[La prima parte è stata pubblicata ieri, venerdì 18 ottobre]
Il Cristo che abbraccia la croce, nel contempo mostra l’affettività che viene in qualche modo ferita dall’ingiustizia, come in una coppia può avvenire…
Mons. Rocchetta: Una coppia che ha vissuto torti gravi, come un tradimento, se non si mette nella croce è difficile che ce la faccia perché non si tratta di reprimere ma di offrire e la croce ci aiuta in questo atto di sublimazione. Quando facciamo gli incontri con le coppie in difficoltà, uno è dedicato al perdono e alla riconciliazione. Alla fine tutto si ricostruisce mettendosi ai piedi del crocifisso: offrire come Gesù offre se stesso al Padre, offre il perdono ai carnefici. Gesù dice al ladrone “oggi sarai con me in paradiso”, e poi dice “perdonali perché non sanno quello che fanno”. A volte chi ha sbagliato non si è reso conto della gravità del suo errore e quindi cercare di mettersi in questa sorta di empatia, non è facile, però è l’unica via altrimenti rimane il rancore e la rabbia, per quella strada non si va da nessuna parte.
Quante coppie sono state salvate dalla tenerezza?
Mons. Rocchetta: In questi 10 anni abbiamo calcolato che una media del 60% riesce a superare la crisi e a ri-innamorarsi o a perdonarsi. Riscoprono cosa significa essere sposi nel Signore e quindi vivono il matrimonio in maniera nuova, matura. La crisi non sempre è fallimentare, addirittura può diventare una salutare opportunità per riscoprirsi. Si tratta di ricostruire una casa, questa volta antisismica, magari quella di prima non lo era, veniva il terremoto e la buttava giù… La crisi può essere la “felice colpa” della Pasqua, dove due possono ricominciare per la gioia loro e dei figli. Le vittime, quando due si separano e si odiano, sono i figli. I bambini soffrono tantissimo, alcuni si danno da fare perché i genitori non si separino, alcuni sono venuti a ringraziarmi, mi hanno mandato una letterina… È straordinario quanto i bambini vivano questo trauma dei genitori che stanno separandosi.
Lei scrive che l'abbraccio ha un effetto terapeutico più di un farmaco: rilassa, allevia i dolori, cura le ferite, produce bene-essere.
Mons. Rocchetta: Infatti sono partito da questo dato che mi ha colpito molto. È dimostrato scientificamente in tanti studi in America e in Nord Europa, che ho citato solo in parte, che l’abbraccio dà sollievo, è un balsamo di guarigione, comunica fibre positive che annullano quelle negative, mette in moto gli ormoni migliori quelli del benessere, nella donna l’ossitocina, nell’uomo il testosterone ed è importantissimo. Naturalmente l’abbraccio vero, in cui ognuno si sente accolto dall’altro, non l’abbraccio finto, oppure di corsa.
Specialmente fra gli sposi, tra genitori e figli l’abbraccio è fondamentale, anche tra amici. Tante volte vengono persone per essere aiutate come coppia, spesso conta più l’abbraccio in cui piangono e si sfogano di tanti discorsi astratti e di tante prediche. A volte non è possibile soprattutto per le persone sole, separate. Ho scritto un libro per i separati, La tenerezza di Dio nel dramma della separazione. Anche i separati hanno bisogno di sentire l’abbraccio di Dio che li ama, li accoglie, al di là della situazione che vivono. Avere persone amiche con cui potersi sfogare e abbracciare, perché no… ma deve essere un abbraccio, vero, puro sincero. Addirittura ci sono gruppi di abbracci gratis per la città… ma quella è una cosa un pochino strana perché abbracciare qualcuno che non si conosce…
Lei scrive che ci vorrebbero dai 4 ai 12 abbracci a giornata!
Mons. Rocchetta: Sì, anche un bambino l’ha detto…
“Quante volte ho desiderato un abbraccio, quell’abbraccio che fa star bene tutto il giorno…” è scritto a p. 116, a proposito di abbracci mancati. È una sorta di grido anche da parte di tanti single, per scelta o per costrizione, che hanno “fame” di abbracci. Che risposta può essere data loro?
Mons. Rocchetta: L’abbraccio di Dio non manca mai. Le sane amicizie ti aiutano un po’ a vivere questo stato di solitudine, specialmente quando c’è stato un vuoto di abbracci, un vuoto di tenerezza. Alla casa della Tenerezza abbiamo anche corsi per i singoli.
Tempo fa ho incontrato una persona consacrata che dopo aver letto questo libro mi ha detto che avevo messo il dito nella piaga perché aveva sofferto sempre di mancanza di abbracci allora le ho detto: “sorella, comincia a vivere di abbracci, quelli possibili, perché ti fanno stare bene”, purché siano abbracci sinceri, veri, senza malizia, senza altro scopo che fare star bene l’altro e stare bene. Non c’è una ricetta, però ognuno deve trovare il suo modo, soprattutto chi ha sofferto di vuoti affettivi.
Con la questione della pedofilia oggi anche un abbraccio, una carezza, può essere mal interpretato.
Mons. Rocchetta: È una questione delicata e bisogna stare molto attenti anche per la malizia della gente. Bisogna vedere caso per caso ed è necessaria una certa maturità. San Francesco e Santa Chiara qualche abbraccio purissimo se lo sono dato. Bisogna evitare gli eccessi: due che si danno la mano a chilometri di distanza oppure abbracciare persone che non si conoscono o senza valutare bene la situazione. Nel capitolo sull’abbraccio terapeutico, dico che deve avere certe condizioni, se ci si accorge che sta prendendo una dimensione sbagliata, il terapeuta deve subito ridimensionarsi e fermarsi. Ci vuole un minimo di maturità, ma questo non è un motivo per dire “allora dobbiamo allontanarci un chilometro, sennò chissà che paura”. Gesù ha abbracciato, non ha avuto paura ad abbracciare. È bello che ci si abbracci con molta prudenza e con molta maturità, senza lasciarsi andare ma nemmeno avendo paura perché la paura non serve niente. Non a caso Papa Francesco ha detto “non abbiate paura dell’abbraccio e della tenerezza”. Lui parla molto dell’abbraccio e abbraccia molto, handicappati, bambini, nelle piazze. Quando ha abbracciato l’ handicappato è stata una cosa straordinaria che è rimasta impressa. Specialmente per le persone sole e per bambini disturbati, un abbraccio forte che faccia sentire accolto è un dono.
Una cosa che mi è molto piaciuta è questo ricondurre sempre alla corporeità, l’abbraccio come corpo…
Mons. Rocchetta: Sì, noi siamo il nostro corpo, Giovanni Paolo II ha dedicato quattro anni interi alla corporeità dal 1980 al 1984, noi abbiamo dimenticato questa riscoperta della corporeità. Corporeità significa tutta la persona in quanto vive in un corpo, compresa l’anima, l’intelligenza, la volontà. A suo tempo ho scritto un libro, Teologia della corporeità: se si riuscisse a ripubblicarlo sarebbe utile perché ho l’impressione che sia stato dimenticato l’insegnamento di Giovanni Paolo II.
A proposito di abbracci distorti siamo in una società che sembra permetter tutto: amori “liberi”, relazioni mordi e fuggi, abbracci “sponsali” fuori dal matrimonio, separazioni, divorzi…
Mons. Rocchetta: Viviamo in una cultura sessuo-erotica che valorizza il sesso e non la tenerezza. Un tempo c’era il tabù del sesso adesso c’è il tabù della tenerezza. Fin da piccoli siamo educati all’eros, al sesso e non alla tenerezza, all’affettività, allo scambio vero sincero. Questa è la grande svolta. Anche il Papa parlava della rivoluzione della tenerezza e bisogna veramente reimpostare il discorso: prima viene la tenerezza, l’affetto e poi tutto il resto, la corporeità, la sessualità. Oggi invece tutto questo si è capovolto: è tutto sesso. I ragazzi dicono “fare sesso” ed è un’espressione odiosa, perché è qualcosa di davvero materiale e fisica, mentre bisognerebbe essere educati da quando nasciamo alla tenerezza verso se stessi, verso gli altri verso il creato, verso Dio. Si tratta di portare avanti una nuova cultura attraverso un’educazione alla tenerezza che va fatta a livello di maturità affettiva di accettazione delle proprie emozioni e dei propri sentimenti. L’abbraccio è una delle componenti, non l’unica.
C’è il tabù della tenerezza e non il tabù del sesso e questo non è positivo come certamente non era positivo il tabù del sesso. Il tabù della tenerezza significa avere paura dei sentimenti, della propria affettività, del mondo affettivo che ci caratterizza. Siamo il nostro corpo, ma siamo anche i nostri sentimenti e la nostra affettività che va orientata e canalizzata in senso verticale e in senso orizzontale, proprio come nella croce. A me piace molto il simbolo della croce perché coniuga orizzontalità e verticalità. Il nostro corpo ha questa struttura verticale-orizzontale: il capo in alto, le braccia che si aprono all’incontro, all’ abbraccio. Il nostro mondo affettivo ha bisogno dell’affettività come apertura all’altro da sé ma anche come dimensione e nostalgia dell’infinito.
Questi aspetti li ho approfonditi in altri testi: Viaggio nella tenerezza nuziale, Le stagioni dell’amore sul Cantico dei cantici, e per i giovani Conosci te stesso (edizioni Porziuncola di Assisi), che può esser molto utile, per quella deriva di cui si parlava, il sesso che passa e il non sapere vedere oltre e questo è un grande danno.