La bozza del nuovo codice deontologico, offre alla lettura una sessione nuova di zecca dedicata alla “medicina potenziativa”. All’articolo 76 si legge che quando l’applicazione nella medicina delle tecniche più avanzate è volta alla intenzionale modifica e potenziamento del naturale funzionamento psicofisico dell’uomo, “Il medico che opera in tali ambiti impronta il suo agire, sia nella ricerca che nell’esercizio professionale, ai principi di precauzione, di proporzionalità e di rispetto dell’autodeterminazione della persona, sempre sulla base del consenso informato e garantendo l’equità, la sicurezza e l’uguaglianza dell’accesso, la pertinenza e la finalità sanitaria delle prestazioni, nel quadro dell’alleanza terapeutica con la persona”.
Per i non esperti della materia, la commissione deontologica ha in questo articolo affrontato il tema del cosiddetto enhancement, inglesismo variamente tradotto in italiano coi termini di “potenziamento”, “incremento”, “aumento”, “miglioramento”. Si tratta di un settore della riflessione bioetica decisamente di nicchia e ancora oggi largamente proiettato nel futuro.
Compito della deontologia, come ha scritto il prof. Francesco Introna, è definire il comportamento responsabile del medico in ogni atto della condotta professionale. Idealmente l’articolo in questione dovrebbe consentire la censura per violazione dei doveri professionali di quel medico che avesse compiuto un atto finalizzato a potenziare una specifica funzione del paziente (o per dirla col nuovo codice, della persona assistita).
A questo punto sorge una domanda: Abbiamo tutti ben chiaro che cosa intendere per enhancement? E soprattutto, siamo tutti d’accordo? Un minimo di analisi della letteratura specialistica consente facilmente di prendere atto che la questione è tutt’altro che giunta a definizione. Valga per questo quanto affermato dal gruppo di studio europeo STOA secondo cui “Tutti i tentativi di usare la distinzione terapia-enhancement per delineare i trattamenti medici dal potenziamento umano e per restringerne la nozione alle pratiche non mediche sono problematici”.
Lo stesso organismo ha utilizzato la cornice concettuale dello spettro comportamentale che riconosce ad un estremo il trattamento di una patologia o di una lesione volta ad ottenere la completa guarigione (trattamenti non potenziativi), all’impiego, sul versante opposto, di metodi non medici volti ad ottenere ogni tipo di potenziamento. In questo schema trattamenti che superano accidentalmente o intenzionalmente la condizione di partenza, posta come patologia oggettiva, disagio soggettivo, o limite ambientale, sono identificati come forme più o meno avanzate di enhancement.
Nel dibattito è stato distinto tra un potenziamento quantitativo e qualitativo, un potenziamento temporaneo e uno definitivo. Nell’articolo del codice non viene data una definizione, fatto che, se da un lato rispecchia l’incertezza a cui abbiamo accennato, diventa assai pericoloso perché trasferisce l’indeterminatezza dell’oggetto alla condotta del medico da giudicare, aprendo una pericolosa breccia a difformità interpretative e sanzionatorie.
Quale controllo logico-giuridico si potrà infatti riservare ad un giudizio e un procedimento fondato su premesse così indeterminate e nebulose? È indubbio che gli estensori della bozza deontologica abbiano voluto comunque aprire la porta alla possibilità di introdurre condotte di potenziamento da parte dei medici italiani. Certo, c’è un tentativo apprezzabile di mitigare la novità nel ricorso ai concetti di proporzionalità, precauzione, rispetto dell’autodeterminazione, sicurezza, uguaglianza, pertinenza e finalità sanitaria, ma si tratta di una nebulosa concettuale dai contorni così sfumati da non tranquillizzare.
Chi giudica infatti la proporzionalità dell’intervento? Solo il paziente? Solo il medico? Entrambi? Quali limiti si può dare alla pertinenza sanitaria adottando la nota definizione di salute fornita dall’OMS? Si è ben consapevoli che un intero filone bioetico vede con favore le tecniche di potenziamento aderendo al paradigma scientista per cui ciò che si può tecnicamente fare lo si deve fare perché il progresso è di per sé un bene e non esiste una natura umana se non come frutto dei limiti manipolativi.
Julian Savulescu, direttore di quella rivista che ha pubblicato l’articolo sull’aborto post-nascita di due membri della consulta del professor Mori, non vede impedimenti intrinseci all’applicazione di tecnologie e strumenti potenziativi, lo stesso si può dire proprio per il professor Mori; ci saremmo stupiti del contrario. Si rileva la semplice coincidenza che un dirigente della stessa consulta è stato chiamato a partecipare alla stesura del nuovo codice deontologico.
Senza andare troppo oltre nel futuro, che implicazioni ha un testo di questo genere per la richiesta di sostanze anabolizzanti non assunte a fini di doping sportivo, ma per tutelare ad esempio un’immagine più soddisfacente e “salutare” di sé? E che diranno i medici di fronte alla richiesta di preparati volti ad aumentare l’attenzione o ridurre il sonno a fronte di necessità lavorative? Superare un esame o un concorso, riuscire ad effettuare un doppio lavoro non sono forse tutti obiettivi in possibile connessione con uno stato di completo benessere psichico e sociale?
Questi scenari non possono non fare riflettere la classe medica, in particolare i medici di medicina generale, sul possibile impatto sulla prospettiva olistica degli interventi medici esercitato da un’apertura al potenziamento di organi e apparati. Non si può inoltre non riflettere sul potenziamento biotecnologico come possibile minaccia al principio di uguaglianza che l’universalità dell’accesso alle cure ha fino ad oggi servito.
Si tratta di argomenti contrari alla medicina potenziativa esposti con lucidità da personaggi del calibro di Francis Fukuyama, Hans Jonas, Leon Kass. Quali considerazione hanno ricevuto in sede di elaborazione del testo? Sono stati dibattuti? Tutti concordi nel rigettarli? Si ha l’impressione che l’introduzione in ambito deontologico della previsione di medicina potenziativa nei termini dell’articolo uscito dalla commissione deontologica sia un atto prematuro e lievemente velleitario, di cui auspicare il ritiro, almeno fino a quando la riflessione non sia giunta ad un livello più avanzato.