di Marco Tosatti
ROMA, domenica, 13 maggio 2012 (ZENIT.org).- Richard Francis Burton e soprattutto John Hanning Speke sono passati alla storia come gli scopritori nel 1858 delle sorgenti del Nilo, che collocarono nel Lago Vittoria. Però, in realtà, fu un gesuita spagnolo, di Madrid, Pedro Páez, che aveva scoperto, due secoli prima, quale era la fonte principale di uno dei più grandi fiumi del mondo, quello che nella Fontana dei Quattro fiumi a piazza Navona si copre il volto.
La “rivendicazione” è fatta da uno scrittore spagnolo, Fernando Paz, nel suo “Antes que Nadie”. Paz dedica un capitolo all’eroismo del gesuita madrileno, che anticipò di due secoli lo svelamento di uno dei grandi miti della storia. Burton e Speke in effetti scoprirono l’origine del Nilo Bianco, nel punto più lontano dalla foce, nel lago Vittoria, ma in un fiume quello che conta è il flusso idrico, e in questo caso è il Nilo Blu che porta l’80 per cento delle acque, e che trattiene quelle del Nilo Bianco fino a Omdurman, imbrigliandole.
E sono proprio queste le acque che incontrò padre Páez. Il gesuita nacque nel 1654 a Olmeda de la Cebolla, studiò a Coimbra, divenne sacerdote a Goa, e iniziò un viaggio per giungere sulla costa somala. Un’odissea che lo portò a ogni genere di avventure: paludismo, pirati, cattura da parte dei turchi, torture e carcere, e infine vendita come schiavo a un sultano dello Yemen.
E poi la traversata a piedi nudi del deserto, cibandosi di cavallette. Páez percorse e descrisse zone come il deserto di Habramaut e Rub-al-Khali, della cui scoperto due secoli più tardi altri europei presero il merito.
Nel 1603 decise di partire per evangelizzare l’Etiopia, si fece chiamare Abdullah e si mise in marcia. Restò in Abissinia venti anni, e un giorno, accompagnando il re in una passeggiata a cavallo scoprì le fonti del Nilo. Era il 21 aprile del 1618. “Confesso che mirallegrai di vedere ciò che anticamente desiderarono tanto vedere il re Ciro e suo figlio Cambise, il grande Alessandro e il famoso Giulio Cesare”, scrisse nella sua “Storia di Etiopia” nel 1620, dove tratta della sua scoperta con distacco. Gli interessavano di più i battesimi.