Mohamed Helmy: il primo arabo Giusto tra le Nazioni

Condannato dalle leggi razziali, il medico egiziano salvò numerosi amici ebrei

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Viveva a Berlino il medico egiziano Mohamed Helmy, che insieme alla fidanzata Frieda Szturmann, poi diventata sua moglie, salvò dall’olocausto un’intera famiglia di ebrei, facendoli rifugiare in un capannone di sua proprietà. È il caso commovente e unico del primo arabo riconosciuto Giusto tra le nazioni da Israele, dove lo Yad Vashem è alla ricerca dei familiari per la consegna della medaglia, a pochi giorni dallo stesso riconoscimento attribuito alla leggenda del ciclismo italiano Gino Bartali.

“Non appartenendo alla razza ariana, non aveva il diritto di esercitare nella sanità pubblica, né di sposare la fidanzata tedesca”, riporta l’Ente nazionale per la Memoria della Shoah, per questo motivo il dottor Helmy venne fatto licenziare dall’Istituto Robert Koch, dove lavorò fino al 1937; il medico fu poi arrestato nel 1939 e rilasciato dopo un anno per motivi di salute.

Definito ‘camita’ – ovvero, discendente di Cam, figlio di Noè – dalle leggi razziali in quanto nativo di Karthoum, Helmy non si rassegnò a denunciare le politiche sanguinarie dei nazisti nonostante fosse nel loro mirino, e si batté per aiutare i suoi amici ebrei.

“Gli sarò grata per l’eternità”, dichiara Anna Boros, allora ventunenne, amica di famiglia, nascosta nel capanno nei sobborghi di Berlino: ogniqualvolta si avvicinava il pericolo, veniva ospitata da amici del dottore passando come una cugina di Dresda. Anche la madre di Anna, Julie, la nonna Cecilie Rudnik e il patrigno George Wehr furono aiutati allo stesso modo, e quando il patrigno, caduto nelle mani dei nazisti, rivelò sotto tortura dove si nascondeva la figliastra, il medico la trasferì nella casa della fidanzata, anche lei Giusto tra le nazioni. Davanti alla polizia tedesca Helmy sfoderò una lettera nella quale Anna aveva scritto prontamente che si trovava insieme a sua zia a Dessau. Dopo la guerra la donna emigrò negli Stati Uniti e le sue lettere inviate al Senato di Berlino, sono state rinvenute di recente a testimonianza dell’eroismo di coloro che per salvarla avevano rischiato la vita.

Sottoposte al Comitato dei Giusti di Yad Vashem, e in attesa di essere sottratte al dimenticatoio, ci sono le vicende di altri arabi che si spesero per gli ebrei durante gli anni del secondo conflitto mondiale: Taïeb el-Okbi, leader musulmano riformista in Algeria; Mohammed Chenik, che salvò molti ebrei rinchiusi nei lager nella Tunisia occupata dai nazisti; l’algerino Si Kaddour Benghabrit, imam della Moschea di Parigi, che nascose tantissimi ebrei facendoli figurare come musulmani; Khaled Abdelwahab, che salvò una donna ebrea da un tentativo di violenza e la nascose con tutta la famiglia nella propria fattoria fino alla fine dell’occupazione tedesca in Tunisia; Si Ali Sakkat, che diede asilo nella propria tenuta a sessanta ebrei in fuga.

Se ad alcuni musulmani, che conservano la memoria dei salvataggi durante l’Olocausto, accade oggi di essere emarginati dalle proprie comunità, la medaglia a Mohamed Helmy è un passo storico che contribuisce a scardinare pericolosi stereotipi spesso alla base dei precari equilibri politici in Medio Oriente.  

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Maria Gabriella Filippi

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