Chi "mungerà" il Toro?

Come contenere il debito senza penalizzare lo sviluppo?

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Da un po’ di tempo nelle stanze del potere circola la voce di un aumento al 22% dell’imposta sul capital gain. “Un vecchio pallino di Francesco Boccia che però trova l’opposizione di Berlusconi, del Pdl e delle banche”, scrive la Repubblica del 15 ottobre e i quotidiani economici rispondono evidenziando che l’innalzamento dell’aliquota potrebbe avere effetti devastanti per la Borsa ora in ripresa. I più informati ricordano  che della proposte avanzate non c’è ancora certezza mentre sembra certo un incremento dell’imposta di bollo sulle comunicazioni sui prodotti finanziari (dall’1,5 all’1,65 per mille).

I commenti non mancano: “Un ritocco all’insù della ritenuta sulle rendite sarebbe accettabile – scrive S. Padula sul Sole (del 15 ottobre) mettendo a confronto le aliquote degli altri principali paesi Ue – ma solo in un contesto di riduzione dell’aliquota dell’imposta sulle società altrimenti si rischierebbe di penalizzare quegli investimenti di cui il Paese ha bisogno”. Ragionamento analogo sul Corriere  lo fa Angelo Contrino (professore alla Bocconi), che sottolinea l’impatto dell’aumento sulla redditività, visto che va a sommarsi agli altri prelievi introdotti nell’ultimo anno e mezzo sui risparmi investiti in Borsa. Il rischio è “un possibile effetto disincentivante per i capitali provenienti dall’estero” oltre che di una tassazione che colpisce anche i risparmiatori con i redditi più bassi.  

Ma chi ha effettivamente ragione ? Senza avere alcuna pretesa risolutiva, mi farebbe piacere condividere con voi solo alcune osservazioni.

In Italia la pressione fiscale effettiva, il gettito cioè osservato in percentuale di Pil emerso, si attesta quest’anno al 54%, al top fra le economie avanzate[1]. Tale stima è del rapporto sull’economia sommersa di Confcommercio, presentato nel corso di un convegno «Tasse… Le cambiamo?» organizzato dalla stessa associazione nel luglio di quest’anno a Roma. Sul punto anche se vogliano essere meno pessimisti, il livello non scenderebbe comunque al di sotto del 50%.

Su tale livello di pressione fiscale c’è una generale condivisione tra gli economisti (opinioni sintetizzati dall’economista americano Laffer in una rappresentazione grafica, nota appunto come curva di Laffer) che, oltre certi limiti, l’aumento della pressione fiscale è controproducente non solo per lo sviluppo dell’economia ma anche per la stessa finanza pubblica, in quanto genera una diminuzione delle entrate. La versione originale di Laffer, prevedeva una campana simmetrica, e dunque poneva l’apice in corrispondenza di una aliquota al 50%, la quale implica che per ogni ora di lavoro il contribuente lavora 30 minuti per sé stesso e 30 minuti per lo Stato.

Altre versioni ritraggono, però, un apice spostato sulla sinistra, e dunque implicano la necessita di una aliquota ancora minore. Dunque, comunque stiano effettivamente le cose, nel nostro Paese la pressione viaggia intorno ad un abbondante 50% e, come tale, siamo in una situazione evidentemente critica. Il carico fiscale è distribuito malamente tra i cittadini.

E’ innegabile la circostanza che alcuni pagano poco o nulla di quelle troppe tasse, facendo ricadere la pressione fiscale loro destinata sulla spalle di chi, invece, le tasse le paga per intero e che alla fine deve sopportarne un peso – una pressione – ancor superiore. L’evasione fiscale italiana è al 2011, secondo il presidente dell’Istat, Enrico Giovannini fra il 16,3% e il 17,5% del Pil, per un totale che oscilla fra i 255 e i 275 miliardi di euro. Essa inoltre è diversa al Sud rispetto che al Nord. Quindi una buona parte dei cittadini non pagano quanto dovuto.

Peraltro, il nostro sistema fiscale riserva ai redditi provenienti da alcune fonti ha riservato una tassazione facilitata. Siano, ad esempio, la tassazione alla fonte sui redditi proveniente dalla locazione degli immobili e quella che deriva dai capitali.

Per i redditi da capitale[2] (interessi su titoli, conti correnti e depositi, dividendi su azioni), si ha un trattamento particolare: per le persone fisiche non imprese è stata prevista una tassazione alla fonte con ritenuta definitiva, mentre per le imprese è prevista una esenzione parziale di questi redditi (il 60% è esente). Le aliquote sono due: il 27% sugli interessi di c/c e depositi e sui proventi di obbligazioni emesse da società quotate in borsa; il 12,50% sugli altri proventi (interessi di titoli di stato, obbligazioni con durata superiore ai 18 mesi, etc.). Anche per quanto attiene i redditi provenienti da locazioni di immobili, il contribuente può, come noto, optare per una tassazione alla fonte. Questo fatto determina, in definitiva, che vi sono redditi che vengono tassati con aliquota progressiva, in definitiva quelli che derivano dal lavoro (autonomo, dipendente, ecc.) mentre altri, in particolare, quelli derivanti che derivano dalla “ricchezza” (capitali, fabbricati, ecc.) sono tassati con una cedolare secca. Morale, sotto questo primo profilo, sembra violato il principio sancito dalla Costituzione (art. 53), secondo cui: tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. In effetti il reddito proveniente da tali fonti gode non si somma agli altri redditi prodotti e, pertanto, non sottosta  al principio di progressività delle imposte. Chiariamo con una esempio. Un soggetto che percepisce un reddito da lavoro di, poniamo 70.000,00 mila euro l’anno paga d’imposte circa 32.000, mila euro di tasse. Se tale somma viene da interessi da titoli di Stato le imposte da pagare saranno solo 8.750. Un beneficio non da poco !

Altra questione è il capital gain. Dalla cessione di titoli di capitali in portafoglio, ovvero, in possesso del risparmiatore, posso derivare plusvalenze, ovvero, un maggior valore rispetto al costo d’acquisto. La normativa fiscale italiana distingue in base al fatto che i capital gain siano realizzati da persone fisiche o giuridiche. Per le persone fisiche – e per il momento a questo ci limitiamo – sono soggetti ad un’aliquota fissa del 20%, i guadagni di capitale conseguiti cedendo partecipazioni non qualificate o altri titoli non azionari. La cessione di partecipazioni qualificate impone, invece, di dichiarare il 49,72% del capital gain, con successiva tassazione ordinaria.

La proposta che circola è, dunque, di aumentare tale imposta. Ma quali so i pro e quali i contro di tale imposta, ed quindi di una suo aumento. Accusa: L’imposta non è uniforme sui mercati globalizzati e, nemmeno, sui principali mercati europei. Il risultato e che ciò determinerebbe a detta degli esperti di Borsa – una riduzione degli investimenti e degli scambi. Il calo porterà, inevitabilmente, dunque alla riduzione della liquidità e a maggiore volatilità sui corsi azionari. Sul punto si ribatte che le scelte degli investitori  sono in realtà dettate da criteri quali l’efficienza del mercato stesso e la sua solidità e che quindi tale rischio non è così rilevante. Inoltre, l’operatore che vuole investire sul lungo periodo non si spaventa di fronte ad un aumento della tassazione

il rischio di un’aumento dell’imposta è quello di “schiacciare” una Borsa, come quella italiana, che già di per sé ha perso importanza. Molti ritengono che sia “un po’ come il problema dell’inquinamento in una grande città. Può anche imporsi una tassa per impedire la circolazione alle auto in centro. E, però, se tutto attorno le strade ad altissimo inquinamento non vengono toccate, allora il problema resta. E il centro, la Borsa Italiana, sarà attraversata solo dai più ricchi”.

Ma anche qui, la risposta p pronta: “il rapporto tra le capitalizzazioni di Borsa ed i Pil nazionali, al di là delle inevitabili variazioni degli ultimi anni legate anche alla recessione e alle manovre di austerity, rimane comunque molto elevato. Cioè, i num
eri indicano che il “nanismo” di Piazza Affari non è così evidente”.

Bene, come si vede anche tra gli operatori la diversità d’opinioni non manca. Per quello che ci riguarda, speriamo che questa sintetica panoramica sia riuscito almeno un  po’ a farvi orientare in un mondo davvero complicato!  

*

NOTE

[1] Da notare tuttavia che molti sono i critici del luogo comune dell’Italia paese di evasori. Essi sostengono infatti che  il calcolo dell’evasione è fatto semplicemente così: quanto si vorrebbe incassare rispetto al PIL – quanto si incassa rispetto al PIL = la percentuale di evasione. Tradotto in numeri: 70% che lo stato italiano vorrebbe incassare rispetto al PIL (dati banca mondiale) meno 43% che lo stato realmente incassa rispetto al PIL (semplice dato estrapolato da gettito fiscale/PIL) = percentuale di evasione fiscale 27%. Come ho detto la “mostruosa” evasione fiscale italiana è data dal primo fattore (il 70% che lo stato italiano vorrebbe incassare).

[2] Si può assumere come definizione generale della categoria l’art. 44 lett. H del TUIR secondo cui: “costituiscono redditi da capitale i proventi derivatidall’impiego di capitale finanziario purché la loro percezione avvenga al di fuori dell’esercizio di attività imprenditoriali”. Tale definizione va completata tenendo conto che non sono redditi di capitale le plusvalenze poiché il legislatore le definisce come proventi derivanti  da  rapporti  attraverso  cui  possono  essere  realizzati  differenziali positivi e negativi in dipendenza di un evento incerto.

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Enea Franza

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