"Il non vedente è persona unica ed irripetibile"

La prolusione di mons. Zimowski al Convegno Internazionale su cecità e ipovedenza

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CITTA’ DEL VATICANO, sabato, 5 maggio 2012 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la prolusione di S.E. Mons. Zygmunt Zimowski, Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, al Convegno Internazionale di Studio “La persona non vedente: ‘Rabbunì, che io riabbia la vista’ (Mc 10, 51)”, svoltosi dal 4 al 5 maggio a Roma.

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All’inizio dei nostri Lavori, vorrei salutare l’Eminenza Reverendissima, le Eccellenze Reverendissime qui presenti, i carissimi Membri e Consultori del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, gli Eccellentissimi Ambasciatori, le illustri Personalità civili e scientifiche, i reverendi Sacerdoti, religiosi e religiose, i cari fratelli e sorelle.

Con gioia dò a tutti ed a ciascuno di voi il Benvenuto a questo Convegno Internazionale di Studio dedicato a “La persona non vedente: ‘Rabbunì, che io riabbia la vista’ (Mc 10, 51)”. Anche quest’anno avete compensato l’impegno organizzativo del nostro Dicastero e della Fondazione “Il Buon Samaritano”, giungendo qui numerosi: siamo oggi circa 300 persone, provenienti da oltre 45 Paesi dei cinque continenti.

Per l’aiuto fornitoci nell’organizzazione di questo Convegno sulla cecità e l’ipovisione, ringraziamo la CBM-Italia ed il suo Presidente e nostro Consultore, il Dott. Mario Angi, persona che sa unire l’impegno professionale e universitario in Italia al volontariato in favore dei Paesi economicamente svantaggiati.

Nel programmare: “La persona non vedente: ‘Rabbunì, che io riabbia la vista’ (Mc 10, 51)”, abbiamo, come sempre, tenuta ben presente la centralità della persona, in termini di Chiesa Universale, di Magistero e di studi antropologici pur ricordando l’importanza del dialogo con le altre religioni e del possibile contributo offerto anche da scienziati di altre fedi.

1. La dignità umana e la vocazione cristiana dei non vedenti

Nel contesto culturale attuale, largamente caratterizzato dall’autonomia delle potenzialità dei singoli soggetti, spesso si ritrova esso stesso cieco nei confronti della vulnerabilità della persona umana e dei bisogni che da questa vulnerabilità derivano; occorre, quindi, mettere o rimettere a tema la difesa dei soggetti deboli, come sono le persone cieche. Non si tratta, certo, di una nuova forma di un atteggiamento paternalistico più volte sperimentato, bensì di fare in modo che le situazioni-limite rappresentino momenti privilegiati per un recupero forte del senso dell’«umano» in una società sempre più differenziata e individualizzata, ma sempre più spaesata e anatomica, quale è la nostra. In tale senso, se non può essere affermato che la diversità, compresa quella derivante dalla cecità o da patologie correlate, sia un valore, in quanto si tratta sempre di una privazione di un bene, il valore risiede invece sempre e comunque nella dignità ontologica della persona umana.

In forza, quindi, di questa dignità, lo stesso scopo della tutela, del prendersi cura e del rispetto, deve essere quello della promozione umana del livello di personalità che è proprio di ogni uomo, senza comunque mai dimenticare la sua reale condizione: il disabile, come il non vedente è persona unica ed irripetibile nella sua uguale e inviolabile dignità, mentre la disabilità costituisce uno di quei limiti che ci manifestano creature di Dio. Al riguardo, le parole pronunciate dal Beato Giovanni Paolo II in occasione del Simposio Dignità e diritti delle persone con handicap mentale, del gennaio 2004, costituiscono un efficace insegnamento anche per i lavori in questo nostro Convegno: «Senza dubbio le persone disabili, svelando la radicale fragilità della condizione umana, rappresentano una espressione del dramma del dolore e in questo nostro mondo, assetato di edonismo e ammaliato dalla bellezza effimera e fallace, le loro difficoltà sono spesso percepite come uno scandalo e una provocazione e i loro problemi come un fardello da rimuovere o da risolvere sbrigativamente. Esse invece sono icone viventi del Figlio crocifisso, esse rivelano la bellezza misteriosa di Colui che per noi si è svuotato e si è fatto obbedente sino alla morte, esse ci mostrano che la consistenza ultima dell’essere umano, al di là di ogni apparenza, è posta in Gesù Cristo».

In tale senso – sono ancora le parole del Santo Padre -, «le persone handicappate sono testimoni privilegiati di umanità», e nei loro confronti è importante, anzi, necessario, fare ciò che è veramente bene per ciascuno di loro, attuare sempre più le loro ricchezze, rispondendo con fedeltà alla loro propria e singolare vocazione umana e soprannaturale. In tale modo si ottempera pure alla giustizia che consiste, in particolare, nel mettersi in ascolto attento e amoroso della vita dell’altro e nel rispondere ai bisogni singolari e diversi di ciascuno, tenendo conto delle loro capacità e dei loro limiti.

2. La Chiesa a servizio dei non vedenti

Attualmente, meno del 5 percento dei bambini con deficit visivi ha accesso ad occhiali correttivi nei Paesi in via di sviluppo ove, secondo le statistiche globali,  risiede il 90 percento circa delle persone con disabilità visiva parziale o totale. In effetti l’ipovedenza e la cecità, che secondo le statistiche pubblicate dall’OMS colpiscono rispettivamente 246 milioni e 39 milioni di persone nel mondo, costituiscono ancora oggi minorazioni di grande rilevanza sia in termini di salute e di integrazione sociale sia di carenza di accesso agli strumenti di prevenzione, cura e correzione, in particolar modo nei Paesi economicamente svantaggiati. Inoltre in ben l’80 percento dei casi, secondo le stesse statistiche, la disabilità avrebbe potuto essere prevenuta o potrebbe essere sensibilmente ridotta od annullata da strumenti di correzione, come gli occhiali, o da interventi chirurgici, come nel caso della cataratta, oggi come oggi considerati “di routine” in Occidente.

La Chiesa, da parte sua e secondo il mandato ricevuto da Gesù Cristo, ha il compito di scrutare non solo i segni dei tempi e di interpretarli alla luce del Vangelo (cfr. CONC. ECUM. VATICANO II, Cost. past. Gaudium et spes, n.4), ma anche di costruire dentro la storia il Regno di Dio che va oltre il tempo, decodificando, nelle vicende e nelle attese degli uomini, i segni della presenza dello Spirito, le tracce della presenza del Dio-con-noi, le sue indicazioni e i suoi inviti all’azione. I segni dei tempi non solo sono ravvisabili nei grandi movimenti della storia, ma anche presenti nel tempo di ciascuno di noi, nelle nostre storie e nelle relazioni che quotidianamente intessiamo. In essi la Chiesa, sacramento universale di salvezza, si fa pellegrina nella storia, compagna di viaggio di ogni persona, per annunciare la salvezza e operare per la promozione della sua dignità: una comunità ecclesiale nella quale, ancora oggi, il Signore Gesù si fa presente e ‘ri-dice’ la bontà e la misericordia di Dio verso il suo popolo, nelle parole nelle opere dei suoi discepoli. In Gesù Cristo, infatti, il Dio invisibile e ineffabile, si è fatto vicino all’uomo, è diventato ‘volto’ e ‘parola’.

“Rabbunì, che io riabbia la vista”. Abbiamo sentito nel Vangelo di questa mattina il grido di Bartimeo, figlio di Timeo, che era cieco: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Questa preghiera tocca il cuore di Cristo, che si ferma, lo fa chiamare e lo guarisce. Il momento decisivo è stato l’incontro personale, diretto, tra il Signore e quell’uomo sofferente. Si trovano l’uno di fronte all’altro: Dio con la sua volontà di guarire e l’uomo con il suo desiderio di essere guarito.

Due libertà, due volontà convergenti: “Che vuoi che io ti faccia?”, gli chiede il Signore. “Che io riabbia la vista!”, risponde il cieco. “Va’, la tua fede ti ha salvato”.  Con queste parole si compie il miracolo. Gioia di Dio, gioia dell’uomo. E Bartimeo, venuto alla luce, – narra il Vangelo- “prese a seguirlo per la strada”: diventa cioè un suo d
iscepolo e sale col Maestro a Gerusalemme, per partecipare con Lui al grande mistero della salvezza” (Benedetto XVI, 29 ottobre 2006, Angelus). Sapeva che poteva contare su questo Cuore pieno di comprensione e di perdono.

Ecco dunque la sollecitazione ad entrare in contatto con le nuove sensibilità e le domande che provengono dalle persone cieche: sono soprattutto le domande di relazione, di reciprocità, anche di accesso alle varie forme di servizio ecclesiale e di piena comunione nella comunità dei credenti. In tale contesto, la risposta effettiva a queste domande può diventare l’elemento di verifica dell’efficacia pastorale, che assicura alle persone cieche una partecipazione piena alla vita della comunità cristiana come soggetti che hanno bisogno di ricevere, ma che sono anche capaci di dare e desiderano farlo. In questa opera non mancano testimonianze preziose e struggenti di Istituti Religiosi, di Associazioni, di Parrocchie che già «si presentano come esperienze di condivisione fraterna, basata sul Vangelo e capace di mettere in grado le persone in difficoltà, in questo caso malate e non vedenti, di essere pienamente partecipi della vita della Comunità ecclesiale e costruttrici della civiltà dell’amore» (BENEDETTO XVI, Discorso in occasione dell’Incontro con i partecipanti ai pellegrinaggi dell’O.F.T.A.L. [Opera Federativa Trasporto Ammalati a Lourdes] e del M.A.C. [Movimento Apostolico Ciechi], 17 marzo 2007).

Per intraprendere o per accrescere tale innovativa opera la comunità ecclesiale è convinta che riflettere sulla cecità, come su ogni disabilità più o meno grave, è riflettere su Dio e sui misteriosi percorsi del suo amore, avvertendo al contempo l’obbligo, sull’esempio del suo Signore, di rompere, dentro e fuori di sé, le barriere che impediscono un pieno accesso e una piena inclusione di questi fratelli a quel Dio-Trinità, Comunione-di-Amore, origine e termine della nostra relazionalità umana ed ecclesiale. In tale modo, potranno trovare adeguata realizzazione le parole del Santo Padre Giovanni Paolo II, quando affermava che «in nome di Cristo, la Chiesa si impegna a farsi per voi sempre più “casa accogliente”» (GIOVANNI PAOLO II, Omelia in occasione del Giubileo della Comunità con i disabili, 3 dicembre 2000).

La Chiesa, pertanto, anche con questo Convegno Internazionale, intende farsi compagna di un pellegrinaggio, che, nella ‘terra straniera’ della cecità, può fare riscoprire la presenza discreta, a volte impalpabile e silenziosa di un Dio che si rivela anzitutto come tenera comunione anche attraverso il segno di una comunità che intende anzitutto infrangere le molte e invisibili barriere mentali, che impediscono alle persone con disabilità visiva e alle loro famiglie di accedere al cuore della vita sociale ed ecclesiale.

3. La spiritualità e l’apostolato dei ciechi

Non si deve tuttavia trascurare che la presenza della disabilità, e in speciale modo quella relativa alla cecità, suscita una serie di domande spirituali anche sul senso della sofferenza e sul come viverla e valorizzarla.

Ne consegue, pertanto, il dovere pastorale di annunciare – come ricordava il Beato Giovanni Paolo II nella Lettera apostolica Salvifici doloris – che Cristo ha elevato la sofferenza umana a livello di redenzione e ha donato ad ogni uomo la possibilità, nella sofferenza, di diventare partecipe della Sua opera redentiva. Nel nostro vivere in Cristo, la sofferenza è vinta dall’interno e il suo senso di assurdità viene appianato o superato attraversandola insieme a Lui, perché di fatto è Lui che la vive in noi trasformandola in amore che redime.

E la figura emblematica del ‘Buon Samaritano’, da parte sua, incita costantemente la Comunità dei discepoli del Signore a imitare il Suo amore compassionevole e a farci prossimo accanto a chi soffre: «La Chiesa, che nasce dal mistero della redenzione nella croce di Cristo, è tenuta a cercare l’incontro con l’uomo in modo particolare sulla via della sofferenza. In un tale incontro l’uomo “diventa la via della Chiesa”, ed è, questa, una delle vie più importanti» (GIOVANNI PAOLO II, Lett. ap. Salvifici doloris, n. 3). In tale senso, anche quando la risoluzione competa del problema risulta impraticabile, impossibile o umanamente improbabile, una forma di guarigione può sempre avvenire, grazie ad una comunità che accoglie e sostiene, grazie anche alle capacità proprie della persona toccata dalla cecità e grazie a nuove possibilità che man mano si aprono, nella scienza e nella speranza, davanti a noi.

In questo spirito di servizio ecclesiale alle persone non vedenti o con diverse patologie connesse alla cecità, come Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari (per la Pastorale della Salute), ringrazio fin da ora coloro che hanno accolto l’invito a prendere parte a questo Convegno, apportando tasselli concreti dal punto di vista teologico, scientifico e pastorale ad un mosaico di grazia, nel quale a pieno titolo come Chiesa ci sentiamo custodi di tanti nostri fratelli, negli occhi dei quali contempliamo il riflesso certo di Cristo Risorto.

A voi, cari non vedenti di tutto il mondo, rivolgo il mio più cordiale saluto in alcune delle principali lingue, con le parole stesse del nostro amato Santo Padre Benedetto XVI: «Voi non siete solo destinatari dell’annunzio del messaggio evangelico, ma ne siete, a pieno titolo, anche annunciatori, in forza del vostro Battesimo.

Vivete quindi ogni giorno da testimoni del Signore negli ambienti della vostra esistenza, facendo conoscere Cristo e il suo Vangelo» (BENEDETTO XVI, Discorso ai partecipanti alla Conferenza Internazionale Effatà! La persona sorda nella vita della Chiesa, promossa dal Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, 20 novembre 2009).

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ZENIT Staff

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