Riportiamo di seguito l’editoriale firmato da monsignor Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, pubblicato sull’edizione di domenica 14 luglio del quotidiano Il Sole 24 Ore (pp. 1 e 13).
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È stato Hans Blumenberg a scegliere la metafora del naufragio come strumento interpretativo dell’epoca moderna e della sua crisi (Naufragio con spettatore, Il Mulino, 1985). Perdute le certezze che il positivismo e le ideologie avevano offerto, siamo diventati tutti dei naufraghi, spettatori al tempo stesso del nostro naufragio. Sta qui la differenza fra la crisi del 1929 e l’attuale: allora il mondo delle certezze ideologiche si presentava come la possibilità alternativa alla crisi, una terra ferma da cui guardare l’altrui naufragio.
Oggi, dopo la fine delle ideologie e il crollo del sistema dei blocchi contrapposti, non è più così. La sola possibilità di salvezza sta nel farsi una zattera con i resti della nave naufragata. Proprio così, l’immagine del Pensatore tedesco si schiude sull’orizzonte di un’attesa, che richiama l’affacciarsi di un bisogno collettivo di senso, di etica e di spiritualità. La risposta a questo bisogno è, però, tutt’altro che univoca nel “villaggio globale”: l’immagine del mare mobile, incostante, richiama anzi un’altra metafora, non meno importante per capire dove siamo, quella della liquidità.
A servirsene con singolare flessibilità è il sociologo britannico, di origini ebraico-polacche, Zygmunt Bauman. Nel nostro tempo – egli afferma – “modelli e configurazioni non sono più ‘dati’, e tanto meno ‘assiomatici’; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione… Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il profondo mutamento che l’avvento della modernità fluida ha introdotto nella condizione umana” (Modernità liquida, Laterza, 2002, XIII). Mancando punti di riferimento certi, tutto appare giustificabile in rapporto all’onda del momento.
Gli stessi parametri etici che il “grande Codice” della Bibbia aveva affidato all’umanità, sembrano diluiti, poco reperibili ed evidenti. Si parla di “relativismo”, di “nichilismo”, di “pensiero debole”, di “ontologia del declino”. Mancando un sogno che accomuni tutti, l’individuo annega nella folla delle solitudini, incapaci di comunicare fra loro, e l’ambizione dell’emancipazione cede il posto alla rinuncia al senso del vivere. Questo volto fluido della post-modernità si manifesta in particolare nella volatilità delle sicurezze promesse dall’“economia virtuale” della finanza internazionale, sempre più separata dall’economia reale. Crollata la maschera del massimo vantaggio al minimo rischio, restano le macerie di una situazione fluida su tutti i livelli. Trovare punti di riferimento, indicare linee-guida affidabili è la sfida titanica per governanti e amministratori. Anche l’economia rivela un bisogno urgente di etica.
Nei segnali d’attesa, che vanno profilandosi nella vasta crisi del senso, non mi sembra infondato vedere una sfida e una promessa rivolte alle diverse credenze religiose. Anche le religioni vengono convocate al capezzale dell’“homo oeconomicus”. A loro volta, sfidati dal contesto della globalizzazione, i mondi religiosi avvertono un bisogno nuovo di incontrarsi, di lavorare insieme. Samuel P. Huntington individua la sfida dell’immediato futuro nel volto conflittuale di questo incontro (Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, 1997): dopo le guerre fra le nazioni tipiche del XIX secolo e quelle fra le ideologie proprie del XX secolo, il XXI secolo sarà caratterizzato a suo avviso dal conflitto delle civiltà, identificate con i mondi religiosi che le ispirano. Ciò che occorre verificare, allora, è se e in che misura le religioni potranno giocare un ruolo in vista del superamento del conflitto e per la costruzione di un nuovo ordine internazionale.
Al centro di questa verifica si pongono in particolare il Cristianesimo e l’Islam, non solo per il loro rapporto rispettivamente alla cultura dell’Occidente e a quella dei Paesi arabi, ma anche per la minaccia costituita dall’alleanza fra alcuni ambiti antioccidentali e alcune espressioni integraliste che pretendono di fondarsi sulla fede islamica. Non meno importante per la causa della pace è il ruolo che al suo servizio potranno svolgere l’Ebraismo e le grandi religioni dell’Asia. La sfida è fra due modelli: lo “scontro” o l’“alleanza” delle civiltà e delle religioni. Certo, l’incontro non potrà avvenire per semplice giustapposizione. Alternativa alla barbarie dello scontro totale appare la possibilità del “meticciato”: la confluenza di identità molteplici, dovuta ai flussi migratori in atto, è non meno legata al ravvicinarsi delle lontananze grazie alla comunicazione della rete. È l’esperienza, inedita per i più, dell’incontro fra identità diversissime, fino al configurarsi di identità plurali, nomadi, al tempo stesso assertive e flessibili, meticce.
Il succedersi degli eventi – dal fatidico 1989 all’11 Settembre 2001 e a quel che ne è seguito – mostra il volto drammatico di questa sfida. S’impone una scelta di fondo, a partire dalla consapevolezza che il meticciato è stato sempre presente nella storia dei popoli e delle culture. L’illusione di una purezza dell’identità o della razza è pura follia. Se una cultura è viva e vitale, essa è anche in grado di avviare un processo di mutuo scambio e di reciproca comprensione con l’identità altrui, che venga ad abitarla. Anche a questo ci ha richiamato il viaggio-segno di Papa Francesco a Lampedusa. Certamente, quest’“assemblaggio” non è facile né esente da rischi: ciò che risulta decisivo è che fra persone e culture si riconosca un codice di valori comuni, capace di fondare relazioni di reciproco rispetto, di riconoscimento dell’altro e di dialogo. A quali fonti potrà attingere un simile codice? Su quale rotta potrà procedere la barca assemblata sui mari del grande villaggio? Si profila l’urgenza di un orizzonte etico, che sia riconoscibile da tutti. Ed è qui che la rivelazione biblica mi sembra offra una possibilità decisiva, una sorgente di senso per indicare la rotta.
Nella prospettiva dell’alleanza d’amore promossa dall’iniziativa divina agli abitatori del tempo, essa riconosce la centralità della persona umana davanti al mistero divino come riferimento fondante. Oltre il naufragio, sulle onde della modernità liquida, la barca va costruita insieme, consentendo tutti a regole comuni, certe e affidabili, radicate nella dignità dell’essere personale, nelle esigenze dell’imperativo morale, per navigare insieme sul vasto mare da percorrere verso il porto – intravisto nella speranza e mai pienamente posseduto nella realtà – della pace universale e della giustizia per tutti.
L’idea dell’assoluta singolarità dell’essere personale di fronte al Dio personale – contributo decisivo della rivelazione biblica alle culture dell’umanità – è il baluardo contro ogni possibile manipolazione dell’essere umano, la sorgente di ogni riconoscimento della sua dignità. Sta qui la riserva di senso e di speranza che la proposta della fede biblica ha da offrire alla storia, la ragione profonda della fecondità della presenza dell’identità cristiana nel pluralismo delle opzioni e nel meticciato delle identità.
[L’Autore anticipa qui alcuni contenuti della relazione che terrà il prossimo 19 Luglio al Congresso Mondiale delle Università Cattoliche a Belo Horizonte in Brasile, sul tema: “Fede e crisi di senso”]