La Corte dei Conti nell’ultimo rapporto sulla finanza pubblica è intervenuta duramente sulla lotta all’evasione che “continua ad essere un elemento centrale e imprescindibile nell’azione di risanamento della finanza pubblica” ma “la strategia adottata dal legislatore nel corso della passata legislatura è stata caratterizzata da andamenti ondivaghi e contraddittori”.
Alcune misure di lotta all’evasione fiscale, ad esempio, spiegano i giudici contabili, come lo “spesometro“, con il quale vengono registrate tutte le operazioni verso i consumatori finali di importo pari o superiore a 3.600 euro, comportano alcuni “rischi”, tra i quali “effetti negativi sui consumi” o, “peggio”, l’aumento della “propensione ad effettuare acquisti di beni e servizi in nero” si legge nell’ultimo rapporto sul coordinamento della finanza pubblica.
La questione sollevata, a ben vedere, al di la delle facili polemiche simil-scandalistiche, rimanda ad un problema generale che è quello che molte volte si è sentito sostenere, ovvero, che il contesto di globalizzazione obbliga a ripensare i vari modelli di tassazione che si sono andati via via affermando nella prassi del finanziamento delle spese pubbliche; in particolare, non passa giorno che sulla stampa e nelle varie televisioni non venga ribadito il concetto dell’ingiustizia fiscale che vede i soli lavoratori dipendenti pagare le tasse, mentre gli tutti altri (“i più furbi”) essere sempre disponibili a sottrarre al fisco il dovuto e, complice la grande finanza internazionale, pronti a portare il loro denaro verso nuovi e vecchi paradisi fiscali.
A questa analisi che, per le tante volte che è stata ripetuta, ha oramai assunto la veste di verità assoluta, sfugge tuttavia che il problema delle politiche di entrata di una amministrazione pubblica, non è nel distinguere i cittadini virtuosi e pronti a pagare il dovuto per contribuire alle patrie necessità e traditori da individuare e punire, ma quello di verificare la tenuta o meno di un sistema contributivo e, nell’ipotesi di cattivo funzionamento, adeguarlo alle esigenze. Altri sono i soggetti deputati, eventualmente, a educare i cittadini ad un corretto comportamento verso lo Stato!
Bene, in una economia aperta, o meglio globale, un modello impostato sulla tassazione personale evidenzia diverse falle. Una prima conseguenza, della globalizzazione è infatti che la grande ricchezza oggi può diventare “apolide” e sfuggire alla pretesa fiscale dello Stato, migrando nei territori dove la pressione fiscale è meno elevata. Questo può avvenire in diversi modi, principalmente attraverso la delocalizzazione delle attività produttive e attraverso l’investimento estero di capitali.
Vediamo più in dettaglio. L’imposta sul reddito sulle persone, che ricordiamo riguarda i redditi da lavoro dipendente, autonomo, da pensione, di capitale, d’impresa, eccetera, ed il principio della progressività dell’imposta hanno costituito nel nostro paese per lungo tempo il presupposto impositivo che coniugava equità e necessità di finanziamento della spesa pubblica, si è trasformata in tal modo nei fatti in una sola imposta dei soli redditi da lavoro. Di fatto, dunque, la progressività si applica soprattutto ai redditi di lavoro dipendenti bassi perché i redditi di lavoro dipendente alti possono essere sostituiti da forme tipo “stock option”, ovvero, forme retributive in forma di titoli da capitale, capaci anch’essi di sfuggire ad una forma di imposta progressiva.
Ne consegue che il punto fondamentale di ogni analisi delle politiche fiscali diventa la necessità di ripensare il criterio della progressività in una situazione in cui rimane allo Stato l’imponibile offerto dai fattori poco mobili: il lavoro, i consumi, le rendite immobiliari. Infatti, la globalizzazione dei mercati anche finanziari ha fatto uscire dalla accertabilità tributaria molti dei redditi, in particolare quelli da lavoro autonomo e da capitale, che si sono sviluppati anche con il sistema di società di comodo nei paradisi fiscali.
Questo è dovuto, in primo luogo, alla mancanza di strumenti effettivi di coercizione, conseguentemente, lo Stato nazionale rischia di vedere il suo potere impositivo diventare solo formale, privato della capacità sostanziale di catturare la ricchezza, ridistribuirla, governarla, con un apparente paradosso: non è più lo Stato che sceglie come tassare la ricchezza, è la ricchezza che sceglie dove essere tassata [1].
Questa capacità di mobilità della ricchezza rappresenta un dato del contesto dal quale non si può prescindere nella valutazione del tasso di equità dei sistemi fiscali e quindi anche del sistema della vigilanza. Nella sostanza l’architettura dei sistemi fiscali è stata sempre fondata su un progetto di giustizia sociale tutto costruito sulla progressività dell’imposta e sulla sua capacità di ridistribuire ricchezza all’interno di un sistema dal quale non si poteva mettere neppure in conto la possibilità di uscire in modo del tutto legale, essendo preclusa la possibilità di trasferire ricchezza al di fuori dei confini nazionali, senza commettere un reato.
Per tentare una risposta alle questioni poste partiamo da questo assunto, che coglie una reale conseguenza del mutato contesto globale in cui il problema delle modalità d’imposizione fiscale si inserisce: la pressione fiscale nazionale, restringendosi il bacino dei soggetti incisi dalle imposte, finisce per gravare relativamente di più sui redditi medio bassi, che non possono avere mobilità internazionale [2].
Il processo descritto visto sotto questo angolo d’osservazione, compromette addirittura il presupposto della sovranità fiscale, che aveva almeno formalmente la sua sede nei Parlamenti, come dimostra il principio “no taxation without representation”, affermato nella storia dalle rivoluzioni americana e francese.
Il cittadino continua a votare nel Paese di appartenenza e spesso a beneficiare in esso della spesa pubblica, ma può anche, in numerosi casi – come investitore finanziario o come imprenditore o come lavoratore – scegliere il Paese dove pagare almeno una parte dei tributi [3]. Il principio democratico che lega tassazione e rappresentanza politica sembrerebbe perciò oggi sbiadire sotto l’impatto della globalizzazione, del deficit democratico d’istituzioni soprannazionali e internazionali, della tendenza al rafforzamento dei poteri degli organi esecutivi [4]. Tutto quanto sopra è fortemente aggravato dalla crisi in corso.
Le problematiche citate, infatti, sono accentuate in un contesto di minore crescita (o addirittura di stagnazione) dove il principio della progressività delle imposte ha, peraltro, di fatto perso molta della capacità redistributiva che poteva vantare alcuni decenni fa. Il problema attuale è, infatti, quello della preoccupazione per lo sviluppo economico; senza sviluppo, infatti, non c’è reddito prodotto e conseguentemente imposta da prelevare a fronte di spese da effettuare. La mancanza di entrate fiscali per coprire la spesa pubblica ha, peraltro, fatto riemergere la tendenza a preferire l’imposizione sui consumi rispetto a quella sul reddito.
Com’è noto dagli studi universitari (per naturalmente abbia seguito un qualche corso di scienza delle finanze) alcuni tipi di tasse sui consumi sono regressivi e certamente non incarnano il principio di proporzionalità e progressività della tassazione richiesto dalla giustizia distributiva; di conseguenza il peso fiscale per il mantenimento del Welfare State e per garantire le classi più deboli, rischia di diventare paradossalmente a carico proprio di quelle classi deboli che avrebbe dovuto tutelare [5].
Poniamoci infine la questione di: in quale contesto recuperare alcuni degli elementi della valenza democratica del principio no taxation without representation; e, di ricomprendere la complessità delle
metamorfosi intervenute, rivalutando, a fronte della crisi delle sedi tradizionali della sovranità statale [6].
Di certo il ruolo che il Welfare è venuto ad assumere negli ultimi anni di uno strumento passivo che provvede sicurezza va ripensato quale strumento di aiuto agli individui a trattare con il rischio piuttosto che rimanere. In questa ottica un buon sistema fiscale rende possibile “politiche dell’offerta” dove lo stato investe nelle infrastrutture, nell’innovazione e nella competitività, dando in particolare la priorità alle risorse per l’educazione e l’aggiornamento e non di sostegno delle domanda effettiva come il Welfare si è andato configurando.
Ciò renderebbe possibile riformulare un principio di giustizia fiscale non più nei termini di possesso una uguale somma di risorse a tutti i cittadini, ma in termini di rafforzamento delle capacità individuali, considerando seriamente le condizioni, le opportunità ed i fini diversi delle persone e attribuendo, una volta assicurale l’accessibilità ai beni, da quelli più elementari come il nutrimento, la casa o la salute a quelli più complessi dell’autorispetto e della partecipazione, quello che resta solo in funzione delle capacità di ciascuno.
NOTE
[1] G.TREMONTI, il futuro del fisco, in AAVV., Nazioni senza ricchezza e ricchezza senza nazione, Bologna, 8 ssg.
[2] 11 G. MURARO, Federalismo fiscale e sanità nella crisi dello Stato sociale, cit., 52.
[3] G. MURARO, Federalismo fiscale e sanità nella crisi dello Stato sociale, in FRANCO-ZANARDI, a cura di, Welfare tra decentramento regionale e integrazione europea, Milano, 2003, 51.
[4] G. TREMONTI, Il futuro del fisco, o.c., p. 60.
[5] Ch. MARTINO, Sussidiarietà o statalismo, in Ideazione, 2002, p2, SS
[6] Cfr. FRANZESE, Ordine economico e ordinamento giuridico. La sussidiarietà nelle istituzioni, Padova, 2004, pp