In una società aperta, nella quale i legami sono inevitabilmente – e per alcuni aspetti, anche positivamente - in parte disciolti, liquefatti, la politica non ha il monopolio del legame civile o del legame sociale che dir si voglia. La politica, eventualmente, riveste un ruolo fondamentale all’interno del proprio ordine, in quanto in esso agiscono le istituzioni deputate alla definizione delle regole del gioco, che tuttavia è soltanto uno dei tanti ordini che nella società aperta è chiamato a confrontarsi con gli altri. In una società aperta, nella Big Society o Great Society che dir si voglia, abbiamo a che fare con una polifonia di ordini e quindi il legame politico è uno dei tanti legami necessari, che tuttavia non esaurisce l’ambito del civile e neppure può pretendere di omogeneizzarlo mediante la legge; esso, in ultima analisi, si relaziona con gli altri ordini.
In tal senso assume rilevanza l’espressione “soluzione civile”, piuttosto che politica, dove, ovviamente, nel civile è compreso anche il momento politico. Penso, ad esempio, che il principio di sussidiarietà al quale si fa spesso riferimento, che in qualche modo sembrerebbe il fantasma che aleggia in tutti i dibattiti tra aspiranti e, talvolta, sedicenti liberali, richiami esattamente, nelle sue dimensioni orizzontali e verticali, un’esigenza di raccordo degli ordini civili, articolati in modo che nessuno possa avanzare la pretesa di possedere il monopolio sul civile.
Mi riferisco a quella particolare formalizzazione del momento decisionale pubblico che il professor Stefano Zamagni definisce «sussidiarietà circolare»; ossia, il richiamo continuo ad un coordinamento degli ordinamenti che operano nella società civile e degli attori che in essa sono protagonisti: in breve, la società aperta, poliarchica, articolata secondo il principio di sussidiarietà chiede molta più governance che government.
Dovremmo fare maggiore attenzione e non utilizzare in modo retorico e disinvolto le espressioni società civile e cultura civile; si pensi ad esempio a quante componenti politiche, anche alle ultime elezioni, si sono presentate con un termine che richiama il concetto di “civile” e quante volte sentiamo parlare i nostri politici di società civile, con l’unico obiettivo di presentare se stessi come suoi interpreti unici e, ça va sans dire, più autorevoli. Dovremmo impegnarci seriamente a riflettere su che cosa sia il “civile”, capire che cosa intendiamo realmente per “civile”.
Ora, nella storia delle idee sappiamo che tutti, in qualche modo, si sono richiamati alla nozione di “civile”. Sappiamo però che il civile di Hobbes non era il civile di De Mandeville o di Smith o di Marx o di Hegel e via dicendo. Quindi, che cosa intendiamo realmente per società civile? Se per essa intendiamo una realtà nella quale il più forte prevarica necessariamente sul più debole e, di conseguenza, assumiamo una antropologia e una prospettiva di tipo hobbesiano, quale welfare society, quale welfare community potremmo mai immaginare? La risposta è evidente, nessuna.
Possiamo immaginare soltanto un welfare state pesante, rigido, che tutto ingloba e che tutto fagocita. Ci tengo a sottolineare che per quanto riguarda il raffronto tra welfare state e welfare society non esiste una differenza di grado. Un welfare state leggero è pur sempre altro rispetto al modello di welfare society, la loro è una differenza di “tipo”, non di grado.
D’altra parte, pur escludendo la “soluzione hobbesiana”, possiamo immaginare una società civile altrettanto distante da quella articolata secondo il principio di sussidiarietà; un’idea di società civile nella quale in realtà il “civile” si risolve nell’alleanza tra le consorterie. In quest’ultimo caso, la cultura civile starebbe alla base della legittimazione politica: «ci si serve della società civile affinché legittimi l’ordine politico».
Se continueremo a considerare opzioni praticabili i due modelli appena esposti e se persisteremo nella teorizzare di un welfare community come espressione di un welfare state appena un po’ più liberale, ma pur sempre figlio dei modelli idealtipici di società civili di cui sopra, è evidente che non ci sarà mai spazio per la società civile, per l’economia civile ed per un welfare community.
Non ci sarà spazio per la sussidiarietà e sarà negata la poliarchia, avremo sempre bisogno di un sistema politico invadente che non si limiterà a regolare i processi, ma che avvertirà come sua missione e vocazione imprescindibili omogeneizzare le culture, i valori, gli interessi e di fagocitare la libertà dei corpi intermedi non omogeneizzabili.
L’idea, invece, che credo sia alla base di un ordine autenticamente sussidiario in chiave liberale, è di una società civile intesa come argine critico all’ordine politico, come un limite invalicabile affinché questo, la cui necessità nessuno intende mettere in discussione, non fagociti tutto il resto.
A proposito di tale aspetto, vorrei concludere con una bella citazione del professor Pierpaolo Donati, quando afferma che «la società civile intesa come pluralismo delle formazioni sociali autonome coesistenti e collaborative ai fini del bene comune è andata deperendo, soprattutto nella legittimazione, nella capacità e nelle risorse organizzative; nel nostro Paese, si traduce in una commedia tragicomica. La società civile viene esaltata solo per essere usata come strumento di un gioco di potere per la conquista dello Stato».
Ecco, dunque, se la nostra società civile è lentamente diventata tutto ciò, allora non c’è legame che tenga, ci possono essere solo o consorterie ovvero il Leviatano. Resta il fatto che la società civile, in quanto cultura civile, per un welfare society, per un welfare community, coerente con la società aperta e con il modello poliarchico e sussidiario, avrebbe bisogno di tutt’altro e non di questo.
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