CITTA' DEL VATICANO, venerdì, 16 marzo 2012 (ZENIT.org).- Riprendiamo il testo della seconda predica di Quaresima di padre Raniero Cantalamessa, O.F.M. Cap., predicatore della Casa Pontificia, pronunciata questa mattina nella Cappella “Redemptoris Mater” alla presenza di Papa Benedetto XVI.

***

In anni non lontani, si sono avute proposte teologiche che, nonostante le differenze profonde tra di loro, avevano uno schema di fondo comune, a volte chiaro, a volte sottinteso. Tale schema è semplicissimo, perché riduttivo. I due massimi misteri della nostra fede sono la Trinità e l'incarnazione: Dio è uno e trino; Gesù Cristo è Dio e uomo. Nelle proposte a cui mi riferisco, tale nucleo suona: Dio è uno, e Gesù Cristo è uomo. Viene a cadere la divinità di Cristo e, con essa, la Trinità.

Il risultato di questo processo è che si finisce per accettare tacitamente e ipocritamente l'esistenza di due fedi e due cristianesimi diversi, che non hanno più in comune tra di loro se non il nome: il cristianesimo del Credo della Chiesa, delle dichiarazioni ecumeniche congiunte, in cui, con le parole del simbolo Niceno-Costantinopolitano, si continua a professare la fede nella Trinità e nella piena divinità di Cristo, e il cristianesimo di larghi strati della cultura, anche esegetica e teologica, in cui queste stesse verità vengono ignorate o interpretate in tutt'altro modo.

In questo clima è quanto mai opportuna una rivisitazione dei Padri della Chiesa, non solo per conoscere il contenuto del dogma nel suo stato nascente, ma ancor più per ritrovare la vitale unità tra la fede professata e la fede vissuta, tra la “cosa” e la sua “enunciazione”. Per i Padri la Trinità e l’unità di Dio, la dualità delle nature e l’unità della persona di Cristo non erano verità da decidere a tavolino o discutere nei libri in dialogo con altri libri; erano realtà vitali. Parafrasando una battuta che circola negli ambienti sportivi, potremmo dire che tali verità non erano per essi questione di vita o di morte; erano molto di più!

1. Gregorio Nazianzeno, cantore della Trinità

Il gigante sulle spalle del quale vogliamo salire oggi è san Gregorio Nazianzeno, l’orizzonte che con lui vogliamo scrutare è la Trinità. Suo è il grandioso quadro che mostra il dispiegarsi della rivelazione della Trinità nella storia e la pedagogia di Dio che si rivela in esso. L’Antico Testamento, scrive, proclama apertamente l’esistenza del Padre e comincia ad annunziare velatamente quella del Figlio; il Nuovo Testamento proclama apertamente il Figlio e comincia a rivelare la divinità dello Spirito Santo; ora, nella Chiesa, lo Spirito ci concede distintamente la sua manifestazione e si confessa la gloria della beata Trinità. Dio ha dosato la sua manifestazione, adeguandola ai tempi e alla capacità recettiva degli uomini1.

Questa triplice ripartizione non ha nulla a che vedere con la tesi, conosciuta sotto il nome di Gioacchino da Fiore, delle tre epoche distinte: quella del Padre, nell’Antico Testamento, quella del Figlio nel Nuovo e quella dello Spirito nella Chiesa. La distinzione di san Gregorio si colloca nell’ordine della manifestazione, non dell’essere o dell’agire delle Tre Persone, le quali sono presenti e operano insieme in tutto l’arco del tempo.

San Gregorio Nazianzeno ha ricevuto nella tradizione l’appellativo di “il Teologo” (ho Theologos), proprio per il suo contributo alla chiarificazione del dogma trinitario. Il suo merito è di aver dato all’ortodossia trinitaria la sua formulazione perfetta, con frasi destinate a diventare patrimonio comune della teologia. Il simbolo pseudo-atanasiano “Quicumque”, composto circa un secolo dopo, deve non poco a Gregorio Nazianzeno.

Ecco alcune delle sue formule cristalline:

“Era, ed era, ed era: ma era uno solo. Luce e luce e luce: ma una sola luce. Questo è quello che David si immaginò quando disse: ‘Nella tua luce noi vedremo la luce’ (Sal 35,10). E ora noi l’abbiamo contemplata e la annunciamo, dalla luce che è il Padre comprendendo la luce che è il Figlio nella luce dello Spirito: ecco la breve e concisa teologia della Trinità[…] Dio, se è lecito parlare succintamente, è indiviso in esseri divisi l’uno dall’altro”2.

Il contributo principale dei Cappadoci nella formulazione del dogma trinitario è quello di aver portato a termine la distinzione dei due concetti di ousia e ipostasi, sostanza e persona, creando la base concettuale permanente con cui si esprime la fede nella Trinità. Si tratta di una delle innovazioni più grandiose che la teologia cristiana ha introdotto nel pensiero umano. Da essa ha potuto svilupparsi il moderno concetto di persona come relazione.

Il lato debole della loro teologia trinitaria, da essi stessi avvertito, era il pericolo di concepire il rapporto tra l’unica sostanza divina e le tre ipostasi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo alla stregua del rapporto che esiste in natura tra la specie e gli individui (per esempio, tra la specie umana e i singoli uomini), prestando così il fianco all’accusa di triteismo3.

Gregorio Nazianzeno si sforza di rispondere a questa difficoltà, affermando che ognuna delle tre persone divine non è meno unita alle altre due di quanto sia unita a se se stessa4. Rifiuta, per lo stesso motivo, le similitudini tradizionali di “fonte, rivo, fiume” o “sole, raggio, luce”5. Alla fine ammette, però, candidamente di preferire questo rischio a quello opposto del modalismo: “È meglio, dice, avere un’idea, magari insufficiente, dell’unione dei Tre, piuttosto che osare un’empietà assoluta”6.

Perché scegliere san Gregorio Nazianzeno come maestro di fede nella Trinità? Il motivo è lo stesso per il quale abbiamo scelto Atanasio come maestro di fede nella divinità di Cristo e Basilio come maestro di fede nello Spirito Santo. È che per Gregorio la Trinità non è una verità astratta, o solamente un dogma; è la sua passione, il suo ambiente vitale, qualcosa che fa vibrare il suo cuore al solo nominarla

Gli ortodossi lo chiamano “il cantore della Trinità”. Ciò corrisponde perfettamente a quello che sappiamo della sua personalità umana. Il Nazianzeno è un uomo dal cuore più grande ancora della mente, un temperamento sensibile fino all’eccesso, tanto da procurargli non poche delusioni e sofferenze nei suoi rapporti con gli altri, a partire dal suo amico san Basilio.

È nella sua produzione poetica che si rivela soprattutto il suo entusiasmo per la Trinità. Egli usa espressioni come “la mia Trinità”, “la cara Trinità”7. Gregorio è un innamorato della Trinità. Scrive di sé stesso:

“A partire dal giorno in cui ho rinunciato alle cose di questo mondo per consacrare la mia anima alle contemplazioni luminose e celesti, quando l’intelligenza suprema mi ha rapito da quaggiù per posarmi lontano da tutto ciò che è carnale, da quel giorno i miei occhi sono stati abbagliati dalla luce della Trinità…Dalla sua sublime sede essa spande su ogni cosa il suo irradiamento ineffabile... A partire da quel giorno io sono morto al mondo e il mondo è morto per me” 8.

Basta confrontare queste parole con le espressioni tecnicamente perfette, ma fredde del simbolo “Quicumque” che si recitava un tempo nell’ufficio divino della domenica, per renderci conto della distanza che separa la fede vissuta dei Padri da quella formale e ripetitiva che si instaura dopo di loro, anche se quest’ultima assolve anch’essa un compito importante.

2. Non possiamo vivere senza la Trinità

Ora, come al solito, qualche riflessione su quello che i Padri possono offrirci, in questo campo, per un rinnovamento della nostra fede. È risap uto che la teologia occidentale ha sempre dovuto difendersi dal rischio opposto a quello del triteismo da cui, abbiamo visto, deve difendersi il Nazianzeno; il rischio cioè di accentuare l’unità della natura divina, a scapito della distinzione delle persone.

Su questo terreno ha potuto svilupparsi la visione deistica di Cartesio e degli illuministi che prescinde del tutto dalla Trinità per concentrarsi unicamente su Dio, concepito come Essere supremo o come “la divinità”. ne ha tratto la nota conclusione, secondo cui “dalla dottrina trinitaria, presa alla lettera, non è possibile ricavare alcunché di pratico” 9. Essa, in altre parole, sarebbe irrilevante per la vita degli uomini e della Chiesa.

Questo è stato senza dubbio uno dei fattori che hanno spianato la strada all’ateismo moderno. Se si fosse tenuto viva in teologia l’idea del Dio Uno e Trino, anziché parlare di un vago “Essere supremo”, non sarebbe stato tanto facile per Feuerbach far trionfare la sua tesi che Dio è una proiezione che l’uomo fa di se stesso e della propria essenza. Che bisogno avrebbe infatti l’uomo di scindersi in tre: in Padre, Figlio e Spirito Santo? E in che senso la Trinità può essere la proiezione e la sublimazione che lo spirito umano fa di se stesso? È il vago deismo che è demolito da Feuerbach, non la fede in Dio uno e trino.

Se però la visione latina della Trinità, da una parte, presta il fianco a questa deviazione deistica, dall’altra contiene il rimedio più efficace contro di essa. Non saremo mai abbastanza grati ad Agostino per aver impostato il suo discorso sulla Trinità sulla parola di Giovanni: “Dio è amore” ( 1 Gv 4,10). Dio è amore: per questo, conclude Agosti­no, egli è Trinità! “L'amore suppone uno che ama, ciò che è amato e l'amore stesso”10. Il Padre è, nella Trinità, colui che ama, la fonte e il principio di tutto; il Figlio è colui che è amato; lo Spirito Santo è l'amore con cui si amano.

Ogni amore è amore di qualcuno o di qualcosa, come ogni conoscenza, ha spiegato Husserl, è conoscenza di qualcosa. Non si dà un amore " a vuoto", senza oggetto. Ora chi ama Dio, per essere definito amore? L'uomo? Ma allora è amore solo da qualche centinaio di milioni di anni. L'universo? Ma allora è amore solo da qualche decina di miliardi di anni. E prima chi amava Dio per essere l'amore? I pensatori greci e, in genere, le filosofie religiose di tutti i tempi, concependo Dio soprattutto come "pensiero", potevano rispondere: Dio pensava se stesso; era "puro pensiero","pensiero di pensiero". Ma questo non è più possibile, nel momento in cui si dice che Dio è anzitutto amore, perché il "puro amore di se stesso" sarebbe puro egoismo, che non è l'esaltazione massima dell'amore, ma la sua totale negazione.

Ed ecco la risposta della rivelazione, esplicitata dalla Chiesa con la sua dottrina della Trinità. Dio è amore da sempre, ab aeterno, perché prima ancora che esistesse un oggetto fuori di sé da amare, aveva in se stesso il Verbo, il Figlio che amava con amore infinito, cioè "nello Spirito Santo". Questo non spiega come l'unità possa essere contemporaneamente trinità (questo è un mistero inconoscibile da noi perché avviene solo in Dio), ma ci basta almeno per intuire perché, in Dio, l'unità deve essere anche pluralità, anche trinità.

Un Dio che fosse pura Conoscenza o pura Legge, o puro Potere non avrebbe certo bisogno di essere trino (questo anzi complicherebbe enormemente le cose); ma un Dio che è anzitutto Amore sì, perché “meno che tra due, non ci può essere amore”. ”Occorre -ha scritto de Lubac- che il mondo lo sappia: la rivelazione del Dio Amore sconvolge tutto quello che esso aveva concepito della divinità” 11.

Quella dell’amore non è cer­tamente che un'analogia umana, ma è senza dubbio quella che meglio ci permette di gettare uno sguardo nelle profondità misteriose di Dio. In questo si vede come la teologia latina integra quella greca e le due non possono fare a meno l’una dell’altra. Il tema dell’amore è quasi del tutto assente nella teologia trinitaria degli orientali che usano di preferenza l’analogia della luce. Bisogna aspettare Gregorio Palamas per leggere, nell’ambito greco, qualcosa di analogo a quello che dice Agostino sull’amore nella Trinità12.

Qualcuno vorrebbe oggi mettere tra parentesi il dogma della Trinità per facilitare il dialogo con le altre grandi religioni monoteistiche. È una operazione suicida. Sarebbe come togliere a una persona la spina dorsale per farla camminare più speditamente! La Trinità ha talmente improntato di sé teologia, liturgia, spiritualità e l’intera vita cristiana che rinunciare ad essa significherebbe iniziare un’altra religione, completamente diversa.

Quello che si deve fare è piuttosto, come ci insegnano i Padri, calare questo mistero dai libri di teologia nella vita, in modo che la Trinità non sia solo un mistero studiato e rettamente formulato, ma vissuto, adorato, goduto. La vita cristiana si svolge, dall’inizio alla fine, nel segno e in presenza della Trinità. All’alba della vita, fummo battezzati “nel nome del Padre e del Figlio dello Spirito Santo”, e alla fine, se avremo la grazia di morire cristianamente, accanto al nostro capezzale verranno recitate le parole: “Parti, anima cristiana, da questo mondo: nel nome del Padre che ti ha creata, del Figlio che ti ha redenta e dello Spirito Santo che ti ha santificata”.

Tra questi due momenti estremi, si collocano altri momenti cosiddetti “di passaggio” che, per un cristiano, sono contrassegnati tutti dall’invocazione della Trinità. Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo gli sposi vengono congiunti in matrimonio e si scambiano l’anello e i sacerdoti e i vescovi vengono consacrati. Nel nome della Trinità iniziavano una volta i contratti, le sentenze e ogni atto importante della vita civile e religiosa. La Trinità è il grembo in cui siamo stati concepiti (cf. Ef 1,4) ed è anche il porto verso cui tutti navighiamo. È “l’oceano di pace” da cui tutto sgorga e in cui tutto rifluisce.

3. “O beata Trinitas!”

San Gregorio Nazianzeno dovrebbe aver suscitato in noi un desiderio ardito circa la Trinità: fare di essa la “nostra” Trinità, la “cara” Trinità, l’“amata” Trinità. Alcuni di questi accenti di commossa adorazione e stupore risuonano nei testi della solennità della Santissima Trinità. Dobbiamo farli passare dalla liturgia alla vita. ’è qualcosa di più beato che possiamo fare nei riguardi della Trinità che cercare di comprenderla, ed è entrare in essa! Noi non possiamo abbracciare l’oceano, ma possiamo entrare in esso; non possiamo abbracciare il mistero della Trinità con la nostra mente, ma possiamo entrare in esso!

La “porta” per entrare nella Trinità è una sola, Gesù Cristo. Con la sua morte e risurrezione egli ha inaugurato per noi una via nuova e vivente per entrare nel santo dei santi che è la Trinità (cf. Eb 10,19-20) e ci ha lasciato i mezzi per poterlo seguire in questo cammino di ritorno. Il primo e più universale è la Chiesa. Quando si vuole attraversare un braccio di mare, diceva Agostino, la cosa più importante non è starsene sulla riva e aguzzare la vista per vedere cosa c’è sulla sponda opposta, ma è salire sulla barca che porta a quella riva. E anche per noi la cosa più importante non è speculare sulla Trinità, ma rimanere nella fede della Chiesa che va verso di essa13.

Nella Chiesa, il mezzo per eccellenza è l’Eucaristia. La Messa è un’azione trinitaria dall’inizio alla fine; inizia nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo e termina con la benedizione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Essa è l’offerta che Gesù, capo e corpo mistico, fa di se al Padre nello Spirito Sant o. Attraverso di essa entriamo davvero nel cuore della Trinità.

Per i fratelli ortodossi un mezzo importante per entrare nel mistero è l’icona. La Trinità di Rublev - di cui abbiamo una riproduzione in mosaico davanti a noi in questa cappella - è una sintesi visiva della dottrina trinitaria dei Cappadoci e in particolare di Gregorio Nazianzeno. In essa si percepisce, in uguale misura, moto incessante e sovrumana quiete, trascendenza e condiscendenza. Il dogma dell’unità e trinità di Dio viene espresso dal fatto che le figure presenti sono tre e ben distinte, ma somigliantissime tra loro. Esse sono contenute idealmente dentro un cerchio che mette in luce la loro unità; ma con il loro diverso movimento e disposizione proclamano anche la loro distinzione.

Il santo, per il cui monastero fu dipinta l’icona, san Sergio di Radonez, si era distinto nella storia russa per aver riportato l’unità tra i capi in discordia tra di loro e aver reso così possibile la liberazione della Russia dai Tartari che l’avevano invasa. Il suo motto - che Rublev si è sforzato di interpretare con l’icona - era: “Contemplando la Santissima Trinità, vincere l’odiosa discordia di questo mondo”. San Gregorio Nazianzeno aveva espresso un pensiero simile in questi versi che sembrano il suo testamento spirituale:

Cerco la solitudine, un luogo inaccessibile al male,
Dove con mente indivisa cercare il mio Dio
E alleviare la mia vecchiaia con la dolce speranza del cielo.
Cosa lascerò alla Chiesa? Lascerò le mie lacrime!...
Volgo i pensieri alla dimora che non conosce tramonto,
Alla mia cara Trinità, unica luce,
Di cui la sola ombra oscura ora mi commuove” 14.

La spiritualità latina non è meno ricca di aiuti per fare della Trinità un mistero vicino, amato. Essa insiste anche sul movimento inverso: non noi che entriamo nella Trinità, ma la Trinità che entra in noi. Nella tradizione ortodossa, la dottrina dell’inabitazione è riferita di preferenza alla persona dello Spirito Santo. È la teologia latina che ha sviluppato, in tutte le sue potenzialità, la dottrina biblica dell’inabitazione di tutta la Trinità nell’anima: “Il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui” (Gv 14, 23) 15. Pio XII le ha riservato un posto nella sua Mystici corporis, dicendo che grazie ad essa noi “partecipiamo fin d’ora alla gioia e alla beatitudine della Trinità” 16.

San Giovanni della Croce dice che “l’amore che è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo” (Rom 5,5) non è altro che l’amore con cui il Padre, da sempre, ama il Figlio. È un traboccare dell’amore divino dalla Trinità a noi. Dio comunica all’anima “lo stesso amore che comunica al Figlio, anche se ciò non avviene per natura, ma per unione…L’anima partecipa di Dio, compiendo, insieme con lui, l’opera della Santissima Trinità”17. La beata Elisabetta della Trinità ci suggerisce un metodo semplice per tradurre tutto ciò in un programma di vita: “Tutto il mio esercizio consiste nel rientrare in me stessa e perdermi nei Tre che sono là” 18.

Io vedo in ciò un motivo in più, e tra i più profondi, per evangelizzare. Leggevo giorni fa, nella liturgia delle ore, le parole Dio in Isaia: “Ecco su chi io poserò lo sguardo:
su colui che è umile, che ha lo spirito afflitto e trema alla mia parola” (Is 66,2). Sono stato colpito da un pensiero. Ecco, mi sono detto, in che consiste la grande differenza tra chi è battezzato e chi non lo è: su chi non è battezzato, Dio “volge lo sguardo”, è presente intenzionalmente, con il suo amore e la sua provvidenza; in chi è battezzato, egli non volge solamente lo sguardo ma viene ad abitare in lui di persona, anzi con tutte le tre divine Persone. È vero che una presenza intenzionale corrisposta può essere più accetta a Dio che una presenza battesimale trascurata o rifiutata (e questo deve riempirci di responsabilità e umiltà), ma sarebbe ingratitudine non riconoscere la differenza che fa l’essere o non essere cristiani.

Terminiamo recitando insieme la dossologia che conclude il canone della Messa e che costituisce la più breve e la più densa preghiera trinitaria della Chiesa: “Per Cristo, con Cristo, in Cristo, a te, Dio Padre onnipotente, nell’unità dello Spirito Santo, ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen”

*

1 Cf. Gregorio Nazianzeno, Oratio 31, 26. Trad. ital di C. Moreschini, I cinque discorsi teologici, Roma, Città Nuova, 1986.

2 Oratio 31, 3.14.

3 Cf. Basilio, Epistola 236,6.

4 Gregorio Naz., Oratio. 31,16.

5 Ib. 31, 31-33.

6 Ib. 31, 12.

7 Gregorio Naz., Poemata de seipso, I,15; I, 87 (PG 37, 1251 s.; 1434).

8 Ib., I,1 (PG 37, 984-985).

9 E. Kant, Il conflitto delle facoltà, A 50 (WW, ed. W. Weischedel, VI, p.303).

10 Agostino, De Trinitate,VIII, 10, 14.

11 H. de Lubac, Histoire et Esprit, Aubier, Parigi 1950, cap.5.

12 Gregorio Palamas, Capita physica, 36 (PG 150, 1144s.).

13 Agostino, De Trinitate, IV,15,30; Confessioni, VII, 21.

14 Gregorio Nazianzeno, Poemata de seipso, I,11 (PG 37, 1165 s.).

15 Cf. R. Moretti – G.-M. Bertrand, Inhabitation, in “Dict.Spir.”, 7, 1735.1767.

16 Pio XII, Mystici corporis, AAS, 35, 1943, pp.231 s.

17 S. Giovanni della Croce, Cantico spirituale A, strofa 38.

18 Elisabetta della Trinità, Lettere, 151, (Scritti, Roma 1967, p. 274).