"La tentazione è parte integrante della vocazione"

Omelia di mons. dal Covolo ad Agordo nella Solennità Patronale dei Santi Pietro e Paolo e nel centenario della nascita del Servo di Dio Albino Luciani (Giovanni Paolo I)

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di monsignor Enrico Dal Covolo,

Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense 

ROMA, sabato, 30 giugno 2012 (ZENIT.org) – La Liturgia della Parola ci ha presentato alcuni passaggi importanti della vita e degli scritti dei santi Pietro e Paolo, principi degli apostoli, vostri illustri patroni.

Abbiamo sentito narrare nella prima lettura l’episodio misterioso della miracolosa liberazione di Pietro dal carcere, dove era stato rinchiuso.

Abbiamo ascoltato poi il brano glorioso della confessione di Pietro a Cesarea di Filippo, e la successiva, solenne investitura da parte di Gesù: “Tu sei Pietro”, gli dice il Signore, “e su questa pietra edificherò la mia Chiesa”.

Di fatto anche Pietro, come Paolo, “ha combattuto la buona battaglia”, e non solo “ha conservato la fede”, ma ha confermato – e continua a confermare – i suoi fratelli nella fede.

Oggi però, lasciando sullo sfondo queste letture, vorrei presentarvi la figura di Pietro come un uomo – un santo – molto vicino a noi, alle nostre lotte, alle nostre sofferenze, alle nostre tentazioni, e – perché no? – anche ai nostri peccati di ogni giorno. Continueremo a riferirci al Vangelo, che è “la fonte delle fonti”, ma prenderemo in considerazione anche altri brani, rispetto a quelli che abbiamo appena letto.

Vi propongo così una specie di lectio divina su alcune pagine del Vangelo, che ci parlano delle tentazio­ni e del rinnegamento di Pietro.

1. Pietro, il peccatore che si converte

Pietro è il discepolo che, almeno in  parte, “ha capito” qualche cosa di più, rispetto agli altri apostoli: “Tu sei il Messia, il Cristo”, confessa con entusiasmo a Cesarea. Ma quando Gesù annuncia la sua passione e la sua morte, manifestando la propria realtà di Messia, allora Pietro prende le distanze dal Maestro, e ne scoraggia i progetti. La reazione di Gesù, così come è narrata dal Vangelo di Marco si fa durissima: “Tu per me sei Satana!”, prorompe sdegnato Gesù, rivolgendosi a Pietro (Marco 8,27-33).

Che cosa è capitato?

E’ capitato che Pietro ha capito sì qualche cosa del mistero profondo di Gesù: egli è il Messia, il Figlio di Dio. Ma quando Pietro si rende conto che il progetto di Messia, così come lo intende Gesù, non è quello degli uomini; e che il Figlio di Dio, per salvare il mondo, deve salire a Gerusalemme, patire e morire: ebbene, allora Pietro non ci sta più, e avanza tutte le sue resistenze.  

La tentazione, a cui Pietro sembra soccombere, è quella dell’incoerenza tra la parola e la vita, tra il dire e il fare.

Pietro stenta a capire che non è sufficiente parlare del Vangelo, occorre viverlo; che non è sufficiente parlare di Gesù come Messia, occorre accompagnarlo sulla via della croce; che non è sufficiente parlare della croce, occorre portarla, la croce; che non basta parlare di comunità evangelica, occorre fa­re comunità; e così via…

Ma un’altra tentazione, a cui Pietro cede, è ben più grave ancora. Pietro, nella notte della passione, rinnega Gesù per tre volte. Ma poi, quasi subito, egli si rende conto del suo grave peccato, e “lagrime amare” inaugurano il cammino della conversione; quella conversione del cuore, che gli farà dire un gior­no, sulle sponde del lago di Tiberiade: “Signore, tu sai tutto; tu sai che io ti amo”.

Ebbene, ci chiediamo a questo punto: qual è l’evento decisivo, ciò che ha cambiato il cuore di Pietro, aprendolo all’esperienza dell’amore misericordioso?

Questo evento è l’incontro con Gesù. Nel caso specifico, è un incontro che si consuma nel­lo spazio brevissimo di uno sguardo: subito dopo il triplice rinnegamento, scrive Luca, “il Signore, voltatosi, guardò Pietro… Ed egli, uscito, pianse amaramente” (Luca 22,61).

A partire da quello sguardo di Gesù, ricco di misericordia e di perdono, Pietro si abbandona perdutamente all’amore del Maestro, fino a confessare: “Signore, tu sai tutto. Tu sai che ti amo”.

La risposta di Gesù non si fa attendere: “Se mi ami”, gli dice il Signore, “pasci!”. Come a dire: la prova del vero amore a Cristo è il servizio generoso alla sua Chiesa…

Stando alle parole del beato Papa Giovanni Paolo II, il cammino di Pietro è emblematico per tutta la Chiesa, e dunque per ciascuno di noi. Leggiamo nella Novo Millennio Ineunte: «E’ a Cristo risorto che la Chiesa guarda. Lo fa ponendosi sulle orme di Pietro, che versò lacrime per il suo rinnegamento, e riprese il suo cammino, confessando a Cristo il suo amore: “Tu sai che io ti amo!”» (n. 28).

2. Per la preghiera e per la vita  

Cari fratelli e sorelle, tutto questo è detto per noi, oggi!

Voglio sottolinearvi un paio punti, per la preghiera e per la conversione della nostra vita.

Dobbiamo riconoscere anzitutto che la tentazione è parte integrante della nostra storia di vocazione: prima di Pietro, anche Gesù, anche Maria, furono tentati. Dirò di più: la tentazione appartiene alla pedagogia di Dio, e serve a purificare la nostra fede.

Così l’importante non è passare immuni dalla tentazione. L’importante è, invece, fare il cammino di Pietro. Anche noi, se lo vogliamo, possiamo incrociare lo sguardo di Gesù, pieno di misericordia e di amore. In modo speciale, possiamo incontrare Gesù, che libera e salva, nel Sacramento della Riconciliazione, a patto che ci ricordiamo sempre che proprio l’incontro con il Signore Gesù è ciò che più conta, nella celebrazione del Sacramento.

Mi chiedo invece se a volte non rischiamo di sopravvalutare alcuni elementi esteriori, come la lista dei peccati, oppure la persona del Confessore, o l’esigenza di svolgere «un bel colloquio» con lui… Certamente si tratta di cose importanti, ma la «cosa» decisiva è quel­la che si compie nel mistero, ed è precisamente l’incontro di grazia con il Signore Gesù, che libera e salva la nostra vita. Se fossimo maggiormente persuasi di questo, probabilmente non ci priveremmo per trop­po tempo della celebrazione del Sacramento.

Un secondo punto importante.

L’esperienza del perdono deve condurci all’amore, a un vero e proprio “invaghimento” per Cristo. Ma, attenzione, non si tratta per nulla di un’emozione passeggera. L’innamoramento per Cristo è una faccia della medaglia. L’altra faccia della medaglia è il servizio della Chiesa. “Se mi ami, pasci”. La prova dell’amore è il servizio dei fratelli nella Chiesa.

Chiediamoci allora, con coraggio: amo davvero la Chiesa? So vedere – anche nelle vicende di oggi, della Chiesa pellegrinante nel mondo – la “foresta di santità cresce”, ben oltre l’“albero che cade”?

E’ vero: anche all’interno della Chiesa ci sono molti scandali, tante “sporcizie”, che sono la dolorosa conseguenza del peccato dell’origine. Ma so cogliere “il grande fiume” della santità e della grazia di Dio, per il quale la Chiesa stessa è santa? Oppure mi accodo troppo facilmente alle critiche ipocrite e senza amore di tanti rotocalchi e media?

*** 

Voglio concludere, cari fratelli e sorelle, facendo memoria di un successore di Pietro, vissuto molti secoli dopo di lui. E’ il servo di Dio Albino Luciani, il Papa Giovanni Paolo I, vostre illustre concittadino.

Come sapete, ricorre quest’anno il centenario della sua nascita, e io sono il Postulatore della sua Causa di beatificazione e canonizzazione.

Proprio in questa chiesa di Agordo, nella festività dei santi apostoli Pietro e Paolo, il 29 giugno 1978, Albino Luciani tenne una solenne celebrazione eucaristica. Fu questa l’ultima sua visita alla terra natia.

L’allora patriarca di Venezia era stato invitato dall’arcidiacono, mons. Lino Mottes. Nell’omelia il cardinale Luciani espresse tutta la sua commozione nel tornare a celebrare in questa chiesa, ricordando
il tempo in cui ad Agordo aveva trascorso un breve periodo di apostolato, esercitando il suo primo ministero sacerdotale.

Infatti, poco dopo la sua ordinazione, avvenuta il 7 luglio 1935, il sacerdote novello don Albino fu mandato da Canale ad Agordo come cooperatore di mons. Luigi Cappello. Qui egli rimase dal 21 dicembre 1935 all’agosto del 1937, per poi andare poi, appena venticinquenne, vicerettore nel Seminario Gregoriano.

Mons. Luigi Cappello, fratello del noto canonista gesuita e Servo di Dio padre Felice Cappello, aveva voluto a tutti i costi Luciani come suo cappellano. Nell’omelia che Luciani tenne qui, nel 1978, egli ricordava: «Mons. Cappello mi ha fatto stare sei mesi a Canale e mi ha detto: “Aspetta qui a Canale fino a quando verrò ad Agordo” e appena entrato lui sono venuto anch’io».

Certamente, come il vecchio parroco di Canale don Filippo Carli, anche mons. Cappello fu un esempio per don Albino. Ne ricordava soprattutto ricordava le omelie. Efficaci, sempre piene di esempi. Le omelie di Luciani nel “biennio” agordino le abbiamo ritrovate tra le carte del suo Archivio privato. Le scriveva interamente – in seguito preferirà usare degli schemi.

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ZENIT Staff

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