di monsignor Vitaliano Mattioli

ROMA, sabato, 9 giugno 2012 (ZENIT.org) - Dal 30 maggio al 3 di giugno si è celebrato, a Milano, il VII incontro mondiale delle famiglie, che ha per tema: “La famiglia, il lavoro, e la festa”.

E’ inutile ripetere quanto oggi la famiglia sia minacciata, basta una semplice riflessione per rendersi conto del fatto che sia in corso una vera “congiura” contro l’istituto familiare.

L’incontro di Milano ha avuto lo scopo, quindi, di sensibilizzare la coscienza sociale e mettere di nuovo la famiglia al posto che le spetta, cioè al centro della società.

Lo Stato viene dopo la famiglia. E’ l’insieme delle famiglie che costituisce lo Stato. Per questo lo Stato non ha il potere di mettere le mani sulle caratteristiche fondanti l’istituto familiare, ma solo aiutarla nel giusto andamento.

Ed è per questo che in ogni cultura troviamo disposizioni in difesa della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio.

Nel Codice di Hamurabi (1750 più o meno a.C.) si legge: “Se un uomo ha preso moglie, ma non ha concluso un contratto con lei, questa donna non si può ritenere sua sposa legittima” (n. 128); o ancora “Se una donna maritata è sorpresa a letto con un altro uomo, tutti e due devono essere legati e fatti annegare” (n. 129).

Già nel V° sec. a.C. i testi confuciani ci parlano della famiglia come fondamento dello Stato. Se la famiglia non vive conformemente alle virtù, neanche lo Stato può camminare bene. Per questo la persona prima di sposarsi, al fine di formare una famiglia virtuosa, deve sforzarsi di essere “perfetta”.

Nell’India antica, secondo la descrizione del Kamasutra (Trattato sopra l’amore), scritto da Mallanaga Vatsyayana (III sec. d.C.), il matrimonio è concepito come realtà sacra, un obbligo religioso che coinvolge tutta la comunità. Le famiglie sono impegnate nel matrimonio dei figli, dal momento che il matrimonio non è un fatto privato.

Le Leggi di Manu - il più importante e antico testo sacro della tradizione scritta dell'induismo (più o meno tra il sec. II a.C. e il sec. II d.C.) - nel terzo capitolo presentano una lista di otto modalità per sposare una donna e sugli impedimenti al matrimonio.

Nella Grecia antica, già prima di Omero, il matrimonio era considerato il fondamento della società. La famiglia, nei poemi antichi, è rappresentata con grande attenzione e stima. Seppur nei tempi antichi, il matrimonio non aveva una legislazione propria, tuttavia già appare come un evento sociale, ha diritto a qualche cerimonia pubblica e si manifestano le condizioni per essere un matrimonio riconosciuto.

Sembra che la prima forma legale fu introdotta dal legislatore Solone (VI a.C.), il quale formulò le condizioni affinché un matrimonio fosse riconosciuto legittimo. Pericle poi (451 a.C.) pose altre condizioni: il matrimonio aveva un carattere sacro e terminata la festa, i novelli sposi ringraziavano gli dei offrendo un sacrificio, specialmente a Eros e Afrodite. L’ultimo atto consisteva nella registrazione del matrimonio nel libro chiamato Fratria, insieme a due testimoni.

Nella società romana - quando Roma era la patria del diritto - la legislazione circa il matrimonio è molto importante perché passò in seguito nel diritto canonico. Le stesse parole furono coniate dal diritto romano: matrimonio deriva dal latino matris munus (o munium) per evidenziare il ruolo importante della moglie nella famiglia; coniuge (coniugium) “quia mulier cum viro quasi uno iugo astringitur” (l’uomo e la donna stanno uniti nello stesso compromesso); connubio (connubium) da nubere, velare, per l’ usanza di porre un velo (flammeum) sulla testa della sposa.

Per i romani, il matrimonio (sempre monogamico; non fu permessa mai la poligamia, ma soltanto tollerata) era la convivenza di un uomo con una donna con la volontà di essere marito e moglie (affectio maritalis = amore coniugale), che si doveva manifestare con una cerimonia pubblica, la quale distingueva il matrimonio dalla convivenza.

Nel periodo antico non esisteva il divorzio. L’intenzione di vivere uniti doveva essere permanente, il che significa che nella cerimonia del matrimonio gli sposi dovevano esprimere la volontà di restare uniti per tutta la vita, seppur poteva accadere che nel tempo questa volontà potesse cessare.

La famiglia era considerata di origine naturale. Per lo storico Musonio Rufo (I sec. d.C.) esisteva soltanto la famiglia legittima (unione di un uomo con una donna) benedetta da Giove. Il matrimonio omosessuale non era permesso, né riconosciuto dal diritto romano, seppur l’imperatore Nerone si sposò due volte nella forma omosessuale. Ciò si riscontra anche in Tacito, Svetonio, Dione Cassio.

Cicerone ha definito il matrimonio: “Prima societas in ipso coniugio est; id autem est principium urbis et quasi seminarium rei publicae” (De Officiis, I, 17, 54; il matrimonio è la prima società; per questo è il primo principio della città ed il vivaio dello Stato). La definizione classica del matrimonio ci è data, invece, dal giurista Erennio Modestino (m. 244 d.C.): “Nuptiae sunt coniunctio maris et feminae et consortium omnis vitae, divini et humani iuris communicatio” (Dig. 23,2,1) (Unione di un uomo con una donna, una comunione per tutta la vita, con l’impegno di conformarsi a tutto ciò che è richiesto dal diritto umano e divino).

Con le parole Coniunctio maris et feminae, Modestino intendeva l’unione sessuale. Qualche anno prima, Ulpiano con questa ‘coniunctio’ intendeva lo stesso matrimonio, facente parte del diritto naturale, es osteneva che per la validità del matrimonio non fosse necessaria l’unione fisica, ma il consenso (Digesto, 35,1,15). Secondo Ulpiano il consenso comprende la affectio maritalis, la volontà del marito di comportarsi con amore e rispetto verso la sua sposa.

Un’altra definizione è contenuta nelle Institutiones di Giustiniano: “Viri et mulieris coniunctio individuam consuetudinem vitae continens” (Inst., 1,9,1). In queste parole si incontrano alcuni elementi fondamentali: l’indispensabile volontà degli sposi e l’intenzione che deve essere per sempre. Il matrimonio è percepito come qualcosa di permanente: omnis vitae.

Lo storico Tacito scrive infatti: Consortia rerum secundarum adversarumque (Annales, III, 34,8), nella buona e nella cattiva sorte. Plutarco nell’opera Bruto pone sulla bocca di Porcia, sposa di Bruto, queste parole: “O Bruto, io mi sono sposata con te per condividere le tue gioie e le tue sofferenze” (Bruto, 13).

La differenza tra il matrimonio legittimo e la libera unione è, dunque, la manifestazione della volontà di vivere uniti per tutta la vita: “Non è l’unione carnale ma il consenso, la volontà, che fanno il matrimonio” (Digesto, 35,1,15). Per questo l’autorità del padre non può intervenire sulla volontà dei figli e il padre non può obbligare i figli a sposarsi se loro non lo desiderano: “Non cogitur filius familiae uxorem ducere” (Dig. 23,2,21).

Contrariamente alle altre culture antiche, nel diritto romano il matrimonio non era celebrato per tappe, ma solamente con una cerimonia, nella quale si esprimeva il consenso.

Nei primi secoli della storia romana il matrimonio era indissolubile; soltanto in seguito, nel periodo imperiale fu ammesso il divorzio. Nel diritto romano, infatti, la volontà era l’elemento essenziale per la validità del matrimonio, e finché questo esisteva, permaneva tale volontà. Se uno dei due non desidera più vivere con l’altro, il matrimonio terminava e, dopo il divorzio, la persona poteva nuovamente sposarsi.

La procreazione, poi, é importante, anche se è l’amore a prevalere. Tuttavia la procreazione è un elem ento fondante il matrimonio: se manca la capacità fisica di procreare il matrimonio è non valido. Per questo è permesso soltanto dopo la pubertà ed è monogamico. La poligamia non era contemplata né accettata dal diritto romano e dai giuristi.

Tant’è che per sposarsi di nuovo, la prima unione doveva essere sciolta: “Neque eodem duobus nuptia esse potest neque idem duabus uxores habere” (Gaio, Inst. 1,63; non è permesso essere sposato nello stesso tempo due volte, né avere contemporaneamente due mogli). Era proibito, inoltre, l’incesto, ovvero il matrimonio tra cugini, zio e nipote, zia e nipote. Tutto questo conferma che il matrimonio non era alcunché di privato, ma una realtà pubblica, sociale.

È importante notare che la definizione di Modestino parla di diritto divino (divini iuris), evidenziando una relazione del matrimonio con la divinità. Nella cerimonia nuziale era inserita una invocazione alla dea Juno Pronuba, divinità che proteggeva le nozze.

Quando la Chiesa si occupa della famiglia, non agisce fuori del suo campo di azione. La Chiesa fa parte della struttura sociale e per questo ha il diritto di esprimere la sua parola su questa fondamentale istituzione: crollata la famiglia, infatti, tutto crolla.

La concezione di matrimonio e famiglia laicista trova pochi riferimenti nella storia. Il matrimonio contiene una profonda connotazione religiosa, già riconosciuta sia dalle civiltà dei greci che in quella dei romani, i quali erano convinti che il matrimonio era desiderato dagli stessi dei. Questi due popoli avevano idee ben chiare circa l’esistenza della legge naturale (lex naturalis) che precede le leggi degli uomini (legge positiva) ed erano convinti dell’esistenza di un diritto antecedente, una legge non scritta, che precede le leggi formulate dai giuristi.

La Chiesa ha espresso il suo punto di vista con molti documenti sulla famiglia. Oltre al Concilio Vaticano II e moltissimi discorsi dei Papi, ci sono interventi magisteriali contenuti nei seguenti documenti: Leone XIII: Arcanum Divinae Sapientiae (10-2-1880); Pio XI: Casti Connubii (31- 12- 1930); Giovanni Paolo II: Familiaris Consortio (1981); Pontificio Consiglio per la Famiglia: Famiglia, Matrimonio e “unioni di fatto” (2000). Continuando questa lunga tradizione, quindi, Papa Benedetto XVI ha partecipato all’Incontro di Milano presentando al Mondo il pensiero ufficiale della Chiesa su matrimonio e famiglia nel XXI secolo.