ROMA, sabato, 12 novembre 2011 (ZENIT.org).- Chiudiamo il nostro Speciale con la conferenza “Alla ricerca del corpo perduto: il corpo nella società contemporanea”, di Michaela Liuccio, professore aggregato di Sociologia dell’Università “La Sapienza” di Roma.
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Fattori sociali ed economici hanno creato una dimensione nuova dell’intero sistema scienza-salute-benessere: alla soddisfazione dei bisogni primari si è progressivamente affiancata la ricerca del benessere fisico e mentale. Attraverso un crescente processo di democratizzazione dell’informazione scientifico-sanitaria si è diffusa una consapevole partecipazione dei cittadini alla conoscenza e all’utilizzo dei determinanti della salute, intesi non solo come contesti salutari ma come prodotti e servizi.
Oggi la vita e il corpo si possono gestire. La vita si produce, si costruisce nel mondo della tecnica e del progresso. Dopo l’era della natura e del destino, dunque, si scopre l’era della scelta che è poi anche quella del mercato. L’uomo medio del XXI secolo è chiamato a gestire un capitale di lunga vita di cui sarà responsabile, di cui porterà avanti il consumo e di cui determinerà la fine. Quella della produzione dei corpi e della produzione della vita è senza dubbio la sfida più notevole del nuovo secolo, che abbraccia la sfera politica, sociale, economica e scientifica della condizione umana.
La trasformazione della condizione umana passa dai confini progettuali della politica, ormai svuotata, alle mani della scienza e del mercato. Sterilità, invecchiamento, menopausa, male di vivere, passione: tutto si può riparare se viene posto un prezzo e se viene offerto dal mercato. Si tratta di una nuova economia che si diffonde, un’economia che ha come oggetto e come ragione il corpo. Questo mercato della riparazione e della trasformazione si avvicina più a quello della cura del proprio corpo, della rimessa in forma, anche con l’uso dei cosmetici, che a quello della salute vera e propria. Del resto anche la concentrazione dei budget della ricerca scientifica in questi settori conferma il trionfo del mercato dell’immagine di sé. Nel campo della lotta all’invecchiamento o di quello del trattamento della sterilità, campi limite della salute, o a volte anche fuori della salute stessa, si sono compiuti ultimamente numerosi progressi. Possiamo scegliere quello che siamo, abbiamo la libertà nei confronti del corpo, del sesso, della razza, per poter in ogni luogo e tempo affermare il nostro diritto di essere non quello che si è ma quello che si vuole. Ognuno oggi è “il designer o l’architetto di se stessa”, e opera evidentemente sul proprio corpo, dando vita ad una sorta di self-packaging.
In tutti i paesi sviluppati, progressivamente la spesa sanitaria per il confort e per il benessere sta diventando superiore a quella del PIL e dell’inflazione. Certo la predilezione per le spese di salute rispetto agli altri consumi cresce parallelamente all’età media della popolazione e alla libertà dei prezzi, delle offerte e della concorrenza. Nel corso di dieci anni più di un quarto del PIL mondiale potrebbe dipendere da un settore economico formatosi grazie a unioni tra società private ed enti pubblici in questo campo, tra fabbriche di cosmetici, ad esempio, ed enti sanitari, tra industriali dell’agro-alimentare e centri di fitness, tra colossi dell’elettronica e centri di apparecchiatura per il corpo (protesi, sistemi sottocutanei di ricevimento, ecc.). Questo settore aumenta di pari passo con il reddito e occupa il primo posto nella struttura dei consumi personali. Per altro, se si dovesse tener conto di tutte le spese di salute che rientrano nella definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, ovvero che mirano ad assicurare in modo durevole “il benessere fisico, mentale e psichico della persona”, si dovrebbero aggiungere alle spese per la sanità pubblica quelle mediche di comfort, come la chirurgia estetica, le spese per la forma fisica e la cura del corpo, le spese per le cure di bellezza che contribuiscono all’immagine e alla soddisfazione di sé. Senza poi dimenticare le spese che riguardano la pratica di uno o più sport, le spese per le terapie analitiche e per le droghe legali che calmano i tormenti interiori.
Sempre più spesso oggi gli individui percepiscono quotidianamente di non avere sufficiente tempo per poter stare al passo con lo sviluppo ipertrofico della società. La percezione di una carenza di tempo e la tendenza a dormire sempre meno producono l’insonnia. Ma dormendo poco, l’organismo non libera la leptina (l’ormone che inibisce la sensazione della fame), bensì la grelina, che stimola invece l’appetito. Ne deriva che l’individuo tende progressivamente a ingrassare. Anche il Dai (disturbo da alimentazione incontrollata) è un importante segnale in questo senso. Altra conseguenza è l’assenza di limiti, perché l’esperienza della mancanza è considerata dagli psicologi fondamentale per lo sviluppo di una solida personalità individuale. La formazione di una personalità in un contesto in cui i divieti sono sostituiti dai godimenti può produrre nell’individuo una condizione di angoscia. L’angoscia del bambino si crea soprattutto per un’eccessiva disponibilità del seno materno, che crea l’inadeguato sviluppo di un processo di autonomizzazione.
Inoltre l’organismo ha la necessità fisiologica di alternare continuamente attività piacevoli e attività non piacevoli. Se ciò non avviene nasce negli individui il bisogno di fare ricorso a stimoli esterni forti per spezzare la routine della quotidianità e per ricreare una parvenza di alternanza (droghe, alcol). E’ una conseguenza della crescita senza limiti anche l’impegno eccessivo nel lavoro o nello sport per raggiungere risultati sempre più elevati. Se, nonostante l’iperattivismo, gli obiettivi fissati non vengono raggiunti, si produce malessere perché subentra la frustrazione. Da ciò nasce il ricorso a psicofarmaci, droghe, alcol, ma nasce anche la sindrome da stanchezza cronica, cuoriosa malattia dell’ipersviluppo.
Secondo alcuni studiosi americani (Gilman 2006) l’ossessione per il grasso si nutre di ragioni morali molto più che di motivazioni scientifiche. Oggi saremmo di fronte ad un nuovo tipo di maccartismo, una demonizzazione moralistica del grasso che ha l’implicito scopo di isolare e controllare le minoranze etniche e i meno privilegiati. D’altro canto gli appartenenti alle minoranze etniche spesso mangiano di più e peggio proprio per compensare il fatto che sono disprezzate ed emarginate dalla società. Esiste dunque una relazione tra ricchezza, cultura e salute, e non solo per l’accesso a strutture sanitarie e prestazioni mediche qualitativamente migliori, ma anche perché il livello socio culturale implica un rapporto più equilibrato con l’offerta alimentare e una maggiore resistenza allo stress della vita d’oggi. Nella società più avanzata del pianeta si assiste ad una sorta di discriminazione nei disordini alimentari: interessano poco i Wasp e molto le minoranze. Ma il problema non è solo degli Stati Uniti. L’International Obesity Task Force ha recentemente definito l’ambiente della società occidentale obesogeno. In Europa si assiste ad un netto distinguo geografico tra zona settentrionale ed area mediterranea. Il distinguo geografico è confermato anche in Italia, segno dello stretto intreccio tra gestione del corpo e fattori socio-culturali.
Il corpo del migrante, più nella sua veste di immigrato che di quella di emigrante, è per l’immaginario medio privo di una qualsiasi soggettività essendo ritenuto piuttosto un oggetto, una non-persona il cui corpo viene definito dalla percezione e dalla posizione che la società di accoglienza gli accorda. I corpi degli immigrati sono corpi abitati da uomini e donne che si muovono fra altri corpi di uomini e donne alla
ricerca di un lavoro e dove l’agognato concetto di benessere e prendersi cura di sé, imperativo categorico onnipresente nelle società del capitalismo avanzato, si traduce semplicemente nella speranza di non ammalarsi per poter lavorare o nella possibilità di una qualche rassicurazione se a quel corpo succede qualcosa. Questo corpo, dunque, diventa per l’immigrato uno strumento, un mero utensile di e da lavoro in termini biologici che è assolutamente estraneo come corpo sociale ma che, al contrario, viene spesso esteticamente definito (Sayad 2003). Ma proprio su questo corpo il disagio intanto si in-scrive, un disagio che forse solo il corpo può narrare.
Come detto in precedenza, il corpo, che in ciò che ha di più naturale in apparenza è un prodotto sociale del processo incorporativo, non può essere studiato che nelle sue rappresentazioni per come viene abitato e quindi utilizzato, modellato, tagliato e ricostruito. Ma se è vero che per molti, evidentemente quelli che vivono in una certa parte del mondo, il corpo si è liberato, affrancato e realizzato, anche se forse solo apparentemente, o quanto meno vi sono strade percorribili per mettere in pratica un progetto sul medesimo (vd. la chirurgia estetica o le nuove frontiere dei trapianti); è altrettanto vero che per altri, ossia gli immigrati, le strade percorribili sono quelle dei percorsi assegnati, dove anche un cambiamento verso l’omologazione può realizzarsi solo a caro prezzo, in termini di energie ma anche in senso economico. In sostanza, mentre per gli uni si tratta di appagare desideri o forse di far vivere un’illusione, per gli altri si tratta di ripiegarsi verso una posizione di annullamento e di invisibilità della soggettività senza trovarsi mai completamente rieducati e disciplinati.
Una delle maggiori contraddizioni della emigrazione e della relativa immigrazione, sta proprio nella relazione della persona con il proprio corpo, inteso quest’ultimo sia come oggetto di presentazione e rappresentazione di sé, sia come luogo degli affetti e dell’intelletto, sia come strumento di lavoro. Rispetto alla relazione che esiste fra l’immigrato, il suo corpo e la società di accoglienza, non possiamo non rilevare quanto il corpo dell’immigrato divenga, talvolta, non solamente “estraneo” ma assolutamente “incomprensibile”. Questo perché ciò che entra in conflitto sono, da un lato, i processi di incorporazione legati all’esperienza socio-culturale nel contesto di provenienza e, dall’altro, il modello che la società “di accoglienza” vorrebbe che l’immigrato incorporasse, nella forma dell’integrazione, spesso semplice acculturazione forzata: una vera e propria rieducazione travestita sotto le mentite e celate spoglie di una interculturalità di superficie che non incide sui caratteri della disuguaglianza. Per comprendere meglio tutte queste dinamiche è necessario mettere a fuoco proprio questo spostamento di attenzione dal corpo-sé al corpo-altro.
Nella società contemporanea emerge sempre più l’importanza e il peso per la medicina dello human enhancement, ovvero del miglioramento umano. Spesso la medicalizzazione nel proporre la cura patologizza la normalità, e le azioni migliorative si innestano sulla normalità per ottimizzarla. Si diffondono farmaci, droghe e interventi per migliorare il corpo. In molti casi i mass media divulgano questo genere di notizie in modo semplicistico, alimentando false aspettative, e, per altro, uno dei rischi maggiori dei discorsi sull’uso di tecnologie per il miglioramento è : l’obliterazione dei fattori sociali ed economici nel disegnare le traiettorie di benessere, salute e malattia delle persone. Si creano così circoli viziosi di scelta, responsabilità, gap, disagio soprattutto a discapito delle classi più deboli culturalmente, socialmente ed economicamente.
Il progetto riflessivo dell’identità personale richiede che il corpo divenga assoggettabile alla volontà e manipolabile, si può dire “mobilitato riflessivamente”. I fattori strutturali del passato tendono a perdere forza (famiglia, welfare state, sindacati, burocrazia amministrativa, classi sociali), e sono stati sostituiti in larga misura dalle strutture dell’informazione e della comunicazione. Ai gruppi ben attrezzati ad impegnarsi nella riflessione su di sé si oppongono gruppi svantaggiati. Chi non è in grado di recepire i nuovi tipi di informazione e non ha accesso ai flussi del sapere, o non è nelle condizioni di apprenderli, è destinato a diventare un “perdente della riflessività”.
Per altro l’industria farmaceutica è, infatti, pronta a cogliere i vantaggi di un nascente mercato bisognoso di strumenti che soddisfino sogni e bisogni, tenendo lontane paure e malattie. Le nuove lifestyle drug americane smaltiscono l’eccessiva dose di alcol, aiutano a superare la timidezza, aumentano la performance sessuale e lavorativa, spostano sempre più la soglia del dolore e della vecchiaia, senza nessuna differenza di età (Critser 2005). Non è un caso che i giovanissimi rappresentino l’ultima conquista del marketing farmaceutico, del resto sono la prima generazione a ricevere informazioni circa il funzionamento di corpo e mente umana dai media anziché dai professionisti.
Infine anche la maternità ben si inserisce in questa complessa gestione del corpo nella società contemporanea. Partorire e mettere al mondo un figlio sono eventi sociali perché hanno a che fare con la funzione sociale di riprodurre la società. Ogni problema/tema che le donne incontrano con la maternità costituisce un problema/tema sociale. Certo per comprendere questi eventi in profondità dobbiamo contestualizzare l’identità sociale della donna che oggi intraprende un percorso procreativo. Le donne partorienti di oggi sembrano meno in grado di trovare da sé la propria forma e modalità di partorire, sono più dipendenti dal parere medico e anche più propense al parto chirurgico, rese convinte di conquistarsi così un ottimo prodotto alla nascita e un corpo (e forse una mente) meno segnata dalla naturalità del dolore.
Il complesso rapporto con la maternità per la donna contemporanea risiede anche nell’ambivalente gestione del proprio corpo. Il corpo della donna di oggi non è più un corpo produttivo per la procreazione, ma è un corpo per sé, performante, identitario che acquista valori e fattezze diverse solo attraverso lo scambio-approvazione con l’altro, nella apparente liquidità dell’assordante immaginario collettivo. Il corpo è oggetto di una costruzione sociale e culturale, e quotidianamente mette in gioco la sua sensibilità a due livelli: quello della percezione sensoriale e quello dell’espressività. In entrambi rientrano l’esperienza della maternità e gli effetti, a breve e lungo termine, che essa porta con sé. Non esiste un esserci corporeo che non sia accompagnato a un tempo da un sentire, un sentire emotivo che si accompagna alle sensazioni corporee e registra, con un senso di benessere o malessere, la qualità dell’ambiente circostante. Parti cesarei e medicalizzazione crescente versus parto a domicilio, parto in acqua, rooming-in in ospedale, campagne di incoraggiamento all’allattamento. Parto naturale versus parto cesareo, con l’uso generalizzato dell’epidurale come modalità per l’espulsione del dolore da corpo della donna. D’altro canto la maternità, durante e dopo, provoca una serie di modifiche sul corpo femminile che mal si conciliano con il narcisismo odierno e la bellezza normativa che lo accompagna. Il modello di corpo contemporaneo è fermo-immagine nella sua giovinezza, molto lontano da tracce di sofferenze, dolore, rigonfiamenti, cambiamenti che la maternità comporta.
BIBLIOGRAFIA
-CRISTER, G., Generation Rx – How prescription drugs are altering American lives, minds and bodies, Mifflin, Houghton, 2005
-GILMAN, S.L., Fat boys: a s
lim book, University of Nebraska Press, 2006
-SAYAD A., La doppia assenza. Dall’illusione dell’emigrato alle sofferenze dell’immigrato, Raffaello Cortina, Milano, 2003