Riprendiamo di seguito l’omelia tenuta da mons. Enrico dal Covolo, Rettore Magnifico della Pontificia Università Lateranense, nella Messa di inaugurazione dell’Anno accademico dell’Accademia Alfonsiana, celebrata ieri, 15 ottobre 2013, memoria di santa Teresa d’Avila.
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Letture:
Romani 6,3-14; Giovanni 15,1-8.
1. Rimanete in me, e io in voi.
Il verbo rimanere (in greco ménein) ritorna sette volte nei pochi versetti di Giovanni che abbiamo appena ascoltato.
Ménein è un verbo che ha molti significati. Può significare “risiedere”, “soggiornare”, “alloggiare”. Ma nel quarto Vangelo questa è solo la superficie del verbo. Nel vocabolario giovanneo ménein – qui ripetuto con frequenza martellante – assume un profondo significato teologico: più che indicare l’ambiente materiale, indica l’ambiente esistenziale e personale in cui uno abita. E’ un termine-chiave, che esprime la più profonda comunione con Gesù. La sua parola-testamento agli apostoli, nei discorsi della cena, è proprio questa: Rimanete nel mio amore (15,9). Ma egli, il Maestro, è colui che, fin dal principio, rimane verso il grembo del Padre (1,18), cioè in una tensione inesausta d’amore verso di lui.
Ecco dunque dove risiede Gesù. Ecco dove sono chiamati a risiedere i santi: nell’Amore stesso che lega tra loro, da sempre, il Padre e il Figlio.
“Tutta la santità e la perfezione di un’anima consiste nell’amare Gesù Cristo nostro Dio, nostro sommo bene e nostro Salvatore” – ha lasciato scritto sant’Alfonso nella sua Pratica di amare Gesù Cristo –. “Chi ama me, disse Gesù medesimo, sarà amato dall’eterno mio Padre” (cap. 1, nn. 1-2).
E’ questa, come ci è ben noto, l’avventura mistica di santa Teresa, che oggi celebriamo. Possiamo dire che Teresa è Dottore della Chiesa proprio per il suo rimanere, intimo e tenace, nell’Amore di Dio. “La cosa più importante” – diceva – “è non pensare troppo, e amare molto. Per questo motivo, fate ciò che più vi spinge ad amare”.
Mica male per noi universitari, che vorremmo spiegare tutto con la ragione!
2. Ma non è tanto su questo brano evangelico che voglio fermare adesso la vostra attenzione. Vorrei proporvi invece una sorta di lectio del brano di Paolo ai Romani, che abbiamo ascoltato nella prima lettura: una lectio che si colloca sulla linea della morale alfonsiana, rivisitata – nello spirito del Concilio – dal padre Bernhard Häring. Lo ricordiamo qui, nella comunione dei santi, a quindici anni dalla sua scomparsa.
3. Sulla via di Damasco Saulo, il persecutore, incontra il Risorto.
E’ un incontro che gli cambia la vita. A Damasco, infatti, Paolo comprende che la salvezza è un evento di grazia, totalmente legato alla Persona di Gesù Cristo.
Di conseguenza, il “Vangelo” che Paolo annuncia nelle sue Lettere – e che in maniera più argomentata espone nella Lettera ai Romani – è precisamente questo: solo il Cristo crocifisso e risorto è la via della nostra salvezza, non certo la legge degli Ebrei, e neppure la sapienza dei Greci. E’ questo il Vangelo che Paolo dovrà difendere per tutta la sua vita.
Ma non era sufficiente difendere la “lieta notizia” di fronte ai molteplici tentativi di svuotarla. Occorreva situarla nella storia della salvezza, tutta intera, Antico e Nuovo Testamento insieme, e declinarla nell’esistenza concreta del credente: perché questa “lieta notizia” sembra smentita proprio dalla storia e dalla stessa esperienza cristiana, tutt’e due segnate ancora dalla triste eredità del peccato.
Ecco il problema. Gesù Cristo è morto ed è risorto per noi; il battesimo ci ha incorporati nella sua vita, che è definitivamente salvata dalla morte; il cristiano è un “santo”, che vive la vita stessa di Dio. D’altra parte, però, il cristiano esperimenta una realtà quotidiana di debolezza, tanto da sembrare ancora sottomesso alle condizioni del vecchio mondo, sotto l’obbligo e la necessità della lotta morale, nonostante la salvezza ormai raggiunta.
Insomma, certamente la salvezza ci è stata donata; ma l’esperienza reale sembra smentire questa gioiosa affermazione.
Di qui il dilemma: o la salvezza è un fatto compiuto, e allora non c’è più posto per il duro conflitto morale; oppure la lotta prosegue inalterata, e allora c’è da chiedersi a che cosa si riduce la vittoria della vita nuova, che ci è stata donata.
4. I capitoli quinto e sesto della Lettera ai Romani riflettono su questo problema complesso.
Alla fine di tutto, per quanto la risposta di Paolo possa sembrare paradossale, essa rimane esattamente in linea con il nucleo fondamentale della predicazione di Gesù. Inaugurando la sua predicazione, infatti, il Maestro affermava: “Il Regno di Dio è qui: convertitevi e credete al Vangelo!” (Marco 1,15); e Paolo, in buona sostanza, traduce così: “La salvezza è concretamente assicurata; colui che è salvato deve effettivamente lottare”.
In questo breve brano – ritagliato dal capitolo sesto della Lettera ai Romani – Paolo ha davanti un’immagine fondamentale: su di essa conviene fermare la nostra meditazione.
Questa immagine è legata alla celebrazione del sacramento del battesimo, visto come partecipazione – simbolica e insieme efficace – alla morte e alla risurrezione del Signore. E’ un’immagine che verrà ripresa largamente dai Padri della Chiesa.
Attraverso l’immersione nella vasca battesimale – simile in qualche modo alla sepoltura – il cristiano muore al peccato: così egli si unisce intimamente alla morte di Cristo, che ha espiato le nostre colpe, e che ci ha riconciliati con Dio.
Poi, con l’emersione, il battezzato partecipa alla risurrezione del Signore ed entra nella vita nuova, per “camminare” in questa stessa vita.
Questo inizio e questo cammino procedono verso un traguardo non ancora raggiunto, nel quale dobbiamo credere e sperare: un cammino sostenuto pedagogicamente dalla grazia di Dio. Il suo traguardo è la risurrezione gloriosa, che si manifesterà pienamente alla fine dei tempi. Solo allora sarà completata la rassomiglianza del battezzato al Cristo risorto, inaugurata appunto dal battesimo.
Come si vede, appare anche qui la dialettica caratteristica di Paolo, e neotestamentaria in genere, tra il già e il non ancora.
5. Fin qui Paolo è rimasto sul versante dell’indicativo della salvezza.
Egli procede infatti a lavorare su questa immagine del battesimo per spiegare ai cristiani la “lieta notizia”, che riempie di gioia la loro vita. Partecipando con il battesimo alla morte di Cristo, il cristiano deve essere certo: l’uomo vecchio è stato crocifisso; il corpo del peccato è stato distrutto; l’ultimo nemico, la morte, è stato sconfitto dalla risurrezione. La vita nuova è già iniziata, e cammina verso la mèta gloriosa. L’azione di grazia della Chiesa sostiene e accompagna questo cammino.
6. Ma poi Paolo aggiunge: “Consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù!”. Qui entra decisamente l’imperativo morale, che però rimane agganciato all’annuncio della salvezza, e lo sostiene efficacemente.
Se stai camminando verso la mèta gloriosa – questo è il ragionamento di Paolo –, non puoi più tornare indietro: devi procedere in maniera coerente alla morte-risurrezione del Signore, e al progetto di vita che ne consegue.
E’ proprio con il comportamento morale che il cristiano manifesta fino a che punto la sua morte e la sua risurrezione con Cristo sono diventate in lui una realtà. E’ con la sua co
ndotta di vita che egli manifesta quanto agisca in lui la grazia del battesimo, attraverso l’immersione e l’emersione in Cristo.
Perciò Paolo esorta i Romani a vivere in conformità con il loro battesimo, a non ricadere sotto il giogo del peccato, a non tornare ad essere schiavi. Egli insiste, molto concretamente, sulla necessità di usare le membra del corpo come “armi di giustizia”, al servizio di Dio.
Ecco la lotta caratteristica dell’esistenza cristiana. Di fatto il peccato – benché sconfitto dalla morte e dalla risurrezione di Cristo, che inaugurano il cammino della vita nuova – conserva un suo triste potere, e cerca di riappropriarsi degli uomini passando attraverso le membra del loro corpo: esse rimangono ancora esposte alla cupidigia, al desiderio sfrenato, alla prepotenza delle passioni.
7. Finalmente, interroghiamoci con coraggio, come ogni buona lectio prevede.
* Coltivo, nella preghiera e nella vita, la grazia dell’incontro con Gesù, per incorporarmi efficacemente a lui?
Per ogni discepolo c’è una strada di Damasco, come per ogni discepolo ci sono le quattro del pomeriggio, di cui parla Giovanni nel primo capitolo del suo Vangelo: “Erano circa le quattro del pomeriggio…” (Giovanni 1,39).
Giovanni, come Paolo, non può dimenticare il suo primo incontro con Gesù, che gli si è inciso nel cuore e gli ha cambiato la vita.
Il discepolo è un innamorato di Cristo, e solo così può seguirlo fino alla croce.
* Coltivo questo “invaghimento” del cuore con una preghiera “che non si esprime soltanto in invocazioni di aiuto, ma anche… in ardore di affetti” (Novo Millennio Ineunte, 33)?
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Concludiamo la nostra lectio con una giaculatoria, che – mentre rivela una consonanza spirituale profonda tra due illustri convertiti della Chiesa, Paolo di Tarso e Ignazio di Loyola – ci conferma, come discepoli, nell’impegno di seguire il cammino del Maestro, e la vita nuova in lui: “Che io ti conosca intimamente, o Cristo”, implorava sant’Ignazio, “e tuo compagno nella Passione possa risorgere con te…”.
+ Enrico dal Covolo