di Luca Marcolivio
CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 27 giugno 2012 (ZENIT.org) – Proseguendo la sua catechesi sulla preghiera in San Paolo, durante l’Udienza Generale di stamattina, papa Benedetto XVI si è soffermato sulla Lettera ai Filippesi, che mette in luce il senso di gratitudine a Dio dell’Apostolo, anche nell’imminenza del martirio (cfr. Fil 2,27).
In carcere a Roma, Paolo “esprime la gioia di essere discepolo di Cristo, di potergli andare incontro, fino al punto di vedere il morire non come una perdita, ma come guadagno”. Dov’è che possiamo trarre la nostra letizia, anche in una situazione così tragica?
Il segreto di Paolo è quello di provare “gli stessi sentimenti di Cristo Gesù” (Fil 2,5), ovvero l’umiltà, la generosità, l’amore, l’obbedienza Dio, il dono di sé. È la sequela totale del Figlio di Dio, Via, Verità e Vita.
Il canto riportato nella Lettera ai Filippesi, denominato dalla tradizione come carmen Christo (canto per Cristo), “riassume tutto l’itinerario divino e umano del Figlio di Dio e ingloba tutta la storia umana”, ha spiegato il Papa: “dall’essere nella condizione di Dio, all’incarnazione, alla morte di croce e all’esaltazione nella gloria del Padre è implicito anche il comportamento di Adamo, dell’uomo dall'inizio”.
Gesù, Dio fattosi uomo, non vive la sua natura divina “per trionfare o per imporre la sua supremazia, non lo considera un possesso, un privilegio, un tesoro geloso”. Al punto che assume la “forma di schiavo” (“morphe doulos”, nell’originale greco dell’epistola paolina), cioè si è assimilato agli uomini nella povertà, nella sofferenza e nella morte. Il tutto per obbedienza al Padre, “fino alla morte, e a una morte di croce”, sottolinea San Paolo.
La Croce contribuisce a rovesciare il peccato originale di Adamo, il quale “creato a immagine e somiglianza di Dio, pretese di essere come Dio con le proprie forze, di mettersi al posto di Dio, e così perse la dignità originaria che gli era stata data”. Gesù compie l’esatto contrario: si trova nella “condizione di Dio” ma si abbassa alla condizione umana “per redimere l’Adamo che è in noi e ridare all’uomo la dignità che aveva perduto”.
Al contrario, la logica umana, anche dopo il sacrificio redentivo di Cristo, “ricerca spesso la realizzazione di se stessi nel potere, nel dominio, nei mezzi potenti” e l’uomo si ostina “a voler costruire con le proprie forze la torre di Babele per raggiungere da se stesso l’altezza di Dio, per essere come Dio”.
L’Incarnazione e la Croce, però, dimostrano “che la piena realizzazione sta nel conformare la propria volontà umana a quella del Padre, nello svuotarsi dal proprio egoismo, per riempirsi dell’amore, della carità di Dio e così diventare veramente capaci di amare gli altri”.
Non è “rimanendo chiuso in sé” che l’uomo realizza se stesso. Adamo non ha sbagliato in sé nell’imitare Dio, quanto nell’idea di Dio che “non vuole solo grandezza” ma è principalmente “amore che si dona già nella Trinità e poi nella creazione”.
L’ascesa a Dio avviene quindi “nella discesa dell’umile servizio”, essenza di Dio che, in Gesù, si china a lavare i piedi dei discepoli, esortandoli a fare lo stesso tra di loro (cfr. Gv 13,12-14).
L’inno contenuto nella Lettera ai Filippesi, offre due indicazioni importanti per la nostra preghiera: in primo luogo che Dio è “l’unico Signore “della nostra vita, in mezzo ai tanti «dominatori» che la vogliono indirizzare e guidare”, l’unico tesoro per il quale “vale la pena spendere la propria esistenza”.
La seconda indicazione è data dalla prostrazione, dalla genuflessione, anche fisica, che va compiuta “non per abitudine e in fretta, ma con profonda consapevolezza”, trattandosi di un modo in cui “confessiamo la nostra fede in lui”, ha detto il Papa.
A conclusione della catechesi, il Santo Padre è tornato al dilemma iniziale, dandovi l’idonea spiegazione: San Paolo gioisce di fronte al rischio imminente del martirio, perché “non ha mai allontanato il suo sguardo da Cristo sino a diventargli conforme nella morte, «nella speranza di giungere alla risurrezione dai morti» (Fil 3,11)”.