Dolore: reazione spiacevole legata ad un attacco all’integrità del corpo, che coinvolge parti in cui sono presenti recettori del dolore collegati al sistema nervoso centrale da fibre nervose attive. Il dolore è un evento da contrastare e prevenire, ed è un segnale da non sottovalutare mai. Il dolore va differenziato dalla sofferenza che è uno stato spiacevole per la mancata realizzazione di desideri ed aspirazioni, talora ma non sempre dovuto al dolore fisico.
Realismo
Il termine viene dalla radice sanscrita “Dor” che vuol dire “spezzare”. Ma definire il dolore è sempre stato arduo. La International Association for Study on Pain lo definisce come “una sensazione spiacevole riferita ad un danno presente o possibile ad un tessuto del corpo”. Non è una definizione soddisfacente, perché presuppone la “capacità di riferire” e la coscienza delle parti del corpo; quindi lascia chi non ha coscienza o memoria fuori di questa definizione; inoltre non fa distinzione tra dolore e sofferenza. Dobbiamo distinguere dolore e sofferenza, perché il primo è riferito al fisico, mentre la seconda al nostro aspetto morale. E possiamo definire “dolore” la risposta ad un attacco alla nostra integrità fisica”, che arriva alla possibilità di essere percepita da noi, mentre “sofferenza” è “la risposta da noi percepita ad un attacco alla nostra integrità personale”. La seconda può essere causata dal dolore ma anche altre situazioni possono determinarla. Il dolore è fattore positivo talvolta, perché serve a svelare malattie e a fuggire stimoli negativi. ma in sé è un nemico da combattere, e medici e infermieri hanno il compito di considerarlo come un “segno vitale” da considerare, conoscere e combattere, senza timore. Per contrastare il dolore nella sua totalità, dobbiamo considerare non solo chi il dolore lo percepisce, ma anche l’ambiente e chi è chiamato a curarlo: la persona che percepisce il dolore e chi deve contrastarlo devono essere entrambi parti attive. Il primo, essendo sincero nel mostrare i segni del dolore (o la sua assenza), il secondo nel prevenirlo prima ancora che attendere l’arrivo dei segni; soprattutto essendo consapevoli che il dolore del personale curante si riflette su chi viene curato, quindi per un corretto trattamento del dolore del paziente dobbiamo curare anche il dolore (il lutto, la sofferenza, lo stress) di chi cura. Sostanze in grado di combattere il dolore possono avere impieghi negativi come stupefacenti, ma non per questo, in mancanza di valide alternative, si deve evitare di usarle come antidolorifici. Non per questo, tuttavia, si deve passare alla falsa conclusione che una sostanza con effetti negativi euforizzanti (morfina, marijuana) che magari ha un’utilità usata in campo medico contro il dolore, diventi una sostanza in toto “buona”, e quindi da usare come si vuole e quando si vuole.
La ragione
Cosa ci colpisce del dolore? Che sentiamo che è un mistero ingiusto. Certo, ne troveremo anche l’utilità in certi casi, perché se non si sentisse dolore non si cercherebbe nemmeno la cura. Per questo abbiamo un obbligo morale soprattutto verso chi non può reclamare per farlo sparire, in particolare persone con difficoltà di espressione (feti, disabili mentali), o persone che per motivi economici non hanno completo accesso a tutte le pratiche antidolorifiche. Il dolore ovviamente può esser causa di sofferenza, ma dobbiamo star attenti a non confonderli per evitare di trattare con farmaci antidolorifici la sofferenza morale (solitudine, tristezza) e per usare i farmaci antidolorifici in caso di vero dolore fisico, (per il dolore vero non basta un bel discorso o delle attenzioni sociali).
C’è un pregiudizio morale nell’uso di morfina e altri oppioidi? Se c’è va superato, quando lo scopo è togliere il dolore e non c’è dubbio sull’assenza di secondi fini, cioè accorciare la vita o usarli come droga.
Il sentimento
Paradossalmente verso chi soffre si rischia un eccesso di empatia con una tragica conseguenza: sottovalutare per paura o sopravvalutare per ansia il livello di dolore che il soggetto prova. Si può allora diventare cinici di fronte al dolore, sottovalutandolo per non sentirsi eccessivamente e intollerabilmente coinvolti e straziati; o non accettare la presenza di chi soffre e facilitarne la morte – anche quando ci sono ancora possibilità di vita – quando nemmeno si è determinato quanto il dolore è sopportabile e quanto questo durerà, per un transfer delle proprie sensazioni in quelle del paziente. Talvolta siamo noi a non poterne più della vista del sofferente, e non il paziente stesso a non farcela più; ma esistono mezzi oggettivi (scale di valutazione del dolore, misurazione degli ormoni dello stress ecc) per valutare il livello di stress o di sofferenza, anche di chi non si può esprimere e dovrebbero essere ben utilizzati per le decisioni sulla sopportabilità o meno (e dunque sull’eticità) di un trattamento medico.
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