Fede e crisi di senso (Terza parte)

Intervento di mons. Bruno Forte al Congresso Mondiale delle Università Cattoliche

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Riprendiamo la terza e ultima parte dell’intervento tenuto venerdì 19 luglio da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, al Congresso Mondiale delle Università Cattoliche, svoltosi dal 18 al 21 luglio presso la Pontificia Università Cattolica di Minas Gerais (PUC-Minas), a Belo Horizonte, in Brasile.

La seconda parte è stata pubblicata ieri, lunedì 22 luglio.

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3. Quale senso può offrire la fede nel Dio della Bibbia al “villaggio globale”?

a) La fede nel Dio biblico come sorgente di senso

La rivelazione biblica si offre come una possibilità decisiva per definire un tale codice, una vera e propria sorgente di senso per indicare la rotta. Nella prospettiva dell’alleanza d’amore promossa dall’iniziativa divina agli abitatori del tempo, essa riconosce la centralità della persona umana davanti al mistero del Dio vivente come riferimento fondante. Oltre il naufragio, sulle onde della modernità liquida, la barca va costruita insieme, consentendo tutti a regole comuni, certe e affidabili, radicate nella dignità dell’essere personale, nelle esigenze dell’imperativo morale, per navigare insieme sul vasto mare da percorrere verso il porto – intravisto nella speranza e mai pienamente posseduto nella realtà – della pace universale e della giustizia per tutti. L’idea dell’assoluta singolarità dell’essere personale è il baluardo teoretico contro ogni possibile manipolazione dell’essere umano, la sorgente di ogni riconoscimento della sua dignità. Anche la dignità della persona rimanda tuttavia a un fondamento ultimo: a esprimerlo può servire una metafora “solida”, quella della “torre di Babele”. Il capitolo 11 della Genesi descrive l’immagine della confusione disgregante, originata dalla scissione fra il virtuale – immaginato o preteso – e il reale, vissuto e pagato di persona. C’è però anche un altro senso, che sfugge per lo più ai commentatori: lo richiamava già Voltaire, sottolineando come il nome “Babele” voglia dire che “el” – il Dio – è padre. Jacques Derrida ne ricava un’importante conclusione, osservando che Dio punisce i costruttori della torre “per aver voluto in questo modo farsi un nome, scegliersi il proprio nome, costruire da sé il proprio nome… Li punisce per aver voluto così assicurarsi autonomamente una genealogia unica e universale”1. Secondo la metafora biblica non sarà allora l’omologazione delle differenze il futuro dell’umanità, ma la loro convivialità, il loro reciproco riconoscersi ed accettarsi, sul fondamento comune della dignità assoluta di ogni essere umano davanti a Dio, unico signore della storia. Il grande codice che è il Decalogo traduce questo progetto in comandamento, vocazione ed esigenza profonda inscritta in ciascuno per il bene di tutti. Il Dio dell’alleanza non è il concorrente dell’uomo, ma il Dio amico e vicino, che rivela e garantisce la dignità di tutto l’essere umano in ogni persona umana, il Dio trinitario rivelato in Gesù, il Dio che è amore (cf. 1 Giovanni 4,8. 16). Nel Logos divino, fatto carne, è rivelato non soltanto il logos che soggiace al mondo e alla vita, ma anche il progetto di amore di Dio che precede il mondo ed entra gratuitamente in esso (cf. Ef 1,4-5; 3,4-5. 9). Nel villaggio globale, dove si sviluppa il dialogo fra le varie esperienze religiose, l’incarnazione e il mistero pasquale di Cristo offrono un orizzonte totalmente nuovo: quello di un possibile, impossibile amore, impossibile alle forze soltanto umane, reso possibile dal farsi vicino di Dio, il Dio con noi, l’eterno Emmanuele. Testimoniare questo orizzonte fondante, non contro qualcuno ma per amore di tutti, viverlo grazie all’esperienza della presenza del Risorto nel Suo Corpo ecclesiale, è il compito della fede cristiana anche nel tempo del villaggio globale e della necessità non rinviabile di un incontro delle religioni e delle civiltà, rispettoso delle differenze. La testimonianza di Cristo, resa con coraggio “a tempo opportuno e non opportuno” (2 Tm 4,2), offre alla navigazione umana un faro e un aiuto.

b) Per un’etica della trascendenza, della gratuità e della responsabilità.

Vorrei chiudere queste riflessioni passando dalle metafore finora usate alle tesi ad esse sottese, capaci – mi sembra – di motivare la rilevanza della fede biblica per l’intero “villaggio globale” oggi. Si tratta di considerazioni che si muovono sul piano dell’etica, intesa nel duplice senso etimologico di guida della prassi (ἔθoς come “comportamento”, “mos” in latino, “Sitte” in tedesco) e di richiamo al fondamento, su cui essa può e deve misurarsi (ήθoς come “dimora”, “demoratio” in latino, in tedesco “Sitz”). La prima considerazione è che non c’è etica senza trascendenza. Non può esserci agire morale, significativo per sé e per tutti, lì dove non ci sia l’altro riconosciuto in tutto lo spessore della sua irriducibile alterità. La fondazione dell’etica è inseparabile da questo riconoscimento: chi afferma se stesso al punto da negare ogni altro su cui misurarsi, nega la possibilità stessa di una scelta fra bene e male e risolve ogni differenza nell’oceano asfissiante della propria identità. Nessun uomo è un’isola! Al di là delle ideologie e dei totalitarismi dell’epoca moderna c’è bisogno di un’etica della prossimità e della relazione interpersonale: i naufraghi sul grande mare della storia hanno bisogno l’uno dell’altro per assemblare le tavole cui sono aggrappati! La conseguenza esistenziale di questa tesi è che non c’è etica senza gratuità e responsabilità. Il movimento di trascendenza ha un carattere gratuito e potenzialmente infinito: calcolare con l’altro al fine di un proprio interesse è svuotare di ogni valore la scelta morale, facendone semplicemente un commercio o uno scambio tra pari. Qui la lezione di Kant conserva tutta la sua verità: l’imperativo morale o è categorico, e dunque incondizionato, o non è. In questo carattere gratuito e potenzialmente infinito della trascendenza etica si coglie come essa sia “un esodo da sé senza ritorno” (Emmanuel Lévinas), e come pertanto la sua anima più profonda sia l’amore, il dare senza calcolo e senza misura per la sola forza irradiante del dono. I naufraghi non si salveranno se non insieme, per un atto di generosità di ciascuno verso l’altro, di tutti verso ciascuno. Il comandamento evangelico della carità mostra qui la sua assoluta rilevanza per il presente e il futuro dell’intero “villaggio globale”.

c) Per un’etica della solidarietà e della giustizia, fondata sul Dio che è amore.

Un’ulteriore considerazione, utile a motivare la proposta della fede biblica davanti alle sfide della crisi in atto, è che non c’è etica senza solidarietà e giustizia. Nel movimento di trascendenza in cui si configura un agire moralmente sensato, si sperimenta la rete degli altri che circonda l’io come sorgente di un insieme complesso di esigenze etiche: contemperarle in modo che il dono compiuto all’uno non sia ferita o chiusura ad altri è coniugare la morale con la giustizia. Regolare in forma collettiva questa rete di esigenze di giustizia è misurarsi sul bisogno del diritto: non l’astratta oggettività della norma, né il dispotismo del sovrano fonda l’autorità della legge, ma l’urgenza di contemperare le relazioni etiche perché nessuna sia a vantaggio esclusivo di alcuni e a scapito della dignità di altri. L’etica della solidarietà integra qui la sola etica della responsabilità, strappandola al rischio sempre incombente di un suo stemperarsi nell’assolutismo infecondo della sola intenzione. Il bene comune è misura e norma dell’agire individuale, specialmente nel campo dei doveri civili. Solo così, la barca po
trà formarsi e navigare verso una rotta condivisa! E questo conduce al riconoscimento decisivo che l’etica (proprio in quanto necessariamente misurata dal rapporto con l’alterità) rimanda all’Altro, trascendente e sovrano, ultimo e assoluto, rivolto verso di noi. Quando si riconosce che il movimento di trascendenza verso l’altro e la rete d’altri in cui siamo posti presentano un carattere di esigenza infinita, all’orizzonte si profila la Trascendenza ultima, di cui quella prossima è traccia e rinvio. Nel volto d’altri l’imperativo categorico dell’amore assoluto mi raggiunge. Nell’assolutezza dell’urgenza della solidarietà con il più debole è un amore infinitamente indigente che mi chiama.

Questa trascendenza assoluta, rivolta verso di noi, questo assoluto bisogno d’amore, che chiama nell’atto stesso d’offrirsi, schiude all’etica teologica: qui l’esigenza dell’essere l’uno-per-l’altro rimanda a una più profonda e sorgiva relazione del Dio vivente, Uno nel reciproco darsi ed accogliersi dei Tre. Qui l’etica della responsabilità e l’etica della solidarietà appellano all’etica della Grazia e alla comunione della Chiesa, cui il dono divino è affidato per essere condiviso e offerto, in particolare alla comunione con chi in essa è chiamato a promuovere e servire l’unità della fede. Qui l’amore penultimo rimanda all’amore ultimo e sovrano, come eterno evento interpersonale dell’unico Dio in tre Persone. Qui, l’autonomia s’incontra con l’eteronomia fondatrice e liberante, e nelle forme dell’essere l’uno-per-l’altro il possibile-impossibile amore viene a narrarsi nel tempo: la carità “non avrà mai fine” (1 Corinzi 13,8). Su di essa si misurerà la verità profonda delle nostre scelte: alla sera della vita saremo giudicati sull’amore! Il porto verso cui indirizzare la barca ricostruita sul mare della storia è il futuro della promessa che alla fine Dio sarà tutto in tutti e il mondo intero sarà la patria di Dio. Questo futuro – di cui la vita teologale è anticipazione e promessa – agisce sull’etica come il magnetismo sulla bussola: l’etica della trascendenza è inseparabilmente etica dell’amore e della speranza, fondata sulla promessa della fede che il Dio dell’alleanza ha acceso nella storia degli uomini. Grazie a questa bussola la barca potrà trovare la rotta, e il mare del tempo – che tocca tutte le sponde del “villaggio globale” – potrà andare infine a tuffarsi nell’oceano dell’eternità. Anche in questo senso vorrei leggere una bella frase, attribuita ad Antoine de Saint-Exupéry:“Se vuoi costruire una nave, non radunare gli uomini per raccogliere il legno, distribuire i compiti e dare ordini, ma insegna loro la nostalgia del mare ampio e infinito”. Se vuoi proporre la fede biblica agli abitatori del tempo di crisi che abbiamo evocato, testimonia la gioia e la bellezza dell’amore, che non avrà mai fine, quell’amore che l’incontro con Cristo, nella comunione della sua Chiesa, è capace di dare senza misura al cuore e alla vita.

Conclusione: “Omnia vincit amor”…

Perché questo amore sia proposto alla complessità delle culture, segnate dalla crisi che attraversa il villaggio globale, è necessario che esso sia detto in dialogo con gli interlocutori, cui viene offerto, ascoltando le loro domande e apprendendo i loro linguaggi. Sta qui la sfida del pensiero illuminato dalla fede in ogni campo del sapere e dell’agire umano: e sta qui il ruolo decisivo che centri d’insegnamento e di ricerca, quali sono in ogni parte del mondo le università cattoliche, potranno svolgere per contribuire efficacemente alla missione della Chiesa e al bene comune dell’intera famiglia umana. È il tempo non solo di una “docta fides”, che dica il Dio cristiano alle donne e agli uomini del nostro tempo, ma anche di una “docta caritas”, che parli di Dio raccontando il Suo amore, offrendo la luce che deriva dalla carità divina ai vari ambiti del vissuto umano. Oltre un aristocratico “amore della sapienza”, quale può a volte essere il sapere colto, occorre una umile e generosa “sapienza dell’amore”, che testimoni la bellezza della Trinità divina e il senso che essa offre alla vita e alla storia, partendo dall’esperienza della carità che spera e della speranza cha ama, più fortemente di ogni abbandono o rinuncia. Proprio così, anche nelle aule dei nostri centri accademici, il Dio che è amore potrà essere proposto come senso affidabile per ciascuno e per tutti. A chi opera nell’insegnamento e nella ricerca scientifica sembrano allora indirizzarsi, più che mai nel nostro tempo e per il “villaggio globale”, le parole dell’Apostolo Paolo: “Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla” (1 Cor 13, 1-2). La ricerca e l’insegnamento illuminate dalla carità evangelica in ogni campo dovranno essere il segno di identificazione dei centri universitari cattolici, se essi vorranno contribuire efficacemente a render presente la fede in Cristo come offerta di luce di fronte alla crisi di senso, in atto nel “villaggio globale”. Anche così, reinterpretando in chiave evangelica il motto virgiliano e applicandolo alla missione delle nostre università e alla sua fecondità nella Chiesa e nel mondo, l’amore potrà vincere su tutto: “Omnia vincit amor”2.

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NOTE

1 Des tours de Babel, in Aut Aut 189-190 (1982) 70.

2 Virgilio, Bucoliche X, 69.

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Bruno Forte

Arcivescovo di Chieti-Vasto

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