di Marina Casini
ROMA, lunedì, 29 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Osservo marginalmente che nei CAV questo stile di condivisione calibrata sulla singola mamma e sulla singola situazione, è affidato soprattutto alle donne, alle operatrici. Elena Vergani, la scorsa settimana al Convegno organizzato dal MpV sul tema della sindrome post-aborto, ha affermato: «L’essenza della femminilità è il genio della relazione». Nei CAV – fucina del “nuovo femminismo” – la cultura antisolidaristica che tende a spezzare il fondamento della relazione nel riconoscimento dell’altro come altro uguale in dignità, si imbatte in un’altra logica quella della ricomposizione, della riconciliazione a partire dalla primordiale delle relazioni quella della mamma con la creatura che vive dentro di lei. La scommessa sulla femminilità come privilegiata capacità di accoglienza è vincente perché niente e nessuno può proteggere il figlio come sua madre quando il figlio vive dentro di lei. La recente toccante testimonianza di Chiara Corbella, che si unisce a quella di tante altre mamme (come Gianna Beretta Molla, Carla Levati Ardenghi, Felicita Merati Cambiaghi, Maria Cristina Cella, Maria Antonietta Perretta, Rosy Annigoni, Rita Fedrizzi…) lo dimostra senza ombre e incrinature.
Diciamolo: è vero, purtroppo, che non sempre il passaggio dal CAV muta il proposito o l’inclinazione all’aborto; purtroppo, qualche volta hanno prevalso le pressioni esterne, la paura e la chiusura.
Ma come non vedere, nonostante tutto, in questo tipo condivisione l’impronta della speranza che non si arrende di fronte agli ostacoli, che si organizza e che progetta? Come non accorgersi che l’incoraggiamento a guardare insieme oltre le paure, le angosce, i dubbi, poggia sulla profezia che l’abbraccio con il figlio che nascerà ripagherà di tutto? Come non vedere in questa condivisione una energia che genera e rinnova le relazioni, laddove la tentazione del conflitto e l’accento sulle differenze sembrerebbero incombere? Come non sperare che comunque, il passaggio dal CAV abbia in ogni caso aperto qualche spiraglio e gettato qualche seme che darà i suoi frutti in futuro anche per quella mamma che non ce l’ha fatta?
A molti anni di distanza è confortante riscontrare che la presenza dei CAV, pure tanto osteggiata ed emarginata, ha acquistato – grazie a questo metodo – un certo riconoscimento pubblico (di questo ci parlerà poi il Dott. Picco) che apre qualche spiraglio nella barriera che vorrebbe escludere dal raggio di attenzione pubblica il tema della vita nascente.
Il concepito: un figlio
Ma dobbiamo scavare un altro po’. Cosa c’è alle radici di tutto questo? Da dove viene la forza per argomentare, aiutare, incoraggiare, farsi carico, promuovere, sacrificarsi, relazionarsi in questo modo nuovo? Lo sappiamo: è il riconoscimento dell’uomo alla sua origine, ancora nascosto nel seno materno, il “totalmente ultimo”, il modello insuperabile di ogni emarginazione umana, colui che non conta e che non ha voce.
Tutta la capacità persuasiva del fare e dell’argomentare, la ragione essenziale dell’esistere dei CAV dipende dalla convinzione che il concepito, il più piccolo e più povero tra gli essere umani, è uno di noi. Ed è anche annunzio di una nuova speranza per il futuro dell’ umanità. I CAV testimoniando «il primato della vita umana a confronto di tutti gli altri valori di ordine materiale, vuole essere un richiamo ai giovani e ai grandi, perché comprendano che una società giusta non si costruisce con l’eliminazione degli innocenti; intende rilanciare il senso della sacralità della vita umana» (Giovanni Paolo II, Firenze 1986).
E’ in questa prospettiva che si trova la ragione dell’esistenza dei CAV: le ragioni demografiche e la bellezza della maternità da sole non sono sufficienti. La configurazione dell’aborto come servizio pubblico e gratuito, l’affermazione del diritto di scelta della donna come conquista e progresso, l’inganno semantico che chiama “contraccezione di emergenza” prodotti aventi lo scopo di distruggere il concepito nell’eventualità che si avvenuta la fecondazione, presuppongono – infatti – la cancellazione del concepito come essere umano a pieno titolo.
Basta soffermarci un attimo a riflettere sulla recente sentenza della Corte di Cassazione italiana (2 ottobre 2012) sul risarcimento del danno nei confronti di tutta la famiglia per la nascita di Marta portatrice della sindrome di Down. Anche a Marta è stato riconosciuto il diritto ad essere risarcita. La vita di Marta – quella vita che i giudici definiscono con la brutta espressione di “vita malformata” – “vale” un milione di euro perché, quando Marta era nel grembo della sua mamma, la mamma aveva posto al medico come “condizione imprescindibile” per la nascita della bambina, lo stato di salute della figlia.
È forte il contrasto di questa sentenza con la “Giornata sulla sindrome di Down”, istituita proprio quest’anno dall’ONU nella data del il 21 marzo o con la “Giornata internazionale delle persone con disabilità”, promossa dal 1998 sempre dall’ONU e celebrata nella data del 3 dicembre. Come non pensare, poi, alla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (Onu, 2006; ratificata dall’Italia con legge n. 18 del 3 marzo 2009) il cui scopo dichiarato all’art. 1 è “promuovere, proteggere e garantire il pieno ed uguale godimento di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali da parte delle persone con disabilità, e promuovere il rispetto per la loro intrinseca dignità”?
Come si spiega il contrasto? Si spiega perché non si vuole vedere che il bambino che vive nel seno della mamma, sano o malato che sia, è un figlio a tutti gli effetti. E’ un soggetto uguale agli altri in dignità. E’ perciò titolare del diritto alla vita; è persona. Questo riconoscimento è capace di sprigionare energie sempre nuove per spingere la storia dell’umanità nella direzione dell’autentico progresso, segnato dalla forza espansiva della uguale dignità umana.
La presenza dei CAV offre perciò un contributo straordinario nel campo della c.d. “nuova questione antropologica”, questione che oggi si pone davvero in modo radicale e ultimativo in particolare nel campo della vita prenatale. Non è il caso di richiamare uno ad uno i temi sul tappeto. Neppure è il caso di ricordare le manipolazioni linguistiche ambigue e menzognere che accompagnano i tentativi di estromettere il concepito e i suoi diritti fuori dall’orizzonte di attenzione e di interesse civile e politico, di ridurre la libertà all’autodeterminazione individuale estremizzata, di scardinare la dignità dalla vita umana, di stravolgere i diritti umani rendendoli strumenti di prevaricazione dei più deboli e indifesi come quando si pretende di introdurre l’aborto come diritto umano fondamentale. Si pensi alla risoluzione recentemente varata dal Consiglio Onu per i diritti umani, con sede a Ginevra, sulla “Mortalità e morbilità materna prevenibile e i diritti umani”.
Anche sotto questo versante si può leggere la trama di una profezia carica di speranza: l’operazione che con le parole e con i fatti sottrae il concepito agli ormai obsoleti ritornelli della “questione di coscienza” o della “credenza religiosa”, dell’ “opinione personale” e lo colloca sul terreno dei diritti umani – non come oggetto, ma come soggetto – è un’operazione culturale capace di rinnovare il tessuto sociale. Non si tratta, infatti, semplicemente di incrementare le nascite per favorire il ricambio generazionale e abbattere il crollo demografico (per avere braccia per lavorare la terra, bastoni per la vecchiaia), ma di portare a compimento quella profezia laica già annunciata con la moderna idea dei diritti dell’uomo secondo cui non possono esserci pace giustizia e libertà senza il riconoscimento dell’uguale dignità di ogni essere appartenente alla fami
glia umana.
La prevenzione (post-concezionale) dell’aborto
Senza questo riconoscimento di valore, perde significato qualsiasi impegno per la vita non nata e lo stesso concetto di prevenzione dell’aborto si svuota e si riduce. Anche su questo i CAV hanno svolto e svolgono un ruolo culturale di primo piano, perché il massimo elemento di prevenzione dell’aborto volontario è il riconoscimento della piena umanità del figlio concepito.
L’attività dei CAV mostra l’efficacia della prevenzione “post-concezionale” che evita l’aborto quando un figlio è già stato concepito e che perciò include a pieno titolo anche le azioni e gli interventi volti a consentire che una gravidanza sia portata a conclusione, anche quando la madre è propensa ad interrompere la gravidanza o ha già preso quella decisione.
Per quanto riguarda poi la questione della “prevenzione contraccettiva” è opportuno rileggere il paragrafo 13 dell’Evangelium Vitae.
In ogni caso, la forza della prevenzione dell’aborto promossa dai CAV viene dal riconoscimento del concepito come “altro”, come essere umano portatore di senso, uguale in dignità, titolare del diritto alla vita. Perciò «Prevenire i concepimenti non è un modo vero di garantire il diritto alla vita, perché un titolare di tale diritto ancora non esiste. È quando un nuovo uomo comincia ad esserci che scatta il dovere della tutela e della garanzia» (MpV, “Trent’anni di servizio alla vita nascente”, Cantagalli, Siena, 2008, p. 11).
Per completezza si aggiunge che il riconoscimento del figlio dal concepimento apre lo spazio per la proposta di una procreazione veramente responsabile che illumina il senso della sessualità collegandolo al valore della vita umana, all’amore, e alla famiglia.
E’ significativo che Papa Benedetto XVI, il 16 novembre 2005, salutando i delegati del Movimento per la vita radunati in piazza San Pietro, abbia collegato la prevenzione post-concezionale alla stesura di pagine di speranza per il futuro dell’umanità («impegnandovi a prevenire l’aborto volontario, con un’attenta azione di supporto per le donne e le famiglie, voi collaborate a scrivere pagine di speranza per il futuro dell’umanità, proclamando in maniera concreta il “Vangelo della Vita”»).
[La prima parte è stata pubblicata domenica 28 ottobre. La terza parte uscirà martedì 30 ottobre]