di Carlo Climati
ROMA, venerdì, 11 novembre 2011 (ZENIT.org).- Dal 9 all’11 novembre 2011 si è tenuto a Roma, nell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, un convegno internazionale sul tema della teologia del corpo.
All’incontro hanno partecipano esperti da varie parti del mondo, che hanno approfondito la tematica da una prospettiva interdisciplinare: bioetica, filosofica, giuridica, biblica, umanistica, teologica, pastorale e anche dal punto di vista artistico e della comunicazione.
L’incontro è stato aperto da un intervento di padre Pedro Barrajón LC, rettore dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, che ha sottolineato il grande contributo della teologia del corpo alla cultura contemporanea.
“La teologia del corpo – ha spiegato padre Pedro Barrajón – permette in modo fecondo di combinare ragione e fede. Poter ascoltare e riflettere sulla parola di Dio servendosi di strumenti metodologici provati, come ha fatto Giovanni Paolo II, è di grande aiuto per una migliore comprensione della rivelazione e giova ad approfondire il significato ultimo di tale parola”.
Secondo padre Pedro Barrajón la teologia del corpo “pone in un’antropologia adeguata il corpo umano, senza disgiungerlo della vera spiritualità, dandole un carattere personalista e profondamente umano”. Contribuisce a dare al corpo il peso che gli è dovuto, “sottolineando allo stesso tempo il suo limite intrinseco che verrà però riscattato dal compimento della redenzione al momento della resurrezione”.
Tra i numerosi interventi del congresso, mons. Zygmunt Zimowski, presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori sanitari, ha parlato del tema del corpo e della sofferenza, citando la Lettera Apostolica “Salvifici Doloris”, in cui Giovanni Paolo II spiega come la sofferenza dia la possibilità all’uomo di entrare nel dialogo con Dio.
“Ciò che viene rivelato circa il corpo in sofferenza – ha affermato mons. Zimowski – è la sua apertura al mondo nella forma di vulnerabilità. Questa apertura ci guida alla solidarietà con i nostri simili: il corpo diventa luogo di comunione, per mezzo della compassione (dal latino ‘soffrire con’).
Giovanni Paolo II individua il contenuto dell’esperienza del corpo, considerando l’atto redentore di Cristo. In primo luogo, troviamo la possibilità di sofferenza come apertura agli altri: ‘Se un uomo diventa partecipe delle sofferenze di Cristo, ciò avviene perché Cristo ha aperto la sua sofferenza all’uomo, perché egli stesso nella sua sofferenza redentiva è divenuto, in un certo senso, partecipe di tutte le sofferenze umane. L’uomo, scoprendo mediante la fede la sofferenza redentrice di Cristo, insieme scopre in essa le proprie sofferenze, le ritrova, mediante la fede, arricchite di un nuovo contenuto e di un nuovo significato (SD 20)’. L’esperienza concreta del corpo, ora attraverso la porta stretta della sofferenza, ci offre il contatto con l’uomo e anche con la trascendenza di Dio”.
Il tema della sofferenza è stato affrontato anche da padre Paolo Scarafoni LC, rettore dell’Università Europea di Roma, che ha offerto un forte messaggio di speranza nella sua relazione su “Corpo, morte e vita eterna”.
“E’ il corpo che apre la strada della speranza verso la resurrezione – ha ricordato padre Paolo Scarafoni – e ci pone davanti a Cristo come nostra speranza, dando alla fede in Lui la fondamentale dimensione della speranza (cfr. Spe salvi). L’annuncio di Lui risuona nei secoli (omelia di Pasqua 2009 di Benedetto XVI), l’annuncio della sua resurrezione che dà speranza. In questo consiste il cristianesimo, tutta la fede cristiana.
Il nostro corpo sembra contraddire questa fede e questa speranza. Siamo chiaramente nella situazione di redenti ma irredenti, perché il nostro corpo non risorge ancora, non è corpo glorioso, non vive ancora eternamente. Noi moriamo e non vediamo risorgere i morti. Ma proprio per questo possiamo credere che la resurrezione consiste nell’entrare in una nuova dimensione, e non in un ritorno del corpo alla vita attuale. Cristo non ci permette di pensare questo, perché non fa risorgere in quel modo il nostro corpo.
Il pretendere di vedere oramai la resurrezione, il pretendere di vincere la debolezza del corpo e anche dello spirito da subito, significa ridurre la resurrezione alla nostra dimensione, anche se fosse la migliore dimensione che possiamo immaginare. Non è così. La resurrezione di Cristo ispira e produce frutti di vita nuova già da adesso, ma non si lascia ridurre alla nostra situazione attuale. La resurrezione inaugura una nuova dimensione della vita umana. Riguarda tutta l’umanità, che acquista una vita nuova, divina appunto. Ma questo è realizzato pienamente soltanto in Cristo, e noi dobbiamo aspettare per entrare, finché rimaniamo in questo mondo”.
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Avviso ai lettori: nell’edizione di domani, sabato 12 novembre, l’agenzia ZENIT dedicherà ampio spazio al convegno con uno SPECIALE.
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