di Eugenio Fizzotti
ROMA, mercoledì, 16 maggio 2012 (ZENIT.org).- Continuando a invitare tutti i membri della sua Diocesi a effettuare un cammino solido, personale e comunitario verso l’anno della fede, Mons, Giuseppe Fiorini Morosini, Vescovo di Locri-Gerace, ha stilato una nuova e originale pista di riflessione nella quale fa riferimento alla seconda apparizione di Gesù nel Cenacolo, avvenuta otto giorni dopo la risurrezione (Gv 20, 19-28), che «si conclude con l’atto di fede di Tommaso, che volle vedere prima di credere, e con l’ammonizione di Gesù allo stesso Tommaso: Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno».
La tematica presa in considerazione è quanto mai attuale perché consente di prendere in considerazione alcuni interrogativi fortemente significativi: «Possiamo ritenerci noi beati perché stiamo credendo senza aver visto? Ma veramente non appartiene a una fede vera aspettarsi di vedere i segni che ci aiuterebbero a credere? L’apologetica cristiana, quando affronta il tema delle origini divine di Cristo, non ricorre ai segni che egli ha dato attraverso i miracoli? E allora, che male c’è voler vedere i segni?».
E ciò per consentire ai credenti di riconoscere che Gesù, mentre «ha tacciato di incredulità la sua generazione perché chiedeva segni: Una generazione perversa e adultera pretende un segno! (Mt 12, 39)», qualche volta «è proprio lui ad affermare di operare segni perché la gente che gli sta attorno creda. Infatti, quando dal cielo si udì la voce che affermava di glorificarlo, Gesù osservò: Questa voce non è venuta per me, ma per voi (Gv 12, 20-30). Dopo la moltiplicazione dei pani egli rimproverò la gente perché non seppe vedere in quel miracolo un segno della sua identità messianica: Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato (Gv 6, 26)».
Nucleo fortemente valido è quindi la considerazione che le affermazioni di Gesù vanno prese nel loro insieme, perché egli alcune volte ribadisce un aspetto della realtà e altre volte ne evidenzia un altro, senza negare quanto ribadito in altri momenti. E riprendendo l’esperienza di Tommaso, dal quale Gesù si sarebbe aspettato una fede semplice, basata sulle testimonianze degli altri apostoli, Mons. Morosini, dopo aver posto l’accento sul fatto che Tommaso vuole vedere per credere, si chiede se «sarà stato solo il fatto dell’aver visto che ha spinto Tommaso a credere, o non piuttosto l’amore verso il maestro coltivato lungo gli anni della sequela, per cui, senza andare a toccare, si inginocchia, con timore misto a vergogna e a gioia, e fa il suo atto di fede: Mio Signore e mio Dio».
E come risposta a tale interrogativo sottolinea che «dall’atto di fede proferito non sembra che in Tommaso prevalga la certezza della ragione, quanto piuttosto la potenza dell’amore, che la visione del maestro ha avuto la forza di far rivivere». Ciò vuol dire che non sono i miracoli a far credere, ma è la fede a far vedere la presenza misericordiosa di Dio in un avvenimento non spiegabile razionalmente. Ecco perché, pur riconoscendo che «i miracoli aiutano la fede, ma non la generano automaticamente», occorre riconoscere che dinanzi a certi fatti inspiegabili dal punto di vista della ragione (es. guarigioni improvvise e istantanee) non tutti diventano credenti.
Essendo un dono di Dio che richiede una corrispondenza da parte dell’uomo «la fede si basa su alcune condizioni che sono prettamente umane. Credere senza vedere significa procedere a un confronto reale con se stessi, del senso che vogliamo dare alla vita, delle nostre aspettative, degli ideali che ci muovono, con la vita e gli insegnamenti di Gesù. Il credere, almeno per quanto riguarda la nostra parte, nascerebbe dal fatto che troviamo in questo confronto interiore con Gesù e la sua parola la risposta ai nostri problemi e conseguentemente la pace e la serenità, individuale e collettiva, perché persone che hanno pace interiore costruiscono una società di pace. Da questo incontro scaturirebbe la nostra adesione a lui e la volontà di sequela, cioè di mettersi al suo seguito per imitarlo. Gesù ha espresso tutto questo con la parabola del tesoro nascosto in un campo: Un uomo lo trova e lo nasconde di nuovo, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo (Mt 13, 44)».
Un riferimento esemplare a queste riflessione viene suggerito per Mons. Morosini dalla parabola del ricco cattivo e del povero Lazzaro (Lc 16, 19-31) perché è chiaro che da parte di Gesù emerge «la negazione che il miracolo possa generare automaticamente la fede: Se non ascoltano Mosé e i Profeti, neanche se uno risuscitasse dai morti saranno persuasi (Lc 16, 31)». E nello stesso tempo riconosce che c’è l’indicazione chiara di come procedere per una conversione di vita ai valori della fede: Hanno Mosé e i Profeti; ascoltino loro (Lc 16, 29).
Con estrema chiarezza, quindi, per il Vescovo di Locri-Gerace Gesù «indica l’origine della fede e della conversione di vita in un confronto diretto della propria coscienza con la Parola di Dio, che illumina e guida, e che, accolta, riesce a cambiare la vita. Ecco allora che cosa può significare credere senza aver visto».
E in vista di una concreta accettazione della sua proposta di riflessione Mons. Morosini dichiara che, se ci si trova dinanzi a una persona che non crede e vuole porsi domande di fede o a una persona la cui fede si è indebolita o è caduta in oblio o addirittura è rinnegata, non è necessario invocare miracoli o condurla in posti ove si crede accadano prodigi. Quello che occorre fare invece è invitare a confrontarsi con la Parola di Dio e con la vita della comunità cristiana che si sforza di testimoniare la fede, in modo da ricevere, soprattutto attraverso la preghiera comunitaria, la grazia di Dio che tutto rinnova e consente di maturare nello stile di vita solidale che caratterizza il vero cristiano.