Quella che presentiamo è la “Lectio Magistralis” che il cardinal Ravasi ha pronunciato in apertura dell’edizione 2009 di “Molte fedi sotto lo stesso cielo. Per una convivialità delle differenze”, un ciclo di iniziative promosse, da alcuni anni a questa parte, dalle ACLI di Bergamo insieme al Comune, all’Università e a moltissime realtà sociali e solidali del territorio.
Ogni anno un tema generatore fa da sfondo all’esercizio, svolto con linguaggi e modalità diverse, teso a costruire, in una terra segnata con rapidità improvvisa da radicali trasformazioni, un alfabeto delle culture e delle religioni che possa offrire alle comunità, in parte disorientate e impaurite, una mappa per leggere con responsabilità e discernimento la sfida epocale del mondo plurale a cui, inevitabilmente, siamo chiamati. Un impegno civile per allargare “terre di mezzo” in grado di far crescere, nel riconoscimento di identità e differenze, la cultura dell’inclusione.
Perché la bellezza? Una scelta a prima vista discutibile. Altre sembravano, quell’anno, le urgenze e le questioni da mettere al centro della riflessione e del confronto: la crisi che attanagliava il Paese e che pareva (come è accaduto) non avere fine, la politica e la qualità della democrazia, l’economia e una nuova idea di sviluppo.
Eppure l’equipe di Moltefedi si è orientata sul tema della bellezza. Eravamo – e lo siamo tuttora – convinti che la celebre frase di Dostoevskij, tanto citata da rischiare di apparire banale, abbia un fondo indiscutibile di verità: a salvare questo mondo non basta l’economia, non basta la politica ma è assolutamente necessaria la bellezza.
«Sappiate che l’umanità può fare a meno degli Inglesi, può fare a meno della Germania, che niente è più facile per lei di fare a meno dei Russi, che per vivere non ha bisogno né di scienza né di pane, ma soltanto la bellezza le è indispensabile, perché senza bellezza non ci sarà più niente da fare in questo mondo! Qui è tutto il segreto, tutta la storia è qui!».
Pochi decenni dopo, Antoine de St.Exupery riprendeva con forza quest’idea: «Vivo con fatica la mia epoca. In essa l’uomo muore di sete e non esiste al mondo un problema più grande di questo: dare agli uomini un senso spirituale, un’inquietudine spirituale. Non si può vivere di frigoriferi, di bilanci e di politica. Non si può! Non si può vivere senza poesia, senza colore, senza amore. Lavorando unicamente per acquistare dei beni materiali finiremo con il fabbricarci una vera e propria prigione».
Una provocazione che resta intatta per l’uomo di oggi e per chi, tra le donne e gli uomini del nostro tempo, si dice credente, custode e testimone di quelle fedi che nella storia hanno avuto l’ardire e la pretesa di custodire il vero. Dentro, non fuori né accanto, le storie del mondo. Vero che è autentico nella misura in cui si apre al bello. Bellezza e bontà, estetica ed etica, sono profondamente intrecciate in tutte le esperienze religiose. La bellezza è sorella della verità. Non è disgiunta.
Donne e uomini, i credenti, che dovrebbe mostrare con la vita («non basta essere credenti, occorre essere credibili», ci ha gridato in una “Meditatio” di Moltefedi don Andrea Gallo) che a salvare il mondo è soprattutto quella bellezza da non confondere con l’estetismo oggi tanto di moda) che ha il carattere della gratuità, perché, in un mondo che sempre più obbedisce alla logica dell’utile e della redditività delle cose, essa parla un linguaggio totalmente altro: quello dell’amore di Dio che è un amore senza perché.
Aveva dunque ragione padre Turoldo: «Il brutto, la categoria del brutto, non può appartenere al divino. Perciò io oggi ho molti sospetti, e paure, che non siamo sulla via giusta, perché oggi predomina il brutto. Siamo in tempi brutti, abitiamo in città brutte, frequentiamo chiese ancora più brutte. E questo deve farci paura: l’imbruttimento di solito è principio di abbruttimento».
Là dove trionfa la bruttezza (che non è da mettere in rapporto con la povertà delle forme ma con la volgarità) si può essere certi che si crea come una sorta di schermo tra l’umano e il divino.
Chi ha a cuore il regno di Dio, comunque lo si chiami, non può non amare la bellezza. Chi della bellezza ha perso il gusto si muove in un mondo opaco dove la grazia (qui nel suo significato di luce e di poesia divina) è assente. Anche se continua a proclamarla con la bocca.
* Daniele Rocchetti è Vice Presidente delle ACLI di Bergamo