di Donata Fontana
ROMA, giovedì, 31 maggio 2012 (ZENIT.org).- Il 24 maggio il Parlamento Europeo ha approvato, con maggioranza schiacciante, la risoluzione 2012/2657 dedicata alla “Lotta all’omofobia in Europa”; su questa vicenda possono essere sollevate alcune questioni.
Innanzitutto la modalità di presentazione e approvazione del testo della Risoluzione: introdotta la questione all’ordine del giorno senza il parere di tutti i capigruppo, tra stesura del progetto iniziale – accuratamente redatto dall’intergruppo LGBT (Lesbiche - Gay - Bisessuali - Transgender) - e termine fissato per la presentazione degli eventuali emendamenti da discutere, è passata solo un’ora. Il testo è stato poi approvato durante un’assemblea plenaria, in cui è d’uso un voto piuttosto formale e veloce, supponendo che la discussione in merito sia già avvenuta nei giorni precedenti.
Accanto a queste furberie tecniche, la problematica giuridica di fondo: l’Unione europea non ha diretta competenza sul tema e difetta di autorità per pressare gli Stati membri a legalizzare unioni civili e matrimonio tra persone dello stesso sesso. Eppure, la lista dei “consigli” sul diritto di famiglia, che l’UE caldamente propone ai Governi europei, tradisce una certa insistenza: nel 1994, nel 2000 e nel 2004 le istituzioni europee hanno ribadito l’importanza di parificare legalmente le unioni tra persone eterosessuali e omosessuali, giudicando lesive dei diritti dell’uomo l’impossibilità per gli omosessuali di adottare figli. Sebbene questi interventi non abbiano efficacia giuridica, dispiegano una sicura influenza politica nell’orientare le decisioni autonome dei singoli Paesi, spostando sensibilmente il confine tra obbligo e facoltà di adeguamento.
Altra questione: la terminologia e l’ideologia. Il testo della Risoluzione non è neutro; presenta invasioni di campo e distorsioni evidenti, rivelando – ma non è detto ci sia mai stata l’intenzione di nasconderlo – il preciso programma ideologico dell’UE. Così è quando, oramai praticamente sempre, l’UE utilizza nei suoi documenti più ufficiali l’espressione “parità di genere” anziché “parità tra i sessi” (ad es.: solo nella Risoluzione tra la parità tra uomini e donne del marzo scorso l’espressione è utilizzata almeno una ventina di volte) e quando si ingegna a far discendere dalle mitologiche libertà base dei cittadini europei la necessità di rivedere la definizione di matrimonio o di famiglia (quindi, in base al rispetto della “libertà di circolazione delle persone”, i documenti di identità rilasciati dai vari Stati membri dovrebbero, ad esempio, essere uniformi nel riconoscere unioni di fatto e convivenze alla stregua del matrimonio).
Già la Risoluzione del 13 marzo 2012, seppur occupandosi, come da intestazione, solo della “Parità tra uomini e donne”, si spingeva, all’art. 5, a invitare «la Commissione e gli Stati membri a elaborare proposte per il riconoscimento reciproco delle unioni civili e delle famiglie omosessuali»; all’art. 7 si preoccupava per «l'adozione da parte di alcuni Stati membri di definizioni restrittive di «famiglia» con lo scopo di negare la tutela giuridica alle coppie dello stesso sesso e ai loro figli»; all’art. 47 si premurava di ricordare «che ogni donna deve avere il controllo sui propri diritti sessuali e riproduttivi anche beneficiando dell'accesso a metodi contraccettivi di alta qualità e a prezzi accessibili » ribadendo la posizione dell’Unione «in merito ai diritti alla salute sessuale e riproduttiva affermata nelle risoluzioni del 1° febbraio 2010 e dell'8 febbraio 2011 sulla parità tra donne e uomini nell'Unione europea».
Per non essere da meno, la Risoluzione del 24 maggio sembra diretta inizialmente – e giustamente - a condannare e prevenire le discriminazioni intollerabili e le ingiuste violenze a danno di persone omosessuali, ma si allunga fino a indirizzare suggerimenti legislativi di grande portata ai Governi destinatari della Risoluzione. Infatti, già dall’art. 9, il Parlamento sostiene «che i diritti fondamentali delle persone LGBT sarebbero maggiormente tutelati se esse avessero accesso a istituti giuridici quali coabitazione, unione registrata o matrimonio» e contemporaneamente «plaude al fatto che sedici Stati membri offrono attualmente queste opportunità e invita gli altri Stati membri a prendere in considerazione tali istituti». Tralasciando il fatto che, nella sequenza riportata, il climax terminologico convivenza-unione-matrimonio pare accomunare, con studiata indifferenza, i primi due al terzo, resta bene impresso l’invitorivolto ai legislatori statali ad adeguarsi con quei sedici Paesi “virtuosi” che l’UE promuove. Combattere le discriminazioni in base “all’orientamento sessuale” sul posto di lavoro o nell’accesso ai servizi pubblici non richiede necessariamente, almeno a rigor di logica, anche l’impegno dei Governi ad emanare norme che permettano i matrimoni tra persone dello stesso sesso; rispetto dei diritti fondamentali e ridefinizione della famiglia non paiono, in altre parole, inevitabilmente collegati.
Tutto questo lavorio è la pronta risposta alla statistica svolta dall’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali nell’ambito di una ricerca sulla discriminazione delle persone LGBT in Europa; neanche a dirlo, gli esiti dell’indagine sono stati giudicati allarmanti, poiché quasi la totalità delle persone intervistate hanno dichiarato di ritenere che sì, in Europa vi sono ancora troppe diversità di trattamento nei confronti delle persone omosessuali. Peccato che alla statistica potessero partecipare solo persone LGBT: i risultati non sono certamente neutrali e i 370.00 euro di fondi UE - destinati all’indagine – sembrano proprio mal riposti.