L'esperienza della diffusione della fede nel Cammino Neocatecumenale (Prima parte)

L’intervento di don Ezechiele Pasotti al convegno internazionale “La primavera della Chiesa e l’azione dello Spirito”

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Pubblichiamo di seguito la prima parte dell’intervento di Don Ezechiele Pasotti, Prefetto agli Studi al Seminario Diocesano Missionario “Redemptoris Mater” di Roma, al convegno internazionale “La primavera della Chiesa e l’azione dello Spirito”, svoltosi la scorsa settimana a Roma presso l’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.  

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Un saluto affettuoso a tutti da parte di Kiko Argüello e Carmen Hernández, Iniziatori del Cammino Neocatecumenale (CN), e da Padre Mario Pezzi, che non possono essere qui. L’intervento doveva essere fatto da Kiko, ma tocca a me. Confido nella vostra pazienza.

Più che di “diffusione della fede” – potrebbe dare l’impressione di volerci misurare con numeri, con successi o insuccessi –, preferiamo parlare di “evangelizzazione”. Vorrei iniziare con alcune riflessioni (che ho già proposto in altra occasione), che forse potrebbero sembrare scontate, ma che non ritengo tali, specie parlando della fede.

La bellezza è un elemento distintivo del cristianesimo, perché Dio non è solo il creatore di ciò che è bello, ma perché “Dio è bello”. “Tardi ti ho amato, bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato!”, esclama S. Agostino nelle Confessioni.[1]

“Tu sei bellezza… Tu sei bellezza!”, ripete S. Francesco d’Assisi nella sua lauda estatica, redatta dopo aver ricevuto le stimmate di Cristo[2]. E commenta S. Bonaventura: “Contemplava nelle cose belle il Bellissimo e, seguendo le orme impresse nelle creature, inseguiva dovunque il Diletto”[3].

Se Dio è bello, una bellezza che ci affascinerà per tutta l’eternità, anzi di cui l’eternità non basterà a saziarci, bella è anche la fede, che “ci fa gustare come in anticipo la gioia e la luce della visione beatifica” (Catechismo della Chiesa Cattolica, 163). E l’uomo è parte di questa bellezza, finché rimane nel disegno di Dio; quando, con il peccato, ne rompe la trama, anche l’uomo ne rimane rotto: si accorge della propria nudità, percepita ora con lo sguardo della concupiscenza. Tutto si colora di grigio, di violenza, per la bramosia che ora ci possiede; si entra nella mormorazione contro l’altro, e nel furto di tutto ciò che ci circonda. L’uomo non si percepisce più come un dono di bellezza, ma come un “denudato”, un bisognoso di tutto, “un povero, cieco e nudo” (Ap 3,12), un infelice.

La conseguenza di questa tragedia esistenziale è che l’uomo diventa incapace di amare: perché, “denudato”, ha bisogno di offrire tutto a se stesso, di vivere per se stesso, come dice S. Paolo (cf 2 Cor 5,15). Non perché cattivo, ma perché schiavo della paura. L’autore della Lettera agli Ebrei afferma: “Poiché i figli [cioè, noi, gli uomini] hanno in comune il sangue e la carne, anch’Egli [Cristo] ne è divenuto partecipe, per ridurre all’impotenza mediante la morte colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo, e liberare così quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita” (Eb 2,14-15). Il peccato, prima che teoria, realtà etica, invenzione di qualche mente malata, come a volte si vuol far credere, è il nome di questa tragedia: creato per amore e per amare, l’uomo non ne è capace. E diventa, suo malgrado, un “mostro” che tutto usa per costruire, per rivestire se stesso. Il peccato ci fa brutti, deturpa e imbruttisce tutta la creazione, ma non può strappare né da noi, né dalla creazione, l’impronta della bellezza che ci ha creato, e neppure l’anelito alla bellezza.

E questa tragedia, questo peccato, per usare un’espressione cara a Giovanni Paolo II (a Fatima nel 1982), ha acquistato oggi, un “forte diritto di cittadinanza nel mondo”: lo si esige come presupposto di modernità, lo si vuole difeso e rivendicato da leggi dello Stato. La pazzia di un diritto che ci rende schiavi, sempre più schiavi e vittime.

E come schiavi non si va da nessuna parte. Neppure nella realtà sociale e pubblica. Scavate dietro ogni cosa brutta, dietro ogni ingiustizia, dietro ogni violenza e troverete il peccato: nasce dal rifiuto di Dio, dall’assenza della bellezza[4]. Paradossalmente, ma realmente, possiamo affermare che senza Dio, senza Cristo non c’è bellezza. La storia del secolo appena concluso lo prova ad oltranza.

La vera ragione di tanta frustrazione, di tanta solitudine, di tanta violenza, di tanto terrorismo, di tanta ingiustizia è l’uomo schiavo. Già S. Paolo, in una memorabile pagina della Lettera ai Romani, esclamava con angoscia: “Chi mi libererà da questo corpo votato alla morte?” [letteralmente: “Chi mi libererà dal corpo di questa morte”] (Rm 7,24).

E l’Apostolo stesso rispondeva – e risponde a noi oggi – con forza: “Per mezzo di Gesù Cristo. Siano rese grazie a Dio” (Rm 7,25). Eccola Buona Notiziadel Cristianesimo. Ecco la bellezza della fede cristiana. Ed è per noi qui oggi: Cristo ha vinto la morte. Egli ha preso su di sé i nostri peccati, la bruttezza della nostra solitudine, della nostra violenza, della nostra incapacità di amare, perché “c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo [letteralmente: “c’è in me il desiderio del bene, mafare il bellono”]; infatti, io non compio il bene che voglio, ma il male (cioè, il brutto) che non voglio” (Rm 7,18-19). Nella croce di Cristo torna ad essere vista la bellezza del dono di sé: la vita è questo dono, vivere è donarsi. Dio è questa libertà radicale del dono di sé. Per questo la morte non può “trattenere” Cristo. Egli ne spezza le catene. E la sua vittoria diventa la mia vittoria, la tua vittoria. La bellezza del dono di sé.

Non sto andando fuori tema, anzi! Siamo profondamente convinti che o l’evangelizzazione ha questa visione antropologica rivelata, o davvero riduciamo la Chiesa a una ONG, di vago aiuto sociale, economico, culturale, come ha affermato recentemente Papa Francesco. O l’anima dell’annuncio del Vangelo è l’esperienza dell’incontro con Dio-bellezza, in Cristo, mediante il dono dello Spirito Santo, è l’esperienza di questa liberazione dal dominio delle cose per farsi dono agli altri, e allora la nostra vita diventa una corsa per annunciare questa meraviglia al mondo, a tutti gli uomini, o quello che annunciamo sarà sempre un moralismo, un insieme di leggi da osservare, un insieme di pratiche religiose da mettere accanto ad altre pratiche religiose, e non una liberazione, un canto di vittoria, una buona notizia, un “vangelo” appunto.

Dalla morte e risurrezione di Cristo nasce l’uomo nuovo, l’uomo celeste, che ci viene dato nel Battesimo, perché il Battesimo fa di noi “uomini celesti”, “figli di Dio”. Ma questo non può restare una verità teologica, forse tanto bella da credere, ma che non si vede mai, che non diventa mai bellezza concreta davanti ai nostri occhi.

C’è un luogo, c’è un modo, dove questi “uomini celesti” si possono vedere: la Chiesa, la comunità cristiana. Con la secolarizzazione siamo usciti da una percezione di “cristianità”, per ritrovare Cristo, “luce delle genti”, “luce splendente sul volto della Chiesa” (LG 1); che ha nella Parola di Dio “come uno specchio nel quale la Chiesa pellegrina sulla terra contempla Dio” (DV 7), dove la liturgia, prima di essere forma esteriore di culto, è questo irrompere nel mondo di Cristo sacerdote che realizza la santificazione dell’uomo, e dal suo Corpo mistico, cioè Capo e membra, sale al Padre il culto vero (cf SC 7), e soltanto nel mistero di Cristo si illumina veramente il mistero dell’uomo (cf GS 22). C’è qui come una sintesi del Concilio Vaticano II, che alcuni vorrebbero oggi quasi cancellare per tornare a non si sa quale “tradizione passata”.

(La seconda parte segue domani, mercoledì 22 maggio)

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NOTE

[1] “Sero te amavi, pulchritudo tam antiqua
et tam nova, sero te amavi!”, Confessiones 10, 27.

[2] “Lodi di Dio altissimo”, vv. 7 e 10: Fonti Francescane, n. 261. Padova 1982, p. 177: citato da Giovanni Paolo II, Lettera agli Artisti, 4 aprile 1999).

[3] “Legenda maior”, IX, 1: Fonti Francescane, n.1162, l. c., p. 911.

[4] Un teologo ortodosso dei nostri giorni, Olivier Clément, giustamente si domandava: “L’ateismo costituito, che bellezza ha creato? Cosa andavamo a vedere in Unione Sovietica (e anche oggi in Russia), il mausoleo di Lenin o le icone di Teofane il Greco o di Rublëv?” (In Avvenire, 27 dicembre 2006).

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ZENIT Staff

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