Tra i primi commentatori all’intervista a Papa Francesco pubblicata su La Civiltà Cattolica, non sono mancati quanti hanno letto le sue parole come il segnale di una significativa discontinuità nel modo con il quale l’attuale Pontefice sembra misurarsi con il complesso dei problemi che – di solito – vengono raccolti sotto il titolo di «questione antropologica». Sembrerebbe, infatti, di trovarsi di fronte ad un certo congedo da una speciale attenzione data alla difesa e promozione dei cosiddetti «valori non negoziabili», centrale negli interventi sia di Giovanni Paolo II che di Benedetto XVI.
Una simile chiave di lettura appare perlomeno affrettata, se non addirittura veicolo di un approccio agli interventi papali non scevro da qualche pregiudizio.
La cronaca recente di diversi dibattiti storico-teologici a proposito del cammino della chiesa contemporanea sta a dimostrare con chiarezza quanto il registro continuità-discontinuità sia molto difficile da maneggiare, sempre esposto a produrre semplificazioni e riduzioni dannose per una positiva comprensione di molti eventi centrali nella vita ecclesiale del nostro tempo, in primis il Vaticano II.
Se ci si volge a considerare i diversi Papi succedutisi a partire dagli anni ‘50 del secolo scorso, è lampante l’accento di novità e di originalità che ciascuno di essi ha espresso nell’esercizio del ministero petrino, senza che tale fatto possa in alcun modo giustificare incongrue opposizione tra l’uno e l’altro.
Basterebbe riandare alla modalità con la quale Paolo VI ha valorizzato e abbracciato il cuore del magistero di Giovanni XXIII e come Giovanni Paolo II espresse in maniera non formale il suo debito al Papa che portò a termine l’impresa del Concilio.
Allo stesso tempo la figura ecclesiale di tutti e tre questi pontefici emerge dotata di una peculiare singolarità: se la si esamina usando il registro della “discontinuità” non solo la si stravolge, ma se ne impedisce una fruttuosa recezione nel tessuto della vita della comunità cristiana.
Per questa ragione risulta metodologicamente un poco stucchevole il gioco del paragone tra Benedetto XVI e l’attuale Pontefice: registrare delle differenze è banale, leggerle in chiave di opposizione svela qualche pregiudizio di troppo.
Volendo entrare nel merito della «questione antropologica», si può ricordare che nel tradizionale discorso alla Curia romana per gli auguri natalizi del 2012, Benedetto XVI ha sviluppato un’ampia riflessione sul tema della famiglia e delle problematiche legate alla messa in discussione dell’oggettività della distinzione sessuale, sullo sfondo delle teorie del gender.
Particolarmente illuminanti sono le parole con le quali si articola sinteticamente il giudizio della fede su tali problematiche: «Dove la libertà del fare diventa libertà di farsi da sé, si giunge necessariamente a negare il Creatore stesso e con ciò, infine, anche l’uomo quale creatura di Dio, quale immagine di Dio viene avvilito nell’essenza del suo essere. Nella lotta per la famiglia è in gioco l’uomo stesso. E si rende evidente che là dove Dio viene negato, si dissolve anche la dignità dell’uomo. Chi difende Dio, difende l’uomo».
Lo squisito orizzonte rivelato, che il Papa aveva evocato in precedenza richiamando la narrazione biblica della creazione della coppia originaria, viene ribadito con forza come fondamentale chiave di lettura di una corretta antropologia dell’uomo e della donna fino a concludere che è impossibile cogliere adeguatamente la dignità dell’esistenza umana al di fuori di un chiaro orizzonte teologico.
Nella stessa occasione Benedetto XVI ha ritenuto opportuno porre l’accento sulla centralità dei ben noti “valori fondamentali, costitutivi e non negoziabili dell’esistenza umana ”.
È interessante osservare il contesto prossimo nel quale questo richiamo è collocato: si tratta del “dialogo con lo Stato e la società”. Si può agevolmente comprendere che tali valori non possono essere intesi come esaurienti dell’annuncio cristiano sulla vita dell’uomo, ma esprimono alcuni tratti forti dell’antropologia cristiana, per quella parte che essa può essere accolta e fatta propria da una cultura che si ponga in dialogo aperto e non pregiudiziale con l’esperienza della fede, sostenuto da un intelligente razionalità.
Se comprendiamo bene il senso di questo intervento pontificio, risultano piuttosto incomprensibili le riserve elevate nei confronti di Papa Francesco, quando ha ritenuto necessario precisare che: «Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. Questo non è possibile. Io non ho parlato molto di queste cose, e questo mi è stato rimproverato. Ma quando se ne parla, bisogna parlarne in un contesto. Il parere della Chiesa, del resto, lo si conosce, e io sono figlio della Chiesa, ma non è necessario parlarne in continuazione».
Si tratta infatti, senza nulla togliere al valore di questo ambito del dirsi pubblico della Chiesa nel mondo, di evitare che si possa – anche inconsapevolmente – ridurre il contenuto dell’annuncio e della testimonianza cristiana all’uomo ai suddetti “valori non negoziabili”: ciò non conduce di certo a negare la loro importanza e il loro obiettivo valore sociale, culturale e politico.
Pare alquanto pretestuoso volere vedere in queste parole dell’attuale Pontefice una presa di distanza dai suoi Predecessori; semmai esse interagiscono dialetticamente con quei ambienti culturali che hanno corso il pericolo di ridurre il magistero pontificio degli ultimi decenni ad istanze dal rinnovato sapore intransigente, più facilmente spendibili in taluni dibattiti culturali e politici, soprattutto in ambiente anglosassone.
Una lettura più pacata dell’intervista di Papa Francesco può, invece, aiutare a cogliere quanto sia ancora necessario assumere senza riserve la prospettiva pastorale tipica del magistero del Vaticano II. I Padri conciliari hanno trasmesso alla vita della Chiesa che la sfida di un rinnovato incontro con il mondo contemporaneo sollecita a collocarsi in un orizzonte irriducibile sia al momento istituzionale del corpo ecclesiale sia ad un più convincente edificio teologico.
Il Concilio, infatti scelse un atteggiamento di dialogo e valorizzazione della vicenda umana della contemporaneità, nella convinzione che ciò fosse necessaria ad una rigenerazione della vita e della missione della chiesa, scorgendovi uno specifico appello dello Spirito. La lettura della realtà e della storia si accompagnava alla decisione di esprimersi in un linguaggio ed uno stile positivo e propositivo, capace di fare rinascere un interesse e un fascino per l’annuncio cristiano. La Chiesa è dunque invitata a prendere posizione di fronte alla storia e al suo presente, riconoscendo in questo la forma con la quale Dio la chiama ad essere fedele alla sua identità apostolica.
L’orizzonte evocato dalle parole di Papa Francesco approfondisce e rilancia questa indicazione di cammino, con un accento di novità che deve essere custodito con speciale attenzione.
È ben noto che le fatiche vissute dalla Chiesa post-conciliare sono state in varia misura addebitate proprio a quell’atteggiamento di apertura dialogica che ha contraddistinto la stagione del Vaticano II. Talvolta si è auspicata una certa presa di distanza da quella sensibilità, affinché, così procedendo, la comunità ecclesiale possa ritrovare le ragioni e le capacità per un efficace superamento degli elementi di crisi che ne segnano la vita.
Nello stesso tempo non si può dimenticare che il mondo contemporaneo in questi cinquant’anni è profondamente mutato. Nella sua complessità, spesso tragica, esso non sembra avere recepito la volontà dialogica dei cristiani, anzi pare muoversi in direzioni che accentuano il suo profilo di distanza, quando non di esp
licita conflittualità con il sentire cristiano. Non mancano accenti di aperta ostilità e, soprattutto, di intolleranza ogni qual volta la Chiesa si ponga fuori dai confini di uno stucchevole politically correct e non abbia paura di ricordare la singolare pretesa salvifica del Suo Signore.
Che in questa temperie storica il Papa rilanci le comunità cristiane in un incontro a tutto campo con l’umano, in un impeto di testimonianza e condivisione del dramma dell’esistenza di ogni fratello, non solo esprime un’intensa immedesimazione all’eredità più preziosa del Vaticano II: ancora di più si manifesta quasi un nuovo “inizio”, messo in campo in circostanze certamente più complesse e drammatiche, ma insieme dense di provocazione per la vocazione e la missione di ogni cristiano.
Don Gilfredo Marengo è docente stabile di Antropologia teologica presso il Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per studi su Matrimonio e Famiglia – Roma.