di Monsignor Enrico Dal Covolo
Magnifico Rettore della Pontificia Università Lateranense
ROMA, martedì, 26 giugno 2012 (ZENIT.org).- Il titolo di questo paragrafo è ricavato invece da un libro molto più recente di quello di Newman. Esso si intitola così: La cultura della qualità.1
Che cosa significa cultura della qualità?
E soprattutto, che cosa intendiamo qui per promozione della qualità?
“Promuovere la qualità di una Università/Facoltà” – risponde il nostro volume – “significa evidenziare il valore delle attività svolte da tale istituzione, consolidarne gli aspetti positivi e, laddove necessario, migliorare quelli carenti. A tale scopo risulta appropriata l’azione valutativa. Occorre, perciò, in primo luogo identificare i criteri che, sulla base della sua missione, ne definiscono la qualità [si continua a parlare, come è evidente, di una Università/Facoltà]. In secondo luogo, è necessario raccogliere informazioni pertinenti, valide e affidabili circa lo svolgersi dell’attività istituzionale secondo i criteri precedentemente identificati. Infine, va espresso un giudizio di merito, a partire dai suddetti criteri, circa la qualità dell’attività svolta, tenendo conto delle informazioni raccolte” (CQ, p. 27).
Anche qui, cerco di co-stringere al massimo i contenuti del volume, ai fini delle nostre argomentazioni.
Per realizzare concretamente quell’idea di università, che abbiamo cercato di delineare fin qui, è indispensabile che la cultura della qualità divenga lo stile della vita accademica ordinaria.
Ciò significa che le iniziative messe in atto per la promozione della qualità – pur con i loro eventuali limiti – non dovranno mai essere viste come un atto burocratico, fiscale, che bisogna pur adempiere (con un fastidio più o meno celato); e prima si finiscono, meglio è: via il dente, via il dolore!
Significa piuttosto essere intimamente persuasi che le varie iniziative di valutazione e di promozione della qualità non puntano tanto a premiare o a punire un’istituzione accademica, un corso, un professore, un’attività… Si propongono invece di migliorare la possibilità di raggiungere i fini, per cui l’istituzione, il corso, il professore… agiscono. “Si tratta di offrire un sostegno alla realizzazione del processo formativo nel suo insieme e alla ricerca, e non di attuare una sorta di controllo fiscale o sanzionatorio” (CQ, p. 4).
Da questo punto di vista, la valutazione e la promozione della qualità, con le iniziative connesse, devono rappresentare una sollecitudine permanente delle nostre università.
Ritengo che il volume preparato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica (al di là di ogni appartenenza confessionale) possa costituire un punto sicuro di riferimento. Rappresenta anche un’ottima Guida per l’autovalutazione: in verità, dobbiamo persuaderci che il protagonista più efficace della cultura della qualità è ciascuno di noi, ogni persona che partecipa alla vita dell’università.
Edgar Morin, in un testo assai diffuso, ha delineato con chiarezza l’obiettivo formativo – che è poi il medesimo obiettivo della qualità accademica –, a cui l’università deve puntare. “L’obiettivo della formazione”, scrive questo filosofo francese, ancora vivente, salutato dai media, in maniera un po’ enfatica, come il padre del pensiero della complessità nel tempo della globalizzazione; ebbene, secondo Morin, “l’obiettivo della formazione non è dare all’allievo una quantità sempre maggiore di conoscenze, ma è costituire in lui uno stato interiore profondo, una sorta di polarità del’anima che lo orienti in senso definitivo, per tutta la vita. Ciò significa che imparare a vivere richiede non solo conoscenze, ma la trasformazione, nel proprio essere mentale, della conoscenza acquisita in sapienza, e l’incorporazione di questa sapienza nella propria vita”.2
La mia esperienza di docente e di formatore
Ci siamo intrattenuti finora su quel munus educativum, che l’università deve assumere per la crescita integrale della persona umana in questa società complessa.
Adesso invece desidero esprimere alcune convinzioni che ho maturato nella mia esperienza quarantennale di docente e di educatore salesiano, oggi chiamato al ministero di Rettore della cosiddetta “Università del Papa”.
Come docente salesiano ho avuto la gioia e la grazia di incontrare moltissimi giovani. Tra di essi sono tanti coloro che ci autorizzano, con ragionevole speranza, alla possibilità di educare alla vita buona del Vangelo, secondo il titolo suggestivo degli Orientamenti Pastorali dell’Episcopato italiano per gli anni 2010-2020.
Tra i moltissimi esempi che potrei citare, vorrei ricordare una delle icone più belle del mondo giovanile contemporaneo, che in occasione della mia partecipazione alla GMG di Madrid ho potuto contemplare di persona. Al di là del successo in termini di numeri, al di là delle diverse valutazioni che delle GMG si danno, alcune entusiastiche, altre più critiche, ci sono dei dati oggettivi: adolescenti e giovani, provenienti da tutto il mondo, accompagnati dai loro educatori, si radunano per ascoltare dei messaggi impegnativi; un pensiero non debole, ma forte, secondo il quale esiste una verità che valga per tutti; per accogliere una visione antropologica ispirata dalla ragione in armonia con la fede del Vangelo: una visione molto impegnativa, che richiede sacrificio e dedizione.
Ho incontrato a Madrid la scorsa estate, ho incontrato nei lunghi anni di docenza presso l’Università Salesiana, incontro oggi all’Università Lateranense, giovani che hanno ideali alti e nobili da purificare, da liberare, da maturare.
C’è naturalmente una riflessione complementare. Non poche volte incontro educatori scoraggiati dagli insuccessi. Ci sono infatti fenomeni che fanno pensare: ragazzi sfiduciati e depressi, oppure giovani schiavi di dipendenze nocive, dall’alcool all’erotismo. Vi cito solo alcuni titoli di studi seri e aggiornati della sociologia giovanile, che cercano di ritrarre quello che sta capitando: Perché siamo infelici; L’epoca delle passioni tristi; Fragile e spavaldo, ritratto dell’adolescente di oggi. Un altro titolo eloquente è quello del saggio di Umberto Galimberti: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. 3
Che cos’è il nichilismo? Non c’è niente per cui valga la pena vivere e morire, combattere e lavorare, sperare e soffrire. Di qui l’insaziabilità del desiderio e la ricerca di evasioni sempre più depravate, la mancanza di senso spirituale, l’analfabetismo emotivo. Non apro il discorso sulle ricadute dell’uso dei personal media e dei social network, che con la strada sono ormai diventati luoghi dove incontrare i giovani e stabilire con loro una relazione educativa. Così come non lo apro sul bullismo scolastico.
Di fronte a questo quadro, che sembra indurci al pessimismo, allo scoraggiamento, all’inazione, Benedetto XVI, nella lettera inviata alla diocesi di Roma sul compito urgente dell’educazione, che ha poi ispirato gli Orientamenti Pastorali dell’Episcopato italiano, ci dice: «Non temete! Tutte queste difficoltà, infatti, non sono insormontabili. Sono piuttosto, per così dire, il rovescio della medaglia di quel dono grande e prezioso che è la nostra libertà, con la responsabilità che giustamente l’accompagna. A differenza di quanto avviene in campo tecnico o economico, dove i progressi di oggi possono sommarsi a quelli del passato, nell’ambito della formazione e della crescita morale delle persone non esiste una simile possibilità di accumulazione, perché la libertà dell’uomo è sempre nuova, e quindi ciascuna persona e ciascuna generazione deve prendere di nuovo, e in proprio, le sue decisioni. Anche i più grandi valori del passato non possono semplicemente ess
ere ereditati, vanno fatti nostri e rinnovati attraverso una, spesso sofferta, scelta personale».4
Questo invito a coltivare la speranza in campo educativo non è ingenuo, pressappochistico, superficiale. Ce lo assicura quel grande genio della pedagogia, san Giovanni Bosco. Egli ha elaborato una metodologia educativa, nota come «sistema preventivo», che invita l’educatore a sviluppare le risorse di ragione e di fede che ogni giovane, anzi ogni uomo, porta con sé. 5
Che cosa si intende per ragione nel sistema preventivo di don Bosco? A questa domanda ha dato una risposta penetrante il beato Papa Giovanni Paolo II, spiegando che essa è un’antropologia educativa e una metodologia dell’azione educativa: «Il termine ragione sottolinea, secondo l’autentica visione dell’umanesimo cristiano, il valore della persona, della coscienza, della natura umana, della cultura, del mondo del lavoro, del vivere sociale, ossia di quel vasto quadro di valori che è come il necessario corredo dell’uomo nella sua vita familiare, civile e politica… In sintesi, la ragione, a cui don Bosco crede come dono di Dio e come compito inderogabile dell’educatore, indica i valori del bene, nonché gli obiettivi da perseguire, i mezzi e i modi da usare. La ragione invita i giovani a un rapporto di partecipazione ai valori compresi e condivisi. Egli la definisce anche ragionevolezza per quel necessario spazio di comprensione, di dialogo e di pazienza inalterabile in cui trova attuazione il non facile esercizio della razionalità. L’educatore moderno deve saper leggere attentamente i segni dei tempi per individuarne i valori emergenti che attraggono i giovani: la pace, la libertà, la giustizia, la comunione e la partecipazione, la promozione della donna, la solidarietà, lo sviluppo, le urgenze ecologiche».6
Benedetto XVI, poi, ha fatto dell’amicizia tra fede e ragione una delle cifre, forse la più importante, del suo Magistero. La «ragione» del «sistema preventivo» di don Bosco, integrata e perfezionata dalla «religione», ricorda proprio il logos di cui il santo Padre spesso parla, un concetto largo e fiducioso della ragione umana: largo perché non è limitato agli spazi della cosiddetta ragione empirico-scientifica, ma è aperto alle questioni fondamentali e irrinunciabili del vivere umano; fiducioso perché, se accoglie le ispirazioni della fede cristiana e la legge sovrana dell’amore, è propulsore di una civiltà che riconosce la dignità della persona umana, l’intangibilità dei suoi diritti e la cogenza dei suoi doveri.
Don Bosco, da parte sua, che riscuoteva la simpatia e, spesso, l’appoggio materiale e morale persino degli anticlericali della sua epoca, diceva che lo scopo finale della sua proposta educativa era fare di ogni ragazzo «un buon cristiano e un onesto cittadino». Cioè una persona umana integralmente sviluppata, proprio come auspicano i Vescovi italiani nei loro Orientamenti Pastorali quando, in nome della crescita della persona umana e della sua verità, domandano all’università di operare con coraggio e larghezza di vedute.
<p>Un altro suggerimento ci viene ancora da don Bosco, dalle sue intuizioni e dalla sua esperienza. Oggi, la società è plurale e complessa. Allora chi vuole fare una cosa non può fare a meno, senza mai perdere la sua ispirazione originaria e la sua identità, di stabilire collaborazioni, ed entrare in rete. Anche qui don Bosco offre un input metodologico. Ha chiesto la collaborazione di tanti, diversificata, proporzionata al contributo che ognuno poteva dare, ma non è mai stato un battitore libero, un solitario, anche se eroico. Ha creduto moltissimo nelle risorse del laicato, che ha coinvolto, entusiasmato, convocato. Non sempre ha avuto successo, ma non ha mai rinunciato a questo principio.
Organizziamo la speranza!
L’organizzazione include anche la raccolta delle risorse, la condivisione, la comunicazione, possibili forme di collaborazione, la nascita sul territorio di vere e proprie «costituenti» educative per sviluppare la metodologia del lavoro in rete. Non è questo un compito in cui le nostre istituzioni scolastiche e accademiche possono risultare propositrici e promotrici?
E concludo, ancora una volta con un riferimento personale.
Per alcuni anni, i Superiori religiosi mi hanno affidato l’incarico di Postulatore delle cause dei santi della Famiglia Salesiana. Ho avuto così la grazia di poter meglio conoscere quell’universo umano di splendide figure che sono i santi.
Tra essi vorrei ricordare un collega, Giorgio La Pira, professore di Diritto romano all’Università di Firenze, dotato di una straordinaria competenza nella sua disciplina, educatore eccellente sempre ricercato dai giovani, con i quali intratteneva un dialogo vivo e attento alle loro esigenze, pronto, quando le circostanze lo richiesero, ad assumere gravi responsabilità civili e politiche, che svolse con quell’incidenza profetica che tutti, amici ed avversari, gli riconobbero.
Perché lo ricordo oggi? Perché voglio dire agli educatori che operano nell’ambiente dell’università che l’esercizio della professione è la nostra vocazione per diventare santi, e per educare allievi santi: purché – proprio come il professor Giorgio La Pira – sappiamo assumere quelle competenze e quelle responsabilità educative, che fanno di un professore un uomo e una donna pensosi e operosi, sempre consacrati al bene.
(La terza parte è stata pubblicata lunedì 25 giugno)
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NOTE
1 Guida per le Facoltà Ecclesiastiche, ed è curato dalla Congregazione per l’Educazione Cattolica (Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2011, 234 pp.). D’ora in poi: CQ.
2 E. Morin, La testa ben fatta. Riforma dell’insegnamento e riforma del pensiero, Raffaello Cortina Editore, Milano 2000, p. 45.
3 U. Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, Feltrinelli, Milano 20086. Leggiamo a p. 11: «I giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare…».
4 Benedetto XVI, Lettera alla Diocesi e alla Città di Roma sul compito urgente dell’educazione, 21 gennaio 2008.
5 Sull’argomento, vedi P. Chávez Villanueva, Il servizio salesiano ai giovani nel campo dell’educazione. Lectio magistralis in occasione del conferimento del Dottorato Honoris Causa presso l’Università Cattolica “Giovanni Paolo II” di Lublino, 18 novembre 2011.
6 Giovanni Paolo II, Iuvenum Patris. Lettera nel centenario della morte di san Giovanni Bosco 11, 31 gennaio 1988.