La perfezione architettonica del Pantheon

Una visita alle meraviglie della chiesa di Santa Maria “ad Martires”

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di Paolo Lorizzo*

ROMA, sabato, 12 maggio 2012 (ZENIT.org).- Lasciando la caotica via del Corso e percorrendo via del Seminario si attraversa uno spicchio estremamente interessante del centro storico romano. Solo avventurandosi nelle strette e talvolta anguste viuzze è possibile cogliere l’essenza storica di questa città, per poi aprirsi improvvisamente in una piazza la cui bellezza lascia spesso senza fiato. E’ una delle emozioni che vive chiunque giunga quasi alla fine di via del Seminario, ritrovandosi improvvisamente ad ammirare l’imponente mole della chiesa di S. Maria ad Martires, meglio conosciuta come il Pantheon. Da qualsiasi prospettiva la si ammiri la struttura suscita quasi imbarazzo per cotanta imponenza, ma nulla in confronto all’ammirazione suscitata dall’impatto visivo appena varcata la soglia d’ingresso. Al contrario dei grandi monumenti dell’architettura greca infatti, nel mondo romano lo spettatore doveva meravigliarsi non per la monumentalità esterna ma per gli ampi spazi interni ed il pantheon applica perfettamente questa regola architettonica.

Situato alle estremità settentrionali di quell’area nota con il nome di Campo Marzio, il Pantheon venne costruito da Agrippa all’epoca dell’imperatore Augusto per celebrare il consesso degli dei e i membri della sua famiglia. Ancora oggi è chiaramente visibile sul timpano del frontone l’iscrizione dedicatoria di Agrippa, qui ricollocata dall’imperatore Adriano in seguito alla ricostruzione dell’intero edificio.

L’elemento progettuale più impressionante è l’aver costruito un edificio basandosi sul solido di una sfera immaginaria, dove l’altezza (43,44 metri) corrisponde esattamente al diametro. E’ degno di riflessione il fatto che sia l’unica cupola di epoca romana di queste dimensioni perfettamente conservata, che ha superato indenne agenti atmosferici, terremoti e, elemento non meno importante, quasi duemila anni di storia. La cupola rappresenta quanto di più perfetto gli architetti romani potessero realizzare. La sua stabilità è dovuta all’utilizzo di materiali edilizi sempre più leggeri nelle parti più vicine al grande ‘oculo’ centrale, con l’impiego di tufi e pietra pomice, materiali tradizionalmente poco pesanti.

La struttura centrale è preceduta da un pronao o vestibolo d’accesso sorretto da ben 16 colonne, 8 in granito grigio sulla fronte e 8 distribuite sulla restante superficie in granito rosso. La sua copertura è a doppio spiovente con capriate lignee originariamente nascoste da un soffitto piano realizzato in lastre di bronzo. Queste furono sottratte nel 1625 da papa Urbano VIII (prima di salire al soglio pontificio era noto col nome di Maffeo Barberini) per permettere a Gian Lorenzo Bernini di realizzare il magnifico Baldacchino della Basilica di San Pietro e per realizzare 80 cannoni destinati alla fortezza di Castel Sant’Angelo. Da questo evento fu elaborata il famoso detto “quello che non fecero i Barbari fecero i Barberini”, frase divenuta ormai celebre nella cultura popolare romana.

La porta d’ingresso, realizzata in bronzo, pur essendo antica, probabilmente proviene da un altro edificio storico a cui è stata sottratta in data imprecisata (la stessa cosa avvenne per la porta bronzea della Curia del Foro, successivamente ricollocata nel portale principale della Basilica di San Giovanni in Laterano). Varcata la soglia e accedendo all’aula circolare, la prima sensazione è quella di disorientamento. Ci si colloca infatti in uno spazio talmente ampio che non fornisce allo sguardo un solido punto di riferimento, creando una sorta di instabilità apparente, sensazione amplificata dalla bellezza e dall’integrità degli interni. L’aula infatti presenta ancora gran parte del suo originario rivestimento marmoreo, che investe e coinvolge l’osservatore proiettandolo improvvisamente indietro nel tempo. L’alternanza cromatica tra il giallo del ‘portasanta’ il rosso del porfido, il verde del ‘serpentino’ o le venature del pavonazzetto, conferisce infatti una visione d’insieme assolutamente unica, in cui elementi architettonici romani, medioevali/rinascimentali e moderni si integrano perfettamente tra loro.

Il merito dell’integrale conservazione dell’edificio, va attribuito all’imperatore Foca che lo donò nel 608 a papa Bonifacio IV, il quale, senza indugio, lo trasformò l’anno dopo in luogo di culto cristiano sancendolo come il primo tempio romano trasformato in chiesa ancora integro e funzionante in maniera ininterrotta per quasi duemila anni. Per l’occasione, l’imperatore donò una magnifica icona bizantina rappresentante la Vergine col Bambino ancora oggi visibile all’interno dell’abside centrale.

A partire dal XV secolo iniziarono alcuni interventi atti alla decorazione dell’austera architettura interna. Durante il pontificato di papa Eugenio IV il Pantheon subì un primo importante restauro e la risistemazione esterna dell’area, con l’eliminazione delle molte botteghe addossate alla struttura e sorte nei secoli. Tra gli affreschi più rilevanti è indubbiamente è la cosiddetta ‘Annunciazione’, situata nella prima nicchia a destra di chi entra, opera di Melozzo da Forlì.

Ad una rapida occhiata ci si rende subito conto d della presenza di una serie tombe, alcune appartenenti a grandi artisti del passato, quali Raffaello Sanzio, Annibale Carracci, Baldassarre Peruzzi e Arcangelo Corelli, altre appartenenti ad alcuni membri della famiglia reale, ancora oggi custodite e controllate da un gruppo di volontari dell’Istituto Nazionale per la Guardia d’Onore alle Reali Tombe del Pantheon. La presenza delle spoglie mortali dei componenti della famiglia reale ha suscitato negli anni le feroci polemiche conseguenti all’ambiguo atteggiamento politico dei Savoia durante il secolo scorso. Ma questa è un’altra storia.

* Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.

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ZENIT Staff

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