Distanti 86 anni nella vita (dal 1910 al 1996), la nascita e la morte di Madre Teresa di Calcutta sono invece vicinissime sul calendario: il 26 agosto e il 5 settembre. Com’è evidente, questa santa suora ha vissuto interamente quello che lo storico britannico Eric J. Hobsbawm chiamò «il secolo breve», perché nel suo corso sono nate, cresciute, ma sono state anche rovinosamente sepolte tutte le grandi ideologie: dal socialismo e dal comunismo ai vari nazionalismi, dal fascismo al franchismo e al nazismo, segnando il passaggio dalla modernità alla postmodernità. C’è un motivo per questa sottolineatura storica, che sembra estranea alla vita e all’opera della Beata, se si pensa all’eredità di delusioni, guerre, turbolenze e rivolte morali (la modernità) lasciate dal XX secolo appena archiviato al XXI con le sue speranze ormai quasi svanite, si capirà meglio, oggi, quell’appellativo di “madre” che qualifica da sempre la beata – la santa – di Calcutta. Non sono state le guerre, in cui c’è sempre qualcuno capace di scoprirne persino i valori (l’amor patrio, l’eroismo, lo sviluppo tecnologico, la solidarietà…), ma piuttosto le povertà, le miserie materiali e soprattutto morali e spirituali che si sono maturate in quantità nel “secolo breve” e sono esplose e ci tormentano ora in un secolo nuovo, che non sappiamo ancora quanto sarà lungo né come definire.
Parlo, per esempio, della miseria di chi ha fame e guarda chi gioca con la finanza miliardaria e improduttiva che aggrava la povertà dei più deboli, ma non è la più grave. Mi riferisco piuttosto alla duplice miseria dell’aborto che cancella la ricchezza della femminilità e riduce il nuovo essere umano al livello di un oggetto da gettare tra i rifiuti ospedalieri. Penso alla miseria della negazione di un futuro, che è la sostanza della contraccezione, e a quella della riproduzione artificiale umana che parifica padri e madri alle tecniche degli allevamenti zootecnici. All’eutanasia, che mortifica il passaggio dalla vita temporale a quella sempiterna; all’omosessualità priva della ricchezza feconda dell’alterità, ma glorificata proprio nella sterilità di due uguali senza speranze e infine – ma l’elenco non si esaurisce qui – alla povertà della pseudo-famiglia, che si accontenta di una compagnia provvisoria, e dell’impossibilità del dono totale e reciproco di sé. Il dono nuziale tra un uomo e una donna, tra Gesù e una suora. Madre Teresa parlava di «una medesima fame in India, in Europa, nel mondo intero […] che non è fame di un pezzo di pane o di un vestito, ma una medesima immensa solitudine, uno stesso intenso desiderio: la sofferenza di non sentirsi amato né accettato, l’angoscia di non avere nessuno da poter chiamare “suo” – To have no one to call your own. È una povertà grande».
Questa piccola suora, che pareva sfruttare il suo fisico minuscolo per nascondersi, aveva intuito che cosa significa non essere famiglia, vera famiglia e che cosa questa rappresenta e costituisce nel mondo: «Sono madre di migliaia di bambini» diceva. Dei bambini che dovevano essere abortiti, di quelli abbandonati. Ha sempre parlato proprio da madre, come se tutti fossero figli suoi. E in effetti, se si pensa a quanti devono a lei la loro vita, la sua maternità non è soltanto spirituale. Una volta a Roma, all’Accademia dei Lincei, quando le fu assegnato il Premio Balzan “per l’umanità, la pace, la fratellanza tra i popoli”, lei non attese le domande e parlò per prima dei bambini abbandonati, non voluti, di quelli che muoiono di fame. Madre Teresa, le obiettarono i giornalisti, piuttosto che farli vivere così, non sarebbe meglio non farli nascere? «I bambini sono il più bel dono di Dio. Ogni bambino ha diritto di venire al mondo, desiderato o no. L’aborto è un delitto compiuto nel grembo della madre». Madre Teresa, ma la qualità della vita non è più importante della nascita? «Il primo diritto è nascere. Tutti gli altri vengono dopo. I bambini che non volete dateli a me».
E ancora: «I bambini hanno avuto una parte molto importante nella mia vita e nella mia opera. Le prime creature con le quali iniziai la mia nuova missione, furono proprio cinque bambini abbandonati. Vivevano in un tugurio, alla periferia di Calcutta, nella zona più misera della città. Io non avevo niente, ma andavo a raccogliere cibo nei rifiuti per loro. Stavamo insieme. Li amavo e loro erano felici. Non esiste tristezza più grande al mondo della mancanza d’amore. Ho visto bambini lasciarsi morire perché nessuno voleva loro bene». E collegava sempre aborto e povertà, aborto e pace. Alle Nazioni Unite, quando salì alla tribuna dell’Assemblea, il Segretario generale Javier Pérez de Cuéllar la presentò con una definizione davvero inedita: «Lei è le Nazioni Unite. Lei è la pace nel mondo». E Madre Teresa rispose come aveva detto alla consegna del Nobel: «Impediamo che vengano uccisi i bambini non ancora nati. L’aborto è una grave minaccia per la pace, una guerra diretta. Perché se una madre può uccidere il proprio bambino che cosa impedisce a me di uccidere voi o a voi di uccidere me? Quando uccidiamo un bambino stiamo cercando di uccidere Dio».
Combatteva l’aborto con l’adozione, ma anche – cosa che appare singolare per una suora – insegnando i metodi naturali a quelli che chiamava «i nostri mendicanti, i nostri lebbrosi, agli abitanti delle baraccopoli, alla gente che vive nelle strade. In sei anni solo a Calcutta abbiamo avuto 61.273 bambini in meno di quelli che sarebbero potuti nascere se, invece di una continenza controllata senza scapito del reciproco amore, le famiglie avessero fatto ricorso ad altri metodi. Noi insegniamo loro il metodo della temperatura, che è molto bello e semplice e che anche i poveri capiscono facilmente. E sapete quello che più volte mi è stato detto? “Ora la nostra famiglia è sana e abbiamo un figlio quando lo desideriamo”».
Ed ecco l’inno non alla povertà, ma ai poveri: «Se ciò è possibile alla povera gente di strada, ai mendicanti, tanto più lo sarà a tutti gli altri che conoscono modi e mezzi per non dover distruggere la vita che Dio crea in noi I poveri sono gente brava e buona. Ci possono insegnare tante cose. Un giorno un uomo venne a ringraziarci: “Voi che osservate la castità, ci avete insegnato benissimo a pianificare la famiglia, poiché consiste solo nell’autocontrollo e non pregiudica l’amore dell’uno per l’altra”. Penso che abbia detto una cosa buona. Eppure è gente che spesso non ha da mangiare, non ha una casa dove vivere, ma ugualmente sa essere grande. I poveri sono gente meravigliosa». Anche nel morire, quando altri parteggerebbero per l’eutanasia. Un giorno Teresa trovò per strada un vecchio moribondo pieno di piaghe maleodoranti e abitate dai vermi. Lo raccolse e con l’aiuto di alcune consorelle lo portò nella Casa dei moribondi, lo lavò, gli deterse le piaghe, gli tolse i vermi che se lo mangiavano e lo carezzò sorridendo e parlandogli di Dio, del suo Dio.
Il vecchio piangeva dalla gioia: «Ho vissuto e mi hanno trattato come un animale. Io ero convinto che Dio non ci fosse. Oggi morirò circondato dai suoi angeli»[1].
[1] Sull’impegno della Beata di Calcutta si può vedere Dateli a me. Madre Teresa e l’impegno per la vita, di Piergiorgio Liverani, con prefazione di Carlo Casini, Città Nuova editrice, seconda edizione, Roma 2003, pagg. 150, € 9,50.
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Fonte: Punto Famiglia, settembre-ottobre 2013