali avevano marciato insieme. Non si può essere marciatori per una sera, ma bisogna portare nelle nostre parrocchie, nelle nostre associazioni, nei nostri enti locali, nelle nostre università, nelle nostre scuole l’energia raccolta durante la marcia e trasformarla in azione collettiva religiosa, sociale e politica. Una rivoluzione costituzionale e nonviolenta che apre e dà origine a tutte le altre.
E allora “In piedi, costruttori di pace!”. Facciamo nostro l’appello del memorabile Vescovo don Tonino Bello, pronunciato presso l’Arena di Verona nel corso dell’Assemblea dei “Beati i costruttori di pace” e ritroviamo anche noi le ragioni di un rinnovato impegno di “Pax Christi” nella Chiesa e nella società. E anche la nostra Calabria sia non “arco di guerra” ma “arca di pace”.
Mi piace riportare un significativo pensiero dell’indimenticabile don Tonino Bello: «[…] La pace non è un dato, ma una conquista. [..] Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno. Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo. La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia. Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio. E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito, ma chi parte».
Oltre a tutto ciò, aggiungo io, la pace esige e grida a gran voce:Giustizia, dignità, uguaglianza, fraternità: capisaldi della vera pace, diversa da quella che non fa del limen una soglia da varcare nel rispetto dell’altrui dignità, ma una profonda linea di demarcazione, che delimita l’io e il tu, perché si vuole che non diventino “noi”. Una pace che non scomoda, che non provoca, non interpella, non smuove, non tormenta, non ci fa accorgere dell’altro. Altra, invece, è la pace alla quale dobbiamo tendere con coraggio. Valicare il limite costitutivo del nostro essere umani vuol dire vedersi con occhi diversi, e non più come merce di scambio. Come lo stesso Papa Bergoglio evidenzia, «le nuove ideologie, caratterizzate da diffuso individualismo, egocentrismo e consumismo materialistico, indeboliscono i legami sociali, alimentando la mentalità dello scarto, che induce al disprezzo e all’abbandono dei più deboli, di coloro che vengono considerati inutili. Così la convivenza umana diventa sempre più simile a un mero do ut des pragmatico ed egoista».
Leggersi nell’ottica del paradigma del gratuito vuol dire pensarsi, sentirsi come chiamati e “provocati” alla gratuità. Si può dare qualcosa di sé perché non si è dati da sé, ma ricevuti e accolti. Si può dare tutto di sé, paradossalmente anche ciò che non si ha, perché ci si scopre carenti e bisognosi del frater più che del socius,.
Si può, si deve: varcare il limen è abbattere la barriera del “sé” per costruire la città del “noi”. Quella che serve, quella che drammaticamente manca.